Mario Marchisio, La falena sulla palpebra, Mimesis-Hebenon, Milano 2008.
Imagerie di una nitida, sorprendente machina barocca che snocciola in sonetti marinisti, tasseschi madrigali, quartine, sestine, haiku, salmi, ecc. un Inno alla Morte.
La scrittura, scaturita dalla reclusione, è affidata a foglie smarrite come le sentenze della Sibilla. Le parole, arate dall’amore, seguono i solchi inesorabili di una dettatura d’Angoscia. Da un verso a un altro verso i significati echeggiano foschi preannunci di annientamento.
Emblemi piangenti, sanguinanti arredi, dicono la vita. Una vita che cammina a gran giornate sugli orli dell’abisso verso la morte. Sabbia, rovine, spade in agguato, corvi e un’aquila lassù: condizione inebriante ma vacua dell’esilio. Deserti, foreste, stelle che si spengono. Urti, clangori, fascine che bruciano: nell’attesa dell’inverno la vita è un giorno, ancora un istante.
Emblemi di morte, (una falce, una bara) e di guerra, squadroni di cavalleggeri, si scaraventano nel buio, cui si oppongono invano fragilità lucenti di rose, gigli, fulve margherite.
Sfingi di volti femminili, dagli occhi vuoti, fiammeggiano lunatici tra nebbie gelatinose e vapori maligni, né preannunciano altro che l’impossibilità di presagi che non siano infausti.
Spettri alitano sui campi coperti di neve.
Chronos governa inclemente sugli uomini, i loro fantasmi. Fuochi allungano ombre artigliate. La polvere domina il mondo. Il silenzio e la putredine cingono d’assedio gli spalti corrosi del mondo. L’anima è una foschia che avvolge e obnubila. Basilischi, salamandre, tritoni, aquile, vipere, scorpioni, ouroburos, specchi, marmi, alabastri, presidiano, plasmano e riverberano i sogni e le apparenze umane. Vermi, gufi, ragni, corone di spine, mantidi assassine, roghi e carogne custodiscono i sepolcreti e assimilano le carni alle loro forme. Avvolgono con le loro tele e le loro spire i viventi. La molteplicità delle specie, la moltiplicazione seriale degli oggetti e delle icone, producono una sovrabbondanza della morte.
Dio esiste, forse, ma è lontano da qui. Una notte interrotta da barlumi di stupore, squarci di tenerezza. Angeli apocalittici palpitano tra le cose del mondo, in un vicino altrove, ma anche gli angeli muoiono, ogni Speranza di ricongiungersi in Lui, è riposta in un aldilà, dove terra e cielo, fango e astri, si ricompongano. Sulla Terra solo la molteplicità tentacolare e metamorfica delle tenebre, l’Inferno e il Demonio, le loro sembianze e le loro effigi, sono certi.
L’io, la realtà, il bene e il male: malintesi. Il Paradiso diventa una preghiera, una domanda, un’istanza, più che una speranza, data la certezza dell’inferno in terra.
E di questo incredibile, sfolgorante e fosco lavoro di Mario Marchisio, valgano per tutti questi versi paradigmatici: «Penso alla morte ogni mattina./ Questo letto mi sembra una bara./ Eppure l’aria è così tiepida./ Eppure, sfrecciano all’agognata/ Fine insieme le cose a gara.» (p.88).
Rinaldo Caddeo