La forza della vita

Pubblicato il 21 marzo 2013 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

PIERANGELA ROSSI

Zenit (Raffaelli, 2013)

C’è una singolare coerenza e costanza nell’esperienza di scrittura di Pierangela Rossi, quale si è andata sviluppando in questi anni, da Zabargrad (Book Ed., 2001), a Kairòs (Aragno, 2007) fino a Zenit (Raffaelli, 2013), la raccolta più recente, dove si rivela più che mai forte, cogente. Tanto a livello tematico che espressivo. Una coerenza nel segno di un denudamento dell’Anima di fronte al Mistero di un’Assenza-Presenza, per far emergere allo scoperto i nodi più inquieti, le domande più irrisolte, della vita; una costanza nella rinuncia e spoliazione dell’io di tutto ciò che lo contraddistingue e connota, in termini di terrestrità: alla ricerca di un affrancamento dalla grevità della “carne” e dal peso di una razionalità (“l’oro / esatto del pensiero”), che paralizza e al tempo stesso esalta rifrangendosi nella parola, giocata com’è tra tensioni solo apparentemente antitetiche, tra accensioni sapienziali e visionarie e formule di sobria concretezza; all’individuazione e interrogazione delle risorse essenziali dell’Amore come motore e lievito dell’esistenza (“non è mai abbastanza”, per quanto si sacramentalizzi, diceva in Kairòs), alla scoperta e definizione del proprio “senso”, nello spazio pneumatico dell’umana solitudine, che per sopravvivere e forse rassicurarsi interpella voci e presenze, Nomi (Paolo e Chiara), come in una sorta di esorcismo del buio (non diceva, del resto, Leopardi che il poeta è come il bambino che nella notte per farsi coraggio “canta”?).

Qui, “nella notte più notte”, sulla scena dell’”anonimo / farsi dei giorni”, l’io interroga e si interroga sempre intorno alle stesse questioni: intorno all’Amato, intorno ai suoi “doni” e alle sue incarnazioni negli “affetti” più terreni ed essenziali, ai “segni dei tempi”, intorno alle “attese” sempre incompiute.

Ed è proprio qui in questo sintagma, nell’”anonimo / farsi dei giorni”, credo, il segreto dell’avventura poetica di Pierangela Rossi, quale si dispiega pienamente in Zenit: il brivido inscritto nell’abissalità dell’enjambement che rivela la rapinosa forza della vita, con la sofferenza e la gioia della fedeltà a un “destino”, a una creaturalità senza passato (“noi non siamo il nostro passato”) né futuro (“del futuro non si può dire niente”), se non esposta “al cospetto del sacro”, nell’attimo del proprio esistere (con tutto il suo valore etimologico) come momento di personale responsabilità, come volontà e necessità di essere pensati, in una sorta di capovolgimento dell’apoftegma cartesiano (“cogitor ergo sum”).

Una poesia mistica, dunque, questa di Pierangela Rossi, come hanno detto già altri (Manzoni, Zaccuri e ora Bianca Garavelli): mistica e “teologica”, nel senso che è dotata di una Luce che si sente e solo a tratti si vede nella panoplia franta e febbrile di versi che compongono una sorta di iniziatico poema, di un colloquio ininterrotto col Mistero.

Come non pensare all’equazione stabilita dall’abate de Bremond tra poesia e preghiera?

Un “mosaico scompositivo”, l’aveva già definito l’autrice in Zabargrad; un “ricamo” di sensi, di pronomi, di emozioni, di sogni, lo definiva in Kairòs; ora, finalmente, un “peso zenit” di parole donate e accettate: parole da amare e distribuire, da eucaristicamente condividere, pena il loro scadimento (“- E più nessuna parola sarà sacra / se non rispondi al penso del dono”).

VINCENZO GUARRACINO

(su Avvenire, del 16 marzo 2013)

One comment

  1. Neil ha detto:

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