Michael Krüger Il coro del mondo Milano, Mondadori, 2010 pp. 202 € 15,00
Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini comuni del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio nuovo che ha acquisito una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats rimprovera a Eliot noi lo possiamo rivolgere contro Michael Krüger. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has losta heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».
«A noi, residuo plurilingue», scrive Krüger spetta un linguaggio poetico talmente logorato dalla civiltà mediatica da essere un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius), un qualcosa: «che era già stato scartato» scrive il poeta tedesco, secondo il quale il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti»; quasi che la situazione di attesa dell’uomo contemporaneo sia analoga a quella di chi, poiché «tutti gli aerei atterravano con ritardo/ e non c’erano più decolli», spetti «l’odioso posto in mezzo»; un’attesa che è un intermezzo, un interludio, un interspazio-temporale tra decolli annunciati e cancellati. Come se la cancellazione fosse la spia di una condizione oggettiva per ristabilire il giusto ordine delle cose; è una poesia questa che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna ragione di un tale principio nella società dell’organizzazione totale e della globalizzazione amministrata. Ciò che spetta alla poesia è esplicitamente indicato nella poesia intitolata «Discorso di un viaggiatore», dove il «viaggiatore», dopo il viaggio, si rende conto che non gli è restato nulla: «Se lei permette, prendo un pezzo di pane e un po’ di vino. Grazie. Adesso mi sento quasi come a casa».
Diciamo che è la condizione dell’uomo del tardo Moderno quello che sta a cuore a Krüger, e la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente umano. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative… e che la tendenza al decorativismo costituisca il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno, è un dato difficilmente oppugnabile. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel «reale» del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto (come è stato detto) la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico in quanto: che cos’è l’estetico se non un «servizio» che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazia dispiegata? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni.
La poesia del poeta tedesco ha questo di vero, che si occupa dell’amministrazione degli «scarti» come un amministratore del condominio si occupa dei rapporti millesimali tra i condomini. Il poeta come amministratore del condominio dei propri «scarti», di tutto ciò che è scaduto da tempo ed è perciò inutilizzabile (inutilizzabile innanzitutto per i lettori della borghesia illuminata). Una poesia che cerca se stessa nella discarica indifferenziata dei rifiuti è una «cosa» talmente ostica e inafferrabile da determinare un rifiuto istintivo, lo capisco…così, la migliore poesia per la Germania è quella che descrive la perdita dei foglietti sulla quale la poesia era stata vergata; analogamente, la migliore poesia per descrivere l’«inverno» è quella che «narra» il fatto che il proprietario dell’agenzia di viaggi «ha preso la cassa e ha tagliato la corda», e che «la nettezza urbana» dichiara di non avere problemi, etc. E come vanno le cose con il «quotidiano»? Beh, i rapporti che il poeta tedesco tiene con questa inafferrabile entità sono rapporti del tutto fortuiti, spastici e apotropaici: «In casa tengo la porta solo accostata», per favorire l’entrata della persona che si aspetta, perché «potrebbe darsi che tu venissi. Posso aspettare./ Posso aspettare…». Ed ecco che la poesia si compone più che di esperienze vissute, di mancate esperienze; ovvero, è propriamente la mancanza di esperienza quella che fornisce il paradigma e il pentagramma entro i quali far svolgere gli avvenimenti del poetico.
Se prendiamo atto del retroterra da cui muove questa poesia, allora apparirà chiaro che la forza espressiva dei componimenti di Krüger deriva proprio dalla grande consapevolezza che l’autore ha del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia deve provare a rovistare e saccheggiare: le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati delle esperienze non più attingibili (ovvero, attingibili soltanto nella loro manifestazione fenomenica di indirezionalità).
Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Krüger intende porsi come una zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo proprie del tardo Moderno, che personificano l’esigenza di razionalizzazione del «reale» (che è affetto da quella sorta di dimagrimento permanente che sono le esperienze de-realizzate di cui esso è costituito).
È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile omiletico (o da omelia). Forse nessuno come Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine dello stile che caratterizzava gli anni Settanta; ma oggi, in pieno tardo Moderno (che più tardi non si può), lo stile omiletico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità del telefilm e del cabaret la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.
Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Krüger sia uno tra i pochi poeti europei contemporanei che scriva una poesia di grande responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivante dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo. A lungo.
Giorgio Linguaglossa