Giuseppe Cinà, L’ÀRBULU NOSTRU – L’ALBERO NOSTRO
Prefazione di Velio Abati – La Vita Felice, Milano 2022
***
Concerto siciliano – Adam Vaccaro
“Questo libro, l’ennesimo testo sull’ulivo, si pone nel solco di questo continuo, ineludibile ritorno alle origini; non quello in chiave di nostalgia…, ma quello della ricerca di sé nel tempo, nello spazio, nelle corde che ci legano alla società cui apparteniamo. È un bisogno che ci interroga su quale sia stata la strada percorsa e…da percorrere, un nostos…sulle tracce dell’ulivo”
Nella nota in postfazione dell’Autore, questa frase disegna con lucida sintesi il senso e le fonti epifaniche di un bel libro, che è di un concerto di memorie, eseguito ed eseguibile solo attraverso la musica del proprio linguaggio delle origini, quel dialetto siciliano, in cui “le ruvidità dell’ulivo trovano perfetto riscontro”. “A tal fine occorre far tesoro di tutte le componenti linguistiche (parole indigene o…straniere, forme colte e gergali…sintagmi avverbiali…forme perifrastiche, arcaismi)…fiori di campo” di un “ricco armamentario linguistico siciliano”, che ha fornito materia ad “autori come Pirandello, D’Arrigo e Consolo…Bufalino”
Cinà con amore chino e proteso specifica che il suo “nativo…di base palermitana” si dilata però oltre il tempo e lo spazio per cercare di arricchirsi e poter “parlare a una comunità”, anche se diventa “pallido riflesso della lingua che fu”, “un siciliano sempre più sfocato, monco di quelle lussureggianti espressioni e immagini riscontrabili ormai solo nella letteratura poetica e nella narrativa dialettale”, spinta a una “marginalità sociale.”
Difficile “contrastare questo declino”, rispetto a “quando fu una lingua di tutti”. Cinà auspica che questa resistenza sia messa in atto “nelle officine della narrazione filmica, teatrale, letteraria”, e questa raccolta di poesie è agìta e animata dal bisogno di dare una “risposta…identitaria”. Ed è questo bisogno che si dispiega nella raccolta di Giuseppe Cinà, che utilizza l’energia del nostos, per abbracciare passato e presente, e poter scovare nella propria identità, personale e collettiva, “lezioni per un futuro migliore.”.
Esemplare di tutto questo complesso intreccio di suoni, immagini memorie e ricerca di senso è la poesia, in due parti, “IL CANTASTORIE DEL FRANTOIO”: “Come se fossimo venuti in parlamento/ per deliberare le ultime verità” s’accapigliavano possidenti e sensali/ …/ nello scuro stanzone che trasudava/ incenso d’olivo dalla macina al basolato// Farfallovavano dai fatti ai concerti/ tra asini bendati e scaricatori ebbri di mosto/…/ trascinando a terra Dio e tutti i santi, infine/ intonando il coro del lamento siciliano”; “Intanto uno finiva e un altro arrivava/ …/ sempre a grida e risate, menzogne e giuramenti/ fino a notte, aspettando a turno la colata/ dell’oro verde nelle ribollenti caraffe,”; “E per i poveri Cristi dagli occhi furtivi/ che avevano lavorato dieci ore per quattro soldi/ questa rusticana scuola d’Atene/ era uno strapuntino di lusso/…/ prima di andare a russare qualche ora di sonno”
Anche solo questi versi, squadernano la capacità di Cinà di mettere in scena un teatro popolare e colto, svolto in una sorta di ballata, che certo sarebbe ben più godibile nei versi della lingua nativa, rispetto a quelli citati della traduzione letterale a fronte. Sollecito perciò a leggere direttamente dal libro, la straordinaria e ricca messa in forma degli intenti programmatici riassunti all’inizio, e che sono già stati avviati col libro precedente A macchia e u jardinu (Manni)
Adam Vaccaro