Gabriela Fantato, CODICE TERRESTRE, La Vita Felice 2008, p.84, euro 12.00.
Gabriela Fantato chiede alla poesia non solo un buon rapporto, ma anche di essere un determinante supporto. La vita è un cammino con i chiodi alle pareti e la corda deve essere ben salda. Questa corda per Gabriela è, appunto, la poesia, che consente mete alte, sguardo sull’abisso e nello stesso tempo permette di neutralizzarlo. Si è presentata alla contrattazione con Gabriela con la sua bellezza, delicatezza, armonicità, ma anche con tutta la necessaria drammaticità nella consapevolezza della perdita, dell’errore, dell’incertezza, della responsabilità. Gabriela le si è rivolta con “realismo intensivo” e questa le ha regalato la parola della concisione, dell’intensità, della concinnitas e della promessa che “non sarà un numero a dire la gioia, / un azzardo nel bianco”. Ma quella di Fantato è una poesia che non si concede ancora il riposo, la catarsi, il musicale “largo”. È una poesia-lama, “(…) un’ostinazione / come la falce nel grano”. Una poesia che si addossa la vita e il destino del mondo per i quali si attrezza con i “metri”, il “perimetro”, il “piano inclinato”, la “geometria” (anche del dolore), i “conti”, il “diametro”, il “verticale”, gli “incastri”, i “morsi”, i “denti”, la “precisione” (titolo), l’ “angolo”, il “centro” (anche del dolore), la “diagonale”, la “postazione”, l’ “ostinazione” (titolo); ed anche con il “solo nel taglio esatto / a volte riposo”; con il “verrà di nuovo aprile (…) nient’altro”; con “la ragione [che] strappa l’azzurro”. La poetessa con “l’adolescenza negli zigomi”, vorrebbe “dire amore e tenerlo stretto / l’amore, come la fine dell’estate / al bordo della pioggia”, ma forse non è ancora il tempo per poterselo permettere, pur nella consapevolezza che è di questo che tutto si nutre. Dal suo “Codice terrestre”, titolo coerente, si muove un poco concedendosi al tepore del legno (spesso richiamato insieme a radici, corteccia, rami), delle lenzuola, dei legami affettivi. Termini di cui è costellato il testo insieme a quelli di pelle, spalle, bocca, gola di volta in volta soccombenti. L’amore è poco nominato (“cupo” o “scabroso”) perché sotterraneamente molto invocato, ma testimoniato nell’ultima pagina: “dove diciamo – amore / e ci credi e lo tieni / come l’ospite, l’ultimo”. Poco prima, nominato un paio di volte, è il “nero” connotato negativamente (il “rosso”, anch’esso in funzione simbolica, punteggia il testo). Ma è soprattutto con il “bianco” (più di venti volte richiamato, di cui una in un titolo) che Gabriela si rapporta. Bianco come candore, speranza, aspirazione, profezia, tabula rasa, somma dei colori (delle virtù), sogno, purezza, conquista. Un libro intensissimo di vita vissuta e vita agognata. Di amore dato, perduto, cercato e infine riconosciuto aldilà della immediata visibilità. Diligentemente, con passione e slancio Gabriela ha riversato se stessa nella forma poetica (linguaggio teso, preciso, potenziale) dalla quale ha attinto prevalentemente il senso responsabile della poesia stessa, quasi a non potersi permettere di prendere a piene mani anche quello che d’altro essa promette: un’armonia, una beatitudine. Infatti “Il mattatoio del mondo si è / allargato e sfibra la bocca”. “Chi saremo? dimmi, / senza la gioia che cresce le rose / e coltiva la casa anche dove / c’è l’acqua pronta all’inondazione”. “La forma della vita” “cola la notte dentro gli uomini”, perciò la salvezza non si darà se non nell’armonia e nella beatitudine di tutti. Non prima. Ma la poesia di Gabriela ci dà anche la consapevolezza, dono davvero insostituibile, che “la terra conserva / la formula del fiore e la legge / della stella”.
Beno Fignon