CANTI D’ACQUA E TERRA di Antonio De Marchi Gherini
Vincenzo Guarracino
Tra “pensieri” che “si leveranno in volo” (Battuta di caccia) e un “pensiero di vento” che “si disperde / sulle siepi di bosso” (“Resta a guardare…”), come dire tra un’attitudine di attesa, sulla scena di un’”alba”, e una presa d’atto di un’essenziale devitalizzazione e disillusione d’ogni anelito, ai confini dell’”ombra”, ancorché con l’attesa e la coscienza di una perenne rigermogliazione: è questa la scena entro cui si svolge un esemplare “romanzo di formazione” ed è entro siffatte coordinate, etiche e tematiche, che disegna il proprio spazio chi dice io in questi Canti d’acqua e terra, ossia Antonio De Marchi Gherini, che qui distilla e condensa l’ultimo ventennio della sua avventura poetica, dopo le tre precedenti raccolte poetiche (La passeggiata di Carmen, 1985, La guerra ascellare, 1987, Le gaie stanze, 1991), che già lo avevano segnalato all’attenzione di critici e lettori a partire dalla metà degli anni ‘80.
Tra un non-ancora e un non-più, tra ciò di cui nel sogno ci si nutre e che rinfranca, pur nella trepida avvertenza della sua precarietà (“uccidere i pensieri era un’illusione”, Battuta di caccia), e ciò che il tempo irreparabilmente disillude, tra un’attesa di luce e l’addensarsi dell’ombra, il poeta dispiega la sostanza tutta intima e al tempo stesso verbale della sua esperienza, governata da un ininterrotto interrogarsi sui propri fondamenti (una “mente per pensare” e un “cuore per amare”, in “Ramingo nel silenzio…”), per ritrovarsi in un certo senso al punto di partenza, al “punto alfa” di un faticoso periplo inesausto (Sogno), al “silenzio”, imposto all’inizio (“Zitto – diceva lui – che spaventi la selvaggina”, Battuta di caccia) e alla fine accettato, come matura obbedienza alle ragioni della vita e condizione necessaria di ogni reinvenzione e consacrazione di sé, dopo aver diradato il proprio paesaggio morale da ogni ardore e giovanile insofferenza. Una fatale circolarità, dunque, se è vero, come è proclamato in conclusione di Notturno che “non è tanto il vivere che conta / quanto l’essere seme sempre in germoglio”: a tratti vissuta con felice disponibilità, altre volte con interrogativa perplessità (“Dicono che forse torneremo / sotto altre spoglie e in altre terre”, Amore di novembre), sempre comunque con consapevolezza (“Così comincia il nuovo anno / che nuovo sarebbe / se già non ne conoscessimo la fine / avanti di coglierne i preamboli”, Il nuovo anno), è questa la condizione, in cui l’io sperimenta ossimoricamente ogni sua risorsa di conoscenza e arricchimento sulla scena di un mondo apparentemente immutabile nelle sue “sembianze usate”.
È lungo questo filo che si possono leggere le quattro sezioni del libro (Le stagioni del silenzio, I colori della notte, La casa del vento e Altrove): come un viaggio di progressivo esperimento di un’amara verità (“i poeti non sono allegri / con le loro querimonie / e la poca vita”, Battuta di caccia), fondata sui “rudi insegnamenti” paterni e fin dal principio congelata in una aforistica degnità, come da una sorta di grado zero dell’essere, fino al riconoscimento di sentirsi “ormai diviso da tutti anche da sé” (“Resta a guardare…”) ma pronto anche a respirare ancora “nelle brezze bianche” di un aprile rinnovato e ad essere di nuovo e sempre “rugiada” e “linfa” di una terra scabra e disseccata (in Notturno).
Un acquisto di sapere, insomma, che testo dopo testo ha visto il poeta progressivamente concentrarsi in un “altrove” di pensieri e sentimenti, in un mondo di discrezione e solitudine (una “solitudine eletta”), nutrito di minime cose e presenze quotidiane, facendo giustizia di ogni superfluo per mirare a conseguire un’essenziale misura, esistenziale prima e più ancora che espressiva. Lasciandosi alle spalle “la canea” di ambizioni e vanità ma senza neppure intristirsi al “monotono sciabordare / delle onde” (Bolle d’aria): è questo che dice con grande dignità espressiva e concettuale in testi emblematici, come Bolle d’aria e Conti, dove lo specchio del lago (“uno scrigno gravido di incognite”, Amore di novembre), paesaggio emotivo rarefatto e a tratti sublime, diventa occasione di una necessaria illuminazione, metafora di una scelta consapevole di vita, che tende a collocarsi in un’assorta mediocritas oraziana, adattata al poco o molto conseguito e con lo sguardo finalmente grato (“di tutto e nulla”) proteso “in faccia al sole” (“Chi era che veniva…”) o alle stelle del proprio cielo donato, individuate e distinte nel vario “tremolio d’astri” (Stelle), oltre ogni “vaniloquire” e trascorrere di eventi, persone e cose, nell’apparente calma e immutabilità delle stagioni, dove io e lettore si ritrovano con la “strana sensazione / d’esserci da sempre” (Missiva).
Certo, non si dovrebbe mai, quando si apre un libro di poesie, dar retta immediatamente a ciò che dice nel titolo e alla struttura che si scrive nelle sue soglie, incipitarie e conclusive, quasi fosse un percorso obbligato da seguire, una storia da tematizzare sul filo di un’ipotetica cronologia guidata dall’autore. Il lettore, in altri termini, dovrebbe essere lasciato libero di entrare e uscire a suo piacimento, a seconda dei suoi umori e delle sue inclinazioni.
Eppure qui è, oltre che consentito, consigliabile. Forse perché l’autore, Antonio De Marchi Gherini, chiuso e concentrato nel suo incantato eden lacustre, è troppo distante da furbizie e malizie di certo salottismo letterario per lasciare il libro al caso e, peggio ancora, abdicare alla meravigliosa inattualità della sua etica di uomo e di scrittore, fondata su una regia studiata degli effetti e su un rigoroso ordine concettuale dell’insieme.
Questo per dire che c’è un pensiero, una strategia, che regge i testi nella loro distribuzione e che trasmette da una sezione all’altra un’essenziale sostanza di sentimento, sull’onda di un “canto” che sceglie come suo spazio la natura, e in essa vede agire tensioni e pulsioni, identificandosi nei suoi movimenti e ricavando dai suoi avvicendamenti armonie e sensazioni.
Così, la nota principale della prima sezione, Le stagioni del silenzio, è quella della memoria, che viene modulata con insistenza in termini di rievocazione ma anche come soprassalto e acquisto di emozioni, sulla scena di un paesaggio fisico e morale colto in un’incantata stagione di attese e sogni, sempre uguale e al tempo stesso irripetibile nella sua ciclicità. Due momenti per tutti: la figura del padre, come una sorta di spirito guida, che si staglia nel testo inaugurale, Battuta di caccia, e il “tu” che inonda di luce amorosa una notte d’agosto (Stelle). Nella loro scia, il paesaggio si colora e anima delle più tenere tonalità, trovando la sua sintesi in un testo, Tramonti, che mi pare emblematico e che preannuncia la sezione successiva. È in quel “rosa pastello” che “s’oscura in margine”, preannunciando “il nero della notte”, che si può dire che una stagione, dell’anno non meno che della vita, sta per lasciare il campo ad altre sensazioni, ad altre verità.
Certo, persiste ancora nella seconda sezione I colori della notte la stessa “strana” sensazione di abitare in un paesaggio familiare: la sensazione “d’esserci da sempre” tra quei pensieri ed emozioni fragranti ma anche amari, la sensazione che questo mondo “sia la miglior casa / dove abitare” (La casa migliore). Ma la vita si vede che ha lasciato depositate tracce amare e i soprassalti e le ferite del tempo, del male, delle malattie, della morte, si avvertono: si avverte che la memoria viene progressivamente inghiottita dalle prime avvisaglie della “notte” e se anche si conserva intatta (Amore di novembre) non è più come prima: troppe “incognite” si addensano e conservano nel suo “scrigno”, troppi indizi, “scemata la boria / dell’estate” (Ombre), preannunciano già il declino della bella stagione al poeta “curvato dentro la penombra” (Sonno) e “sospeso allo specchio dell’inverno vicino”, in preda a una “malinconia oscura” (Inverno vicino), incerto più che mai se per lui risorgerà una nuova primavera (Ora non sappiamo).
Il colore dominante della seconda sezione, la “malinconia”, si riflette anche sulle sezioni successive La casa del vento e Altrove, complicandosi in termini di ambiguità e infittendosi in segnali di incertezza attraverso i tanti “non so dove” che punteggiano i testi, fino alla sensazione di sradicamento di cui si diceva all’inizio e che si fissa fin nel titolo della sezione conclusiva. È che i “fermenti d’anima” che da sempre hanno lievitato l’anima del poeta vanno sempre più configurandosi come “spasmi di timori laceranti” (L’ora morde il giorno) e la penombra si fa ormai progressivamente “ombra nera”, nel mentre la vista si annebbia di lacrime dinanzi allo scenario della perdita (Congedo). Accanto a siffatte sensazioni, comunque, a salvarlo dal concreto rischio di un totale sconforto e inabissamento morale, ecco emergere una prospettiva di speranza in due immagini precise, nel “cardo” della sezione La casa del vento e nel “seme” del primo testo di Altrove: nel primo caso, il fiore disseccato e impietrito, solo “forma” senza “essenza”, come emblema di una tenace resistenza, quasi da leopardiana ginestra con cui identificare le proprie ansie e i propri valori; nel secondo caso, all’inizio dell’ultima sezione, la più astratta ma anche la più moralmente energetica e strutturalmente omogenea (costituita com’è da 8 testi composti ognuno di due quartine), il “seme” come simbolo di una volontà di rinascita, a dispetto dell’inclemenza dell’autunno, con la sua capacità e, perché no?, il suo orgoglio di levarsi “alto in faccia al sole”, a testimonianza dell’eterno circuito di produzione e distruzione, che regola tutte le cose e cui l’uomo, non solo non può, ma neppure vuole sottrarsi.