Amarore di Alessandro Ghignoli, Kolibris Edizioni, 2009
Rosa Pierno
Non chiusa la costruzione frasistica, le proposizioni restano in sospeso, aggettanti, sporte nel vuoto creato dal mancamento non solo della volizione, ma della stessa possibilità di costruire definizioni, mentre realtà di conseguenza resta altrettanto drammaticamente sfilacciata. E’ naturale che una simile forma faccia uso di un uso sapiente e originalissimo di costrutti ipotetici, di gerundi, di prelievo aggettivale, di ripescaggio lessicologico, di tempi verbali genericamente non accordati al soggetto, i quali solo stratificandosi costituiscono la pur solida base d’appoggio con cui affacciarsi nel baratro.
E così ecco individuato immediatamente anche il soggetto della silloge “Amarore”, Kolibris Edizioni, 2009, che Alessandro Ghignoli ci consegna: il linguaggio. Indagare il linguaggio attraverso il linguaggio non ci appare certo paradossale. Già Wittgenstein ci aveva avvisato: dal linguaggio non si esce. E, dunque, il lavoro di Alessandro si pone su questo illustre binario. A questo punto diviene fondamentale seguire il poeta nelle modalità che mette in atto per quest’operazione al quadrato, e non solo per individuarne la cifra poetica. Conosciamo già la perizia con cui Alessandro forgia i propri strumenti linguistici, soprattutto a livello della messa a punto del proprio serbatoio lessicale. Si ascoltino, è il caso di dire, i suoi versi, poiché la poesia di Alessandro è sonorissima: “gli stromenti degli armonici / medesimamente alla bellezza / alla viva e vegetabile lingua / d’un infiebolito aver sentore”. Questa volta, rispetto al suo lavoro precedente, ci sembra che qui si faccia più concreta ed insistente l’elaborazione sintattica, l’euristica del periodare diremmo: “al favellare importuno e nondimeno / del vissuto la protesta lo stolto / mio dietro alle parole andare”. Quasi uno scardinamento, un’azione irreversibile che una volta scritta nero su bianco non è più eludibile. La ricerca di altre modalità di dire, che si aprano alla complessità, che accolgano il paradosso, che non fuggano dinanzi alla impossibilità di chiudere il cerchio di un pensiero lineare pur senza eludere il tentativo razionale di fissare possibilità e limiti dello strumento linguistico, costituisce l’essenza da raccogliere durante la lettura del testo poetico di Ghignoli: “a fiaccacollo in capitombolo / alla scapestrata maniera di me cercare / per interprete di ragione nella lingua / una porzione mi corrisponda”. Alessandro farà allora in queste pagine i conti con l’impossibilità di dire, con una insoddisfatta ricerca lessicale, forzando le parole affinché attraverso il suono ambiguo venga catturato il senso di parole similari. Darà vigore alla tessitura, a nuove membrature per acquisire nuovi territori alla conoscenza, per mettere a punto l’abitabilità di un altro mondo, quello ricreato, il quale sempre coincide con quello del linguaggio.
Non resta estranea al mentale la dimensione fisica: “prima del moto lento dei mali / d’animo le sue infiammagioni / il discadimento confettato nei succhi / dell’afrore dopo la qual al giorno fermo / e certo dinanzi a tutto quest’intorno / mi sento di complicanze inamarito”. Vi è, dunque, la connotazione dell’amaro, che fa virare anche il senso primario nel titolo, a dirci che l’operazione non è indolore e forse non ha nemmeno un esito ascrivibile pienamente all’area del risultato positivo: “delle immaginazioni dove la lingua s’affatica / dove la fine è già avvenuta”. Certo, non è che un passo e il dubbio s’installa insieme al rimpianto e all’inefficacia delle proprie azioni, “tutto di tutto sento e in tutto mi pento / dalla rabbia dal pensare che non è ricordo / ché memoria non è storia forse sabbia”. Inevitabile stallo per chi rifiuta così strenuamente balaustre e appigli fino a dubitare persino del linguaggio quale strumento veritiero e rispondente per costruire la propria moralità. Il balbettio del dire, c’è poco da fare, è comunque l’unica cosa che almeno possiamo registrare e consegnare a noi stessi e agli altri.