Benoît Gréan “Mostri tiepidi”, Atelier de l’Agneau, 2003, traduzione di Massimo Sannelli
Una mitologia in riva al mare, sul bagnasciuga, rivisitata fra un bagno e l’altro in una giornata assolata e sfibrante, in una cornice che addomestica, che riconduce a più miti consigli le potenze ultraterrene, telluriche, immortali: così le poesie iniziali che compongono la raccolta “Mostri tiepidi” di Benoît Gréan. Qualcosa che sia, dunque, più adatto al dispiegarsi di una vita con pochi eventi e non importanti, che si riversi nei solchi del consueto, se non fosse per quella continua frattura che Benoît Gréan impone allo scorrere delle cose nel tentativo, di dissotterrare il vero rispetto alle misere apparenze, di forzare alla confessione lo spergiuro, di far sventolare il vessillo di un’etica ritrovata a dispetto di tutte le accanite contingenze.
In un certo senso, dunque, la permanenza sulla spiaggia diviene metaforica cornice di un animo in cui le difese si siano abbassate, la maschera calata. Che poi è anche il momento in cui le distanze dall’orrore si accorciano: “Queste voci strapazzate / sotto luce accecante // i nostri passi labili / carezze che scuoiano”. A questa lancinante sensibilità, la quale volge in ferita ogni pur disarmato gesto altrui, va necessariamente sovrapposta un’armatura, è necessario mostrare un’indifferenza che gli consenta di non rivelarsi ferito: “Giravolta / pugnalato alla schiena // si diverte a lanciare freccette / contro una pioggia di meteore”. Inadeguata reazione è ancora maschera, ma l’io tellurico di Benoît non è possibile dissimularlo. La sua poesia è una fionda che lancia proiettili infuocati e ci rende complici e testimoni, contemporaneamente, di una metamorfosi impossibile da compiersi. Impossibile che il cerchio si chiuda, che il poeta sia un dio, che il mito coincida con il racconto dei propri giorni. Nonostante Benoît tenti di assimilarsi a un nume e ciò naturalmente avvenga su uno scenario avente come sfondo una cultura antica e mediterranea esperita attraverso reperti e studi e, pertanto, letteralmente vissuta, “Ali di vittoria / tatuate sulla schiena // l’anfora rintanata / sotto la pelle del ventre”, pure, la consapevolezza che ciò sia un travestimento temporaneo è sempre avvertita dal poeta, il quale vive il presente come stasi, punto di equilibrio, rispetto a cui la produzione culturale del futuro incombe minacciosamente e pare solamente distruttiva.
Un’urgenza costruttiva si pone come necessità e s’insedia nel cuore stesso della pratica metamorfica attuata da Benoît Gréan: “si accampa in cima / attende che la notte / sia fitta e lo costringa // s’immagina di essere dovunque”. Allora terreno paludoso diviene metafora più rispondente di un arenile, poiché meglio con essa il poeta riesce a immaginarsi una possibile strategia. In uno stato di imprecisione e indecisione si possono meglio stemperare gli stati estremi di una reattività che non lascia scampo. E quale migliore frase: “Questo profilo addolcito / teso su fondo d’abisso / / equilibrista sul filo dei giorni”, per sintetizzare la biografia del poeta che rimarrà stagliata nei nostri occhi con una silhouette nera. Parlare dell’irrisorio, non ricordarsi, sarà un’altra forma strategica di sopravvivenza e lì dove s’incunea l’incombente futuro o il volgare presente ci sarà modo di gabbare il tempo gettandogli un osso come si fa con un cane che sappiamo ce lo riporti nuovamente.
Ma questo concerne solo il contenuto, diremmo, il ragionamento intorno al senso, se mai fosse possibile separarlo con precisione chirurgica dalla forma. Poiché, appunto la forma, è anch’essa armata di un suo specifico senso, rintracciabile, in questo caso, nelle cesure, nei ritmi diafani e lacunosi, rarefatti e brevi dei versi di Benoît Gréan. Una misura che si dirada per far emergere disagio e lucore insieme, piattezza e cesello, raffinatezza e violenza. Una poesia giocata su una contraddittorietà anch’essa paludata, una paradossalità dissimulata, un obiettivo tanto altisonante quanto screditato dal poeta stesso, ma che lascia sul terreno, dopo aspra battaglia, eppure, l’orma etica di un’avvenuta metamorfosi.
Rosa Pierno