Adam
Vaccaro: Ricerche
e forme di Adiacenza
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Un
esempio di critica letteraria
con gli strumenti dell'Adiacenza
OGNI MINUZIA DELL'ANIMA
Efflorescenze e fusioni - in Saccade e Scribendi licentia
- di Cesare Ruffato
di
Adam Vaccaro
La metodologia costruttiva di Saccade
"In un galà / letterario annacquato come le più / intime
sensazioni insopportabili" (Saccade, Ragusa 1999, p.41) Cesare Ruffato
risulta estraneo. Pudore e denunce fuori dai denti, capacità di
candore con radici e ruvidezze di sapore contadino. Primi tratti dell'identità
che emerge dal testo, e che appare subito poco incline alle affettazioni
imposte da spazi chiusi e selezionati. Più che i galà, ama
le galattiche espansioni spaziotemporali. I suoi testi comunicano una
complessa (in)sofferenza, etica e biologica, che tende a sprofondare nel
minimo per aprirsi al massimo: un costante reculier pour mieux sauter,
che diventa metodologia.
I versi immediatamente successivi a quello citato saltano infatti a "L'universo
primordiale che da qui / si può vedere
"; per finire,
con l'ultimo verso, alla dolcezza e allo strazio del "dramma mistico":
spazio di ricerca di parola messo in scena dalla nostra insopprimibile
tensione all'unità col tempo dell'"estremo ieri" e al
suo, "per ora", insuperabile "silenzio" "sull'origine
della vita".
L'impasto complessivo delle lingue del testo (che cercheremo di vedere
nei dettagli) produce una metonimia di ritmi e di musica da magistrale
gesto lirico; di quella qualità formale che riesce a condurre un
sereno rendiconto di difficile, ma possibile, equilibrio drammatico; senza
disperazioni e senza fughe rispetto alla condizione che ci è data,
di estraneità e di appartenenza.
Colpisce la capacità di costruire un grumo di gioia tranquilla,
ritrovata e preziosa, come un boccone di pane raffermo, scovato all'improvviso
da uno stomaco abbrontolato dalla fame, in uno di quei recessi densi d'umori
delle antiche madie. Le "pietre preziose dell'anima" sono più
ne "
le curve paterne / nelle strutture interne, nelle flammule
/ di coni e bastoncelli" (p.71), che negli altezzosi " liquamina
della vita / la fantasia intensa dell'anima", p.70).
Una digressione su queste ultime citazioni, che verrà poi ripresa
più precipuamente nello sviluppo dell'analisi che la complessità
del tessuto testuale di Ruffato richiede; in esse troviamo fra l'altro
due esempi (flammule e liquamina), tra i tanti forniti dal testo, di bastoncelli
portati nel bosco della lingua - un bosco in cui, come è stato
giustamente detto, la poesia deve portare e non prendere.
Nel primo dei due esempi citati troviamo una tenerezza infantile ri-generante
memorie e affettività, immersa nel passato e nelle modalità
di linguaggio dell'area mentale dell'Es (Mod-Es); in liquamina, una più
complessa invenzione che fonde (forse) liquami e disamina: nel primo c'è
circuito biologico e giudizio etico (quindi Mod-Es e Mod-Sup., o modalità
di linguaggio dell'area mentale del Superìo); nel secondo c'è
il processo di analisi e di astrazione delle modalità di linguaggio
dell'area mentale dell'Io (Mo-Io); dunque una scintilla da cui si dipartono
molteplici sensi (anche ironici) sulla successiva "fantasia intensa
dell'anima"; la risultante di questi cortocircuiti tra alto e basso
(circuito biologico vitale) è in sostanza un salutare abbandono
controllato che riduce le varie forme di ideologia, che sono sempre a
caccia di brandelli di testo da dominare, o di poesia da uccidere.
Sono tutti microtesti e sintagmi che irraggiano polisemie e un calore
di fusione, che si è lasciata alle spalle ogni asettica freddezza
di laboratorio neoavanguardistico. L'atmosfera trasmessa non è
di un luogo appartato e chiuso; per questo ogni ideologia del Testo -
pur entro una continua ramificazione semantica che a tratti si occlude
in nodi duri - rimane fuori. Perché il laboratorio è tanto
intensamente dentro la totalità del Soggetto Scrivente (SS), quanto
nel suo intorno, aperto e vivificato da tutte le correnti esterne: al
non ancora detto o entrato nel bosco della lingua.
L'atmosfera generale evocata è di incanto tenuto e sospeso, di
tocco di qualcosa in cui si è perché ci sentiamo a casa,
ma che non ci appartiene. Insomma è la capacità di ricreare,
senza alcuna enfasi da serate di gala, il senso del sacro. Il titolo (in
francese indica salto, scatto, strappo) è dunque più che
adeguato al nucleo metodologico e costruttivo, individuabile nella struttura
del testo.
Dopo questi primi assaggi, proviamo a esaminare in maniera più
dettagliata i movimenti del componimento, tra i tanti possibili, di p.40:
Tirano a lucido i colli berici
incalmano l'erba e le speranze di vetro.
La luna piena luce esclamativa
riposa ròcoli voliere e ombre
tace il girarrosto. Spanta soggiacenza
d'amore universale. Il prato dietro
casa chiromante rimescola oracoli
un branco di parole effettuali
che sfiorano la verità. Nel pigro
risveglio mi piace verbalizzare
lo sguardo che ci guarda instabile
e dirti sino a tardi
la fortuna dell'ascolto
Il SS si pone al centro dello spazio costituito, descrivendo il visibile
e l'invisibile con tempi di verbi al presente. Le modalità prevalenti
di linguaggio sono perciò quelle delle Mod-Io. Tuttavia il tono
di puntuale descrittività viene eroso e sfumato dal sottinteso
soggetto plurale iniziale, producendo un alone di indefinito che troverà
completa esposizione e delizia nella chiusa del verso finale. L'obiettivo
non è descrivere, ma in-scrivere entro la fortuna dell'ascolto
e della magia (restituita) della contemplazione di sé e dell'altro
da sé.
La paratassi è costruita in ritmi che partono con l'endecasillabo,
ma tendono a debordare in respiri più lunghi, alessandrini. La
metonimia della rete dei ritmi è dunque corrispondente alla sua
funzione contenitrice dell'attimo di pace inventato.
Il tessuto testuale si compone compatto senza slabbri e collassi semantici,
ma attua continui scarti con designanti verbali che sono rizomi rinvenuti
e cautamente innestati da ritorni di rimosso formale: sono le Mod-Es che
inter-agiscono, espandendoli e facendoli rifiorire, come ad es. in incalmano;
è una fusione verbale che innova e incrocia dentro e fuori.
il movimento continua con l'erba e speranze di vetro, in cui il suono
allitterante in erre rimane come un chiodo comune tra esterno e interno.
L'invenzione analogica del secondo sintagma, lancia riflessi, che da un
lato richiamano il lucido del primo verso, dall'altro stempera la propria
freddezza (e disperazione) ricevendo colore e calore dal primo.
La sequenza ascensionale degli scatti e scarti verbali prosegue con la
luce esclamativa; poi fa qualche passo indietro tra ombre e oggetti banali,
che tuttavia consentono al testo di mantenere una concretezza quotidiana:
utilissima a dire che il sacro è qui, in ogni minuzia della nostra
vita. È insomma il basso che serve a far intendere l'alto (e l'altro),
come l'ombra la luce, o l'esterno l'interno. Tutti poli che non appaiono
più contrapposti, ma intrecciati e adiacenti.
Più che univoca linea ascensionale c'è dunque una continua
oscillazione dell'occhio: guardare in basso per guardare in alto. E in
quel per c'è il grumo di una finalità etica. Che è
un passo più in là del correlativo oggettivo: gli oggetti,
la natura, noi, siamo qui, distinti e separati, ma dentro la stessa Cosa.
E noi, con questo oggetto chiamato poesia, inseguiamo i nostri limiti
insieme al piacere di starci dentro, cercando di verbalizzare / lo sguardo
che ci guarda
con cento occhi, indefiniti occhi, o raggi, o riflessi,
chissà, che tirano a lucido noi e ogni cosa.
Innumerevoli sono i luoghi del testo che trasmettono molteplicità
di sensi uniti a questo senso generale. La poesia è poesia quando,
come "l'amore" riesce a incarnare il paradosso di essere "prigione
diletta di un cuore / con tutte le cellule del mondo" (p.35); è
solo l'abbraccio con l'altro che ci consente di toccare noi stessi: "l'abbraccio
amico alla fine / rincuora la mente rincorsa" (p.32); "Sbroglio
/ le emozioni dalle parole false / pulverulente
/ I punti fermi sono
altre / persone di passione" (p.36, dove troviamo un altro termine
inventato e composto dai presumibili polvere e purulento: ancora un esempio,
rilevato anche nella nota di prefazione di Giovanni Occhipinti, di fusione
polisemica tra livelli bassi e alti, tra biologia ed etica).
Osserviamo, tra i tanti possibili frammenti, con quale delizioso impasto
di levità e perfidia vengono sbeffeggiate le possibili drappeggiature
ideologiche sia del Testo, che della Verità e del Valore, fornendo
così un esempio che realizza il magico paradosso della Poesia.
Di essere forma e materia in un punto reale e metafisico insieme, perché
sta al tempo stesso dentro e fuori tutte le modalità di linguaggio
(Mod-Es, Io e Sup.): "l'incubo di ieri oltre il vano benemale / altra
falce nuova lunare / di prima mano sui campi di neve /
/ greve il
rogo lento dello spirito / bellezza cupa viola mistichese /
/ si
accontenta o sviene nell'arte / della fine
(SC, p 37).
Le sequenze allitteranti del discorso fonico (Mod-Es) sono talmente fuse
in quelle sia del discorso logico che di quello etico, che non riescono
a volare avvoltolate in aeri misteriofici e simulacrali. I poli sensitivi
(Mod-Es), descrittivi o astratto-metaforici (Mod-Io) tra falce lunare,
campi di neve, rogo lento, creano molteplicità di livelli, di spazi,
di calore e luoghi mentali, cui si aggiungono giudizi (Mod-Sup.): greve,
bellezza cupa, mistichese, si accontenta ecc. Il risultato è che
la risultante ideologica è prossima all'utopia di un discorso adiacente,
che né ci porta via beatamente alienati fuoridalmondo, né
ci schiaccia con giudizi che appaiono inappellabili: ti dico quello che
penso, ma fai quello che vuoi: un ipotetico e babelato benemale non esiste
perché la realtà va sempre oltre, lo stesso gli incubi della
fine che incupidiscono e fanno svenire tante forme d'arte moderna. Tuttavia,
mentre tutto continua incurante, se possiamo stiamo qualche attimo insieme.
Credo siano tutti nodi testuali in cui si esprime un resistente e testardissimo
"disegnosogno", esplicitato ad es. a p.49, di "abitare
/ la terra in etica armonia": le Mod-Io e Sup. mettono in guardia
contro rincitrullite visioni di benemale, ma continuano a concorrere alla
costruzione di testi in cui la bellezza non smetta di sgranare un rosario
di raffinata ruvidezza e di utopia di una grazia terrena.
Da questo buco inventato, nero e bianco, esistente e inesistente, proviene
credo anche un sereno e anomalo atteggiamento (rispetto alla prevalente
cultura occidentale) rispetto al tema greve e ineludibile della morte:
- "
sarò / sempre giocato ma
ci sto / pregnante
e nel nulla scomparso / non m'importerà più di niente."
(SC, p 38);
- "Alle ceneri di stelle luttuose / dedico epilobio d'oblìo
/ e il mio resto tra le nebbie /
" (SC, p 44);
- "
mia madre suscita / legami trasparenti di poesia / l'aria
pensosa di mio padre / fertili boschi tra le mani /
/ un gioco leale
con la morte /
/ un ritmo unico di sinestesie" (SC, p 39);
Credo che il costante equilibrio di matericità lirica cui tende
(ai suoi vari livelli, in particolare a quello etico su cui stiamo sostando)
il tessuto testuale, trovi in quest'ultimo frammento la sua radice costitutiva
più profonda, che vedremo ancor più (mi pare ovvio) nella
galassia dell'idioma originario di Scribendi licentia. Mi riferisco a
questo continuo dire le diversità del materno e del paterno, mai
contrapposte ma sempre affiancate e complementari. Credo possa essere
dedotto un luogo costitutivo dell'identità del SSR, da cui il SS
attinge questa continua tensione ricompositiva a un equilibrio adiacente,
alla sinestesia di un ritmo unico che può essere fonte anche di
serena accettazione e/o gioco leale con la morte.
Un gioco in cui si può anche riuscire a starci senza ossessioni,
magari con l'aiuto di qualche soporifero succo: bellissimo e ricco il
sintagma epilobio d'oblìo, che suggerisce epilogo e allittera sia
all'interno che all'esterno, col successivo nebbie. E questa ricerca di
sinestesia etica ed estetica credo sia un ottimo punto di accesso a Scribendi
licentia.
Nella galassia di Scribendi licentia
Seguiamo anche noi la metodologia costruttiva rilevata con l'analisi dei
nuclei verbali della scrittura di Saccade, cerchando più ampie
conferme di quanto finora azzardato, arretrando/penetrando nel tempo e
nello spazio della vastissima galassia di Scribendi licentia (Marsilio,
Venezia 1998), in seguito SL: immensa sia per numero di pagine, 427, che
per consistenza di ricerca. È un libro di "testi poetici in
dialetto padovano" (SL, nota introduttiva), che accoglie "raccolte
edite (Parola pirola, 1990; El sabo, 1991; I bocete, 1992; Diaboleria,
1993) più altri testi, inediti o apparsi su riviste.
La lingua utilizzata è, insieme, galassia reinventata e utero linguistico,
sia del SS che del Soggetto Storicoreale (SSR). Incarna perciò
un evidente ritorno ri-creativo alla propria grotta originaria e ai luoghi
mentali della fase costitutiva della propria identità: arretrare,
ritornare, oscillare, cercando piacere e nuove capacità di progetto,
in un ritmo unico che intreccia inestricabilmente etica ed estetica.
Sappiamo che, questo, oltre a essere un bisogno generale, è uno
dei processi fondamentali generativi dell'arte e della poesia. Sappiamo
altresì che il SSR è medico e docente di radiobiologia,
che pur fornendo al testo alcuni termini della propria gergalità
professionale, non può non essere particolarmente fuso col SS in
questa re-immersione felice e ri-generante nel non-tempo di questo "mio
ideale idioma" (ibidem).
In sostanza questo libro rappresenta un megatesto che conferma quel cuore
metodologico-costruttivo del SS, già individuato nella struttura
dei singoli testi di Saccade (che, come abbiamo detto, tende a coincidere
con una sorta di DNA naturale della metodologia di sviluppo dei processi
vitali). Perché questo libro ha costituito per il SS, prima che
per noi lettori, un passo indietro per successivi balzi in avanti nella
sua avventura di scrittura: non è un caso, a mio parere, che questo
ideale idioma sia diventato prevalente materia di espressione solo in
età più che matura, stando perlomeno alle date degli editi.
È un esempio di come si possa innovare/arricchire la lingua e le
forme della poesia in misure profonde di sé, capaci di far "Gemmare
l'antenato" (SL, p.25) in efflorescenze organiche e inorganiche.
È un'altra conferma di come le spinte innovative della poesia vengano
più dai bisogni reali, che da chiuse battaglie ideologiche.
La "intentio operis", cui fa riferimento l'Autore nella breve
premessa a SL, pone chiaramente al centro del testo la responsabilità
della libera scelta di scrivere. Dunque scelta e relativo impegno, etici.
Con responsabilità verso chi e che cosa? Credo si possa dire: verso
la possibilità di far proseguire con la scrittura la tessitura
di un filo rosso di libertà, che è l'anima della poesia.
Risulta con ciò completamente rovesciata la posizione del SS rispetto
al proprio gesto di scrittura. Nel senso che non è questo al servizio
salvifico di chi lo fa, ma è il soggetto che deve essere conscio
della propria responsabilità di difendere lo sviluppo di quel filo
di libertà. Non è dunque la poesia che deve salvare chi
o alcunché, ma chi pretende di scriverla che ha l'obbligo di salvarla.
Salvarla da che e in che modo? Non farla affogare nei "fiumi de
no se xe" ("fiumi del non esserci") (SL, p.358); inventare
una "Vose striga" ("Voce strega", SL, p.365-394) contro
le mille voci false: "vose pramosa" (voce bramosa e sommersa
dal desiderio, SL, p.368), "vose de mistici" (SL, p.369), "vose
de sità" (del brusìo della città, SL, p.373);
contro le illusioni della "vose putina" (della voce bambina,
SL, p.379), della "vose bròsema de luna" (voce commossa
e brinata di luna, SL, p.387) o della "vose lago
imbambolà"
(voce lago
imbambolata, SL, p.388) e delle voci ridondanti di "Gramatica
spotica
Logica
Retorica
Arti meccaniche
Libro del
cuore leterà", (Grammatica dispotica
Logica
Retorica
da
cuori letterari, SL, p.393) che spandono "luce acquosa" e "lagreme"
ecc.
Insomma contro tutte le voci che emettono "Parola malà"
(parola malata, SL, p.25): "Parola droga" che sfibra / sangue
servèlo figà
/
infumega / magna fora tuto, ingrassa
giro / losco, smorsa l'istinto de vita /
stracopa l'anema / brusca
al fiele la boca (sfibra / sangue cervello fegato
/ affumica / corrode
tutto, nutre giri / loschi, spegne l'istinto di vita
strauccide l'anima
/ e riempie di fiele la bocca, SL, p.35); "Parola denaro": "a
fare el denaro co cossiensa / parola reta e no rica /
Papà
e mama ne diseva in fasse / al fredo oci bagnai ne la casa maestra / che
pecunia no s'imbarca sensa onestà (a fare il denaro con coscienza
/ parola retta e non ricca /
/ Papà e mamma ci dicevano in
fasce / al freddo con gli occhi lagrimosi nella casa della maestra / che
non si raccoglie denaro senza onestà, SL, p.33); ma anche la parola
sui trampoli (SL, p.33), che non vuole sporcarsi nel fango della realtà,
o la parola sigà, urlata (SL, p.33), di ogni "Birignao del
vodo" (Birignao del vuoto, SL, p.298) ecc..
Questo sul versante negativo o destruens. Su quello invece construens,
il senso esplicito è di resistere all'ignavia di non cercare una
"parola
morbin in corpo" (parola
eccitata in corpo),
che "scacià el demonio sensa vendarghe / l'anema la se rivoltola
/ fuso morbido sùcaro. / Schissinosa la trema / i oci lusori come
stele"(che senza vendere l'anima al diavolo, si rigira fuso, morbido
zucchero. E vibra schizzinosa gli occhi giocosi come stelle, SL, p.32);
non smettere di cercare la parola di una "Voce invasà
cosmica
melodia
ultrasona de sé" (voce invasata
cosmica
melodia
ultrasonica di sé, SL, p.360); una "Parola sguardo
burrasca
lirica" che "serca altri spazi fora cronometri /
no
più
casetòn / valisa frigida impenetrabile del discorso / ma musina
di contatti, mola del tempo"(una parola che cerca non più
chiusure impenetrabili, ma ricchezza di contatti, molla del tempo, SL,
p.42).
Parola capace di coniugare "el vano el pien de l'anema" ("il
vuoto il pieno dell'anima") (SL, p.394), non in chissà quale
luogo metafisico, ma nel qui storico che ci tocca, sbretellato tra "karaoke
che
snatura versi" (SL, p.386) e sa solo scimmiottare "in 'sto marcà
babelà" (nella babele di questo mercato) (ibidem) di questa
"Italia de dolore basòta / barca sensa timon in gran casoto
/ no siora de provinse ma mignota" ("di questa Italia di dolore
cotta / barca senza timone in gran casotto / non signora di province ma
mignotta", SL, p.394).
Parola, ancora, capace di trovare "
l'umile limine /
el
là / ingenuo garbo dove scata / la luce vocis la voce lucis /
/
dove
'na metà mai rivarìa. / Nihil timendum video sed tamen timeo.
/ /Vardo la verità farse ponto cao / silensio e luce discorare
su la palù / sul stisso ultimo che se xe. / Vose
/ sermone
echi
/ de la comparsa de l'universo" (
umile limine
in cui scatta
/ la luce della voce e la voce della luce
dove una metà non
arriverebbe mai. / Non vedo nulla di cui temere e tuttavia temo // guardo
la verità farsi punto limite / silenzio e luce discorrere sulla
palude / sul tizzone ultimo che siamo. / Voce
echi / dell'origine
dell'universo, SL, p.359).
Parola capace infine di ritrovare sempre la sintonia epifanica con i movimenti
e la "vose del mare / mai sassia d'inventare" (SL, p.386).
Penso siano talmente in evidenza "i gradienti di complessità
testuale" (SL, nota introduttiva), la musica reinventata di questo
dialetto, i sensi del corpo e quelli della mente, che anche il compito
di chi si arrabatta a dispiegare la mappa della cosmogonia mentale del
SS venga facilitato.
Le linee vettoriali più evidenti sono comunque ancora quelle già
riscontrate in Saccade: partenze da livelli bassi (del corpo o delle mille
minimalia interne o circostanti) per espandersi verso il fondo del tempo
o dello spazio: "cos'è il tempo dovrei entrare / inconsistente
nella velocità / universale, riverberare ombre / minuziose
"
(SC, p.22); si può partire anche da una "cioccolata afrodisiaca"
per arrivare "alla luna sbiadente rugiadosa"(SC, p.23).
Il corpo del testo costruisce così una sorta di astronave, che
viaggia dal vocìo al silenzio, sorretta da una gabbia paratattica
che non viene mai lasciata fuori controllo dal lavorio delle Mod-Io, illuminata
da una visione di idee (Mod-Sup.) che non si nasconde, ma anzi morde,
ripetutamente e ferocemente, gli oggetti delle sue rabbie. E questa struttura
portante complessa (delle Mod-Io e Sup.) moltiplica l'energia dei bellissimi
suoni abbandonati e portati dalle Mod-Es; che senza la compresenza di
quella struttura rimarrebbero tuttavia solo bellissimi suoni, grondanti
ideologia del Testo.
È grazie a questo incessante intreccio tra le varie modalità
di linguaggio, che il tessuto testuale riesce a neutralizzare anche i
pur potenti vettori ideologici, della Verità e del Valore, corrispondenti
rispettivamente alle aree mentali delle Mod-Io e Mod-Sup.. Per questo
la risultante ideologica complessiva non grava su di noi né ci
sommerge, ma ci dona levità. Il SS ha dunque arricchito il bosco
della lingua, portando gemme verdi che svilupperanno tralci e tronchi,
insieme a legna secca che scalderà senza fumi e nebbie per la vista,
né bruciori per gli occhi. Il SS ha assolto in definitiva la sua
funzione di proseguire nell'intreccio di quel filo rosso di libertà,
riproducendo e salvando l'anima della poesia rispetto al suo nemico più
irriducibile: un tessuto testuale carico di questa o quella forma ideologica.
Ma porre tale rovesciamento etico rispetto alla scrittura non trasforma
il SS in un alienato sacerdote al servizio di una deificata entità
metafisica? Se il risultato, utile alla poesia, coincide con il coinvolgimento
totale delle aree mentali (mostrato dall'analisi del tessuto testuale)
del SS, quest'ultimo sperimenta un fare per la poesia che è contemporaneamente
un fare per-sé, autopoietico. Sperimenta cioè, rispetto
alla prassi quotidiana, un fare anomalo e paradossale, al tempo stesso
materiale, biologico e metafisico - in quanto fuori dalla fisicità
abituale (1). Sperimenta cioè la prassi di uno stato modificato
di coscienza che ricollega il soggetto e l'oggetto, perché è
necessario sia allo sviluppo disalienato di sé che a quel filo
rosso, apparentemente esterno e di carta.
Se tutte la parti mentali di sé sono coinvolte (dal corpo ai livelli
più astratti e speculativi) quel filo esce da uno spazio metafisico
e diventa carne e sangue, diventa materia viva generatrice di metamorfosi
biologiche. Dopo di che ogni alone ideologico tendente a collocarlo in
un'area astratta e deificata, mistica e mistificante, avrà problemi.
Diventerà invece più facile avvertire, a cominciare dal
corpo, la sacralità della vita, dalle sue parti più insignificanti
alla sua totalità.
E ogni cosa elaborata in tal modo dal corpo di un testo diventerà
(in particolare attraverso l'azione delle Mod-Es) parte e corpo di quella
che chiamiamo anima. Ma in tal modo diventerà sempre più
difficile persistere nelle vecchie dicotomie (filosofiche, scientiste,
religiose) così radicate nell'anima della nostra cultura occidentale.
Avremo forse finalmente un'anima incorporata e un corpo animato. Credo
che l'insegnamento continuo dei testi di Cesare Ruffato, a-ideologicamente
trasmesso dalle forme, nasca da questa serena e rigenerante tensione unitaria
e totalizzante. È solo da una forma in cui tendono continuamente
a interagire tutte le lingue del SS, che nasce l'infinito umano amore
per il brillio di ogni minuzia dell'anima.
È questa scelta a priori della posizione del SS che produce la
tensione a far passare l'universo in ogni infimo oggetto, per restituirlo
in mimesi di incanto e splendori falsoveri; in un punto di sguardo collocato
in una sorta di extraterritorialità, dentro-fuori l'altro, capace
di una dolorosa-gioiosa serenità - Serenus è la voce narrante
del Doctor Faust - che riesce a inventare piacere, anche in mezzo a una
tragedia: è uno dei miracoli prodotti dall'adiacenza mentale, costitutiva
della poesia.
La poesia può allora essere salvata dal SS, se questi salva contemporaneamente
se stesso. Questi può essere utile alla poesia, quanto riesce a
esserlo per-sé: per la ripetizione e dilatazione della propria
circolarità biologica. Perché la poesia esiste e viene salvata
solo da un testo ricco di sensi e di visione di idee, ma povero di ideologia
(di tutte le forme ideologiche).
Ma questo risultato viene ottenuto solo se il SS attiva tutte le sue aree
mentali e le rispettive lingue. È questa capacità che fa
coincidere il fare poesia con un'autopoiesi disalienante, che dona il
piacere e la magia (o l'illusione) del superamento del portale che ci
pone in contatto col Resto. Perché quella soglia è stata
costruita dall'adiacenza tra le varie parti di sé, ognuna reciprocamente
altra rispetto alle altre. È dunque il senso di superamento delle
separatezze e alterità intrasoggettive che diventa energia epifanica
del superamento della nostra alterità specifica e individuale.
Perché è solo l'adiacenza e l'unità nel Sé
che generano la possibilità di un contatto non alienato con l'altro
da sé.
La potenzialità disarticolante della prassi da cui nasce la poesia
- rispetto alla prassi quotidiana che chiede sempre e solo una parte,
mai la nostra totalità - sta in questa sua implicita proposizione
di un universo altro di prassi e di utilità.
Ed è questo diverso universo che ci consente di praticare, toccare
e vivere i luoghi della poesia di Cesare Ruffato; fatta di corpi e molteplicità
di lingue, capaci di restituire la poesia tout court; quella che ci aiuta
a rigenerare il nostro universo mentale, donandoci la vertigine di toccare
l'esterno, facendo agire contemporaneamente le profondità poliverse
e irraggiungibili delle Mod-Es sulle ossessioni monomaniache dell'Io e
sui tormenti dell'ethos del Superio; facendo al tempo stesso agire questi
ultimi sui rischi di miraggi imbambolati dell'Es.
È questo nodo di interscambi che genera quello spirito critico
della differenza, cui si riferiva T. Mann, che è già in
noi e può diventare fonte attiva non solo della ricchezza di cui
è fatta una forma poetica, ma anche della infinita sete di libertà
della nostra anima.
Note:
(1) Sugli ultimi concetti richiamati - in particolare sull'anomalia e
il paradosso, biologico e metafisico, della poesia - vedi, anche come
fonte bibliografica: Gio Ferri, La ragione poetica, Mursia, Milano 1994.
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