Orfanaggio
I senzapadre assaltano il vivaio
del palazzo d’inverno. La locusta
la cavalletta intanto
si abbatte e atterra fragorosa a un sasso
e poi di fianco rode il grano
resecando dal basso
là dove sparse una mano l’impianto.
Le senzamadre non ritrovano i bottoni
da ricucire a una giacca che piú volte
già venne aperta e voltata
e la rabbia degli aghi hanno negli occhi.
E frattanto una stella
sola e dispersa in un cielo a vento,
dispersa e sola in un cielo in guerra,
quanto sola e dispersa
la senzanavi la senzafrusta
lentamente virata
gelidamente inversa
sfonda la bocca al buio dell’agoraio.
La tirannide
Si scosta dalla sua forma di specchio il sole
dalla visione oppresso, dall’arsura,
e a un corridoio di freddo si allontana.
Dal lembo estremo delle sue vesti
frecce di ferro e fruste
d’oro e piombini di cerbottana
a dirotto all’indietro
fanno grandine forte.
Lui impugna quella sua lama di vetro
e giú colpendo svuota ferite a morte
e disperatamente sgozza
i testimoni manifesti
che oltre lo specchio abitarono, e ora ingozzano
sbraitando sangue per le museruole
la connivenza di un’abiura.
Farcia satura
Farcia satura – i pezzi, il tritume
grasso, incrostato, infrollato, che eccede
putrefacendo schiume
– troppa, dentro, a cucchiai,
a pollici inzeppata a dismisura
– farcia satura – mista
dai profondi grumi imperfetti – guasta
infiltrando rovina che cede
ma rigogliando essa, e mai le basta
il male grigio che incista
i tinti gineprai
a millimetri, piano, come un fiume.
Ma fuori della borsa
– della sacca – di pelle e cucitura
sta un mondo, io credo, in corsa.
Il rizoma
A eventi piuccheperfetti una talea
gemma d’imperfezione scosta, un tralcio
che volta tutte le foglie a un oriente
impaziente, irredento, e dunque passa
volo di starne per le lunghe righe
dello spazio migrante, e a un salto, a un calcio
cambia casacca il mare delle spighe,
e scioglie la verdissima matassa,
e la riaccoglie, lieve sfrido al niente,
il rizoma di terra estro a un’idea.
Praterie di fieno
Ma tu non fare spazio al chiuso al fieno
l’urto dell’erba declinando. Sbatte
la porta al vento e porta dentro l’aria
a vagoni, a velari. Apre di fronte
la grata una finestra che altro vento,
altro, o l’altro mutato, incrocia e varia
come sole con ombra. E tutto il monte
di nero e verde se ne affanna dentro,
contro via, contro senso, per rifatte
praterie intruse dal vuoto nel pieno.
Cilecca
Imbracciato il fucile, l’alta obliqua
amazzone mirò nel cervo all’acqua,
zoccoli chiusi nell’erba, e dall’occhio
chiuso fuori di mira un raggio a specchio
all’occhio aperto che sfondava il cerchio
a imbuto della mira una risacca
obliqua come suono dall’orecchio
sventò cadendo di lato dal tacco
della distanza l’alto al basso, pecca
di precisione da olio liscio a morchia,
e il piombo spaccò a mezzo una siliqua
che a un ramo verde inclinava la stecca,
fuggendo il cervo alla selvosa cerchia
a esedra aperta per zoccoli e tocco
nel suono d’eco lunga di cilecca.