Dopo PoesiArte – Quintocortile 2017

Pubblicato il 25 giugno 2017 su Eventi Milanocosa da Maurizio Baldini

 

Dopo PoesiArte – Quintocortile 2017

Testi commenti e immagini

di

Adam Vaccaro, Claudia Azzola, Laura Cantelmo, Giancarlo Majorino,

Cristina Annino, Annamaria De Pietro, Fabio Franzin, Guido Oldani,

Franco Buffoni, Maddalena Capalbi, Luigi Cannillo, Amedeo Anelli,

Filippo Ravizza, Giancarlo Pontiggia, Sebastiano Aglieco, Beppe Mariano

Rinaldo Caddeo, M. Carla Baroni, Marta Rodini,

Gabriella Galzio, Anonimo, Citazioni.

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A conclusione delle due giornate di PoesiArte – Quintocortile 2017, due righe di compiacimento per l’atmosfera prodotta dai vari contributi, in gran parte rispondenti alle sollecitazioni della proposta (ripresa qui sotto), che intendeva connettere devastazione linguistica e falsificazione di sensi politici, sociali e culturali. Ancora una volta, anche in questa XIV edizione, abbiamo prodotto un evento di condivisione intensa di ricerca, tra pensiero critico e poesia, tra creazioni d’arte e momenti musicali, tra tensioni e testimonianze di complessità e totalità. Termini ricorsi spesso nei testi e negli interventi.

Ringrazio perciò tutti e seguono alcuni dei testi letti con commenti e valutazioni di coloro che hanno ritenuto di inviarli. A.V.

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Adam Vaccaro

L’edizione di quest’anno di PoesiArte propone di misurarsi con le parole, nuove o antiche, che oggi nei linguaggi dei media, della politica e delle classi del cosiddetto establishment, vengono spesso tradite/ribaltate di senso, concreto e ideologico – a cominciare da libertà, giustizia, lavoro, diritto ecc.. Parole che da Kant in poi il pensiero critico ha qualificato come colonne portanti della nostra operatività mentale, cioè della nostra capacità di conoscere e capire il mondo. Il tema di quest’anno vuole perciò sollecitare un’azione creativa – con scrittura o immagini – su una Parola ripresa nei suoi sensi e valori più autentici o umani, che si tratti di neologismi anglofilo-tecnologici, o di nuclei di senso della nostra identità culturale più profonda.

Più che terminologie derivanti da anglismi e/o tecnologia (formattare, masterizzare, cliccare), o latinorum grotteschi, come Porcellum) sottolinerei l’utilizzo di make up ed estetizzazione della politica, per far apparire smart (brillante/intelligente) una sostanza di vessazioni, barbarie, illegalità e crescente concentrazione della ricchezza. Un lavoro costante di cover – basti pensare a jobs act, fiscal compact, buona scuola ecc. – su termini come garantismo (o impunità di potenti?), accoglienza (o tratta di schiavi?), riforme, cambiamento, populismo o sinistra e destra, spesso nei fatti indistinguibili referenti del pensiero unico liberista.

Un imbroglio incessante tra chi ha potere (anche di parola) e chi lo subisce, nell’attuale guerra di ricchi contro i poveri, che massacra corpi, pensiero critico e capacità antropologica di seguir virtude e conoscenza. Del nostro bisogno di essere corpi di verità e senso, così spesso traditi.  Adam Vaccaro

Agnelli e Iene

Terrorizzati Agnelli corrono

incontro a sorrisi di Iene

chiudendo occhi e ogni

cast(r)a capacità di capire

di sapere che pene ne gride

ranno tra le ruote dentate di

questo scientifico macello

di questa santificata barbarie

Ma per fortuna dichiara

solenne il Sig. Presidente

noi siamo qui a tenere alto

e fermo il punto di difesa

della dignità di ogni agnello

7 giugno 2017

Adam Vaccaro

Claudia Azzola

Ciao Adam,

qualche considerazione in merito alle due giornate del Quintocortile. Mi sembra proprio che si sia creato uno spazio riflessivo e proiettivo che un suo senso culturale l’ha ottenuto negli anni. Quando si ottiene, anzi, si occupa, uno spazio, si afferma la volontà di mantenerlo, di arricchirlo di contenuti. Tutto ciò che si progetta, si mette in campo, deve entrare nel circuito della cultura, e magari essere ampliato e rafforzato. Ritengo l’esperienza di questi due giorni positiva, in questo senso, non nel senso di una semplice vetrina. Leggere poesia è un atto vitale. Come fare un’opera d’arte è un atto della vita. Le cose devono avere un senso. Un caro saluto, Claudia

azzola

 LA LETTERA

Ha fatto breccia una lettera antica:

colava mali longevi con tempesta,

giunti per posta, e tare della specie:

si spacca il mallo, il ditirambo

genesi della tragedia, il coro greco,

negati dai cronisti-scrittori

così per dire, del romanzo,

vocabolario…ordinario!

Ci metto la tacchetta gialla,

a futura memoria, ieratico trifoglio,

auspicio, ventura: per concludere.

E sciacqua il fortunale, tempesta batte.

Claudia Azzola

Laura Cantelmo

Caro Adam,

dopo la notevole rassegna Quintocortile ho provato un entusiasmo nuovo per il livello di gran parte dei testi letti, per l’attenzione dei presenti. Ti invio la mia poesia come convenuto. Visto che alla maturità hanno dato un testo di CAPRONI da analizzare, tra lo stupore di tutti (quasi nessuno lo conosceva), Saya ha osservato su FB: “Tranquilli, nessuno di noi sarà mai dato da analizzare alla maturità”. Se ne potrebbe fare un convegno: perché Merini e Pozzi fanno piangere mezza Italia e un grande come Caproni è un ignoto? Inventiamoci una pazzia, un passato torbido e forse saremo ricordati ( le poesie saranno poi un inutile dettaglio). Facciamocene una ragione, senza deprimerci. Hai ragione, il titolo originale del mio testo è più incisivo.

Ciao e grazie ancora 

Laura

 

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Nomi

Non è vero che ancora la Terra è il nostro campo

di gioco, da quando al volgere del millennio

un rapace notturno ha smorzato il fuoco tremolante

donato dal Titano.

Il crimine è il seguente: infranta  la clessidra

le lenti son cambiate, il tempo scordato si è

accasciato sui tavoli  tra sbornie  e avanzi

di un pranzo luculliano. La memoria s’è fatta

opaca – con le nebulose dei sogni i nomi

si dissolvono nell’aria.

Dalla vernice dei muri Libertà per tutti

chiama a raccolta noi, che ci svegliamo affranti

in una gola di cloaca. Libertà, il sogno

stretto nei pugni scarniti,  si è fatto gioco

e si gioca tra pochi,  dentro al banco dei pegni.

Con le fronti premute sulle porte delle case

tra le macerie  i morti sui sassi delle strade

le pene dei vivi nel deserto assolato chiediamo

ragione della inutile guerra che addensa

il sangue nelle vene. Come  è dura la risposta

degli astri per noi senza memoria – quella che vedi

in questa luce fosca, fitta di nemici, è guerra

umanitaria.

 

Non riconosco più il respiro dei nomi,  che sia

straniera o nostra, la lingua è altra e foriera d’inganni.

In questi anni strani di aspre delusioni,  l’affanno

della voce riconduce  a un  agguato che ha lo sguardo

scaltro, il volto avverso e noto.

 

Fraternità  affonda  nella tomba di Antigone –

la morte di Gaspar * divenuto insetto infonde

strazio e pianto. L’hanno spazzato in fretta

calpestando i ligustri con un lugubre carretto

sradicando in ore antelucane le nostre prime

viole in una scena vuota, senza cenni d’affetto.

Per questo a te, Grete Samsa*, bella e sprezzante

dell’umano, elevo un carme, allo stupore infetto

della tua post-verità  di amorevole sorella.

 

Riferimento al  racconto di Franz Kafka, La metamorfosi

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Laura Cantelmo

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Giancarlo Majorino

Caro Adam,

ho avuto la conferma partecipando a questo evento di PoesiArte di Quintocortile, della quantità e qualità degli Autori che hai il merito di continuare a coinvolgere e radunare, dopo tanti anni di impegni tra poesia e realtà. Giancarlo Majorino

 

majorino

astri tinti girano nel cerebro

quel corpo luminoso che han persino i poveri

tutti, le donne particolarmente

la sera, quando si stringono

la notte accendendo la carne da diva

luccicanti argento dici? Dentro i tubi

posson morire in tanti ma non il Tutto

 

Giancarlo Majorino

(Da Torme di tutto, Mondadori, Milano 2015)

 

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Cristina Annino

Questo mio testo sta forse ai margini della tematica proposta, ma credo che in qualche modo la rifletta.

Ciò può verificarsi anche con l’uso di parole appartenenti a una lingua non nostra e che neppure conosciamo bene, ma che usiamo, diventando quasi un codice di fratellanza, un surrogato di una idealizzata specializzazione. Che spinge a essere deferenti, come soggetti “importati” nel proprio territorio linguistico e non il contrario. Che perdono e cedono, quindi, la loro padronanza. Causa di ciò io credo sia il desiderio di essere altro da sé. Desiderio che si oppone alla propria coscienza nella misura in cui falsifica la conoscenza (di sé e dell’altro). L’uomo, nella poesia, è infatti descritto come misero, malaticcio, ridicolo. 

Tale alterità che oggi è riscontrabile in tanti comportamenti sociali ben più importanti di quello da me descritto, tende a fondere una nostra soggettività nella sostanza altrui, e ciò desta una ripugnanza nel personaggio che abbiamo definito più evoluto. Non può esserci colloquio – sembra affermare questi – perché esiste ormai un desiderio verbale definibile come  sottosuolo rispetto a noi e come servitù nei confronti di esso, il quale scombina le carte, crea problemi di dialogo, confonde le identità.

Perciò nel caso del mio testo e per il fatto che ognuno di noi è in primo luogo la realtà del  proprio linguaggio, impedisce, ripeto, ogni culturale esigenza di comunicazione.

majorino

I due Pini

Il riflesso lo copiò sotto i pini

del cielo romano, poi altrove.

Ogni azione

è spirito della carne. Avvio

poderoso! puro-puro, fumandolo

con sé; che altro? (Forma

rombica del viso, lampi fiochi).

Sempre

sicuro, James; ora c’è quel

ritratto di signora, lento, una

crepa sul muro. Io non sono

Flaubert che mai

viaggia solo, non esce … Anche

un gatto può guardare un re, ma

se guarda me, che ci vede?

Si diverte così, si sdraia su

sofà grigio malva, beve in quel

modo affettuoso di Chandler anni

dopo. L’altro prevede tutto

da casa, come un

veggente. “Dimmi Hanry, la

la digestione cos’è? Assimila

le differenze, perde identità o

se la prende, no!? quella di lui

fu dura, magari poca. Ma se

la pasta va mangiata al

dente…il difetto qual è?” Non sente,

annusa della carne l’idea,

straparla, viaggia signora distante

morale; si chiede: dove

andrò, che già non mi basta l’Europa?

Cristina Annino

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Annamaria De Pietro

Segni d’inverno

Carta di cartapecora raschiata

male confuse il segno nuovo al vecchio,

l’inchiostro fresco con l’inchiostro secco,

e fuori piovve tutta la nottata.

La parsimonia del palinsesto coltivava l’arte dell’adattamento, la pazienza dell’imperfezione, lo spaccio della fretta che con mano ladra butta via. E preservava la storia, il lungo passare e sorpassarsi dei segni del tempo, ininterrotto rispetto di opinioni. Fuori pioveva; l’umido scongiurava il secco fragile, srotolava lo stelo flessibile della durata.

Annamaria De Pietro

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Fabio Franzin

Dèss te dise che ‘ven pers

(a mio padre, 15 anni dopo la sua morte)

Dèss te dise che ‘ven pers, caro pare,

te dise che me arende. No’ basta

el sest de pochi a salvar ‘na realtà

senpre pì càncara e cànajia, romài

a piega storta no’ se ‘a indrezha pì,

anzi, ‘a ‘é cussì de moda, che ‘a par

parfìn normàe, che ‘a par ea, in fondo,

a verità. I ‘é riussìdhi a rebaltàrla,

un cit al dì, come spostàr ‘a lìnia

de un confin un miimetro aa volta,

che squasi no’ se ‘ven nianca incòrt

de èsser za par de ‘à, catàrse in pochi,

persi, spaesàdhi, fra ‘e belve, i mostri.

Dèss te dise che i farabuti, i facia

tosta, i vinzhe sempre, e co’ i perde

i se ‘a cava sol co’na tiràdha de rece.

I se ‘a cava, cavalcando draghi e avocati,

col sorìso cusìo come scudo ae ‘àgreme

dei vinti, ai sghinzhi de sangue dea paròea

giustizia, strazhàdha sot’e só sgrinfe.

A noàntri, né santi né carogne, ne resta

na rabia orba drento ‘a testa, drio ‘a gabia

dee coste. Ne resta el corpo senza vita

de l’onestà, da sepoìr de pressa, prima

che i ghe spue, i ghe pisse ‘doss, che i ‘o

ofende ‘ncora de pì, cojonàndoeo come

un pòro senpio, ridendo dea só creduità.

Ora ti confesso che abbiamo perso

Ora ti dico che abbiamo perso, caro padre, / ti confesso che mi arrendo. Non basta / il gesto di pochi a salvare una realtà / sempre più cinica e canaglia, ormai / la piega storta non si raddrizza più, / anzi, si è così adattata, che pare / persino naturale, che sembra essa, in fondo, / la verità. Sono riusciti a stravolgerla, / un poco al giorno, come spostare la linea / di un confine un millimetro alla volta, / che quasi non ci siamo neppure accorti / di averla varcata, trovarsi in pochi, / persi, spaesati, fra le belve e i mostri. // Ora ti dico che i farabutti e i faccia / tosta vincono sempre, e quando perdono / se la cavano soltanto con una tirata d’orecchi. / Se la cavano cavalcando draghi e avvocati, / col sorriso cucito come scudo alle lacrime / dei vinti, agli schizzi di sangue della parola / giustizia, sbranata sotto le loro grinfie. // A noi, né santi né carogne, resta / una rabbia cieca dentro la testa, dietro la gabbia / del costato. Ci resta il corpo senza vita / dell’onestà, da seppellire in fretta, prima / che ci sputino, ci piscino sopra, che ne / facciano scempio ancora di più, deridendolo come / un povero idiota, sghignazzando sulla sua ingenuità.

Fabio Franzin

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Guido Oldani

Il tradimento: non vorrei sbagliarmi ma oggi il tradimento è la vera e propria figura retorica della vita sociale. Si va da quello coniugale a quello politico, dal tradire nelle attività finanziarie globali, fino a quello praticato verso il vicino di sedia al bar.

Le relazioni fra artisti, poeti e narratori, rappresentano un campo privilegiato per l’esercizio di questa servile virtù. In “Nostro fratello Giuda”, Don Primo Mazzolari sostiene che il Cristo l’abbia perdonato nel momento stesso del bacio. i due ladroni e l’Iscariota

costituiscono un terzetto che varca la porta del paradiso. Immagino un festival dedicato al tradimento, in cui vince chi tradisce di più.

Un abbraccio

Guido Oldani

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Leader occidentali

si è come la biancheria

ad avere dei leader stagionali,

napoleoni da televisione.

l’uno, gli allunga il naso se apre bocca,

è un gonfiabile boy il parigino

e trump ha il tono d’un cannone a salve,

intanto in piena luce la finanza

striscia peggio d’un verme, sulla pancia.

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Franco Buffoni

Caro Adam,

apprezzamenti e ringraziamenti per la calorosa accoglienza. Copio qui sotto uno dei testi che ho letto. La parola in realtà sono 2, ed è il titolo della poesia. Un caro abbraccio Franco
buffoni

UNDICI SETTEMBRE

  

Quando alla luna dici le preghiere

Non ti accontenti di nuvole in risposta

Che ti solchino il volto, chiedi

Fatti concreti, miracoli scendenti

Come birra analcolica

A salvarti dal tramonto di domani,

Dall’illuminismo, dai tradimenti

All’unico dio, dai dubbi sui cavalli alati

Persino dalla filologia.

E oggi undici settembre

In via XX Settembre qui a Roma

Ho incontrato un gruppetto contento

Di seminaristi pakistani…

Sarà il brivido della storia

Ma mi è venuta una gran voglia

Di ragazzi

Della Repubblica Romana.

Franco Buffoni

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Maddalena Capalbi

Caro Adam, ringrazio ancora per la bella opportunità che mi hai dato. La manifestazione è stata interessante ed importante perché lo scambio poetico sul tema proposto, è stato di arricchimento. 

Ti invio il testo che mi hai richiesto. Un abbraccio Maddalena

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LATINORUM TRA

EMOTICON, TWITTER E ISTAGRAM

Formule magiche per prendere tempo,

l’apocalisse delle parole

che non dicono nulla

è sostituita da emoticon

tanto per primeggiare su

twitter e istragram.

Catturare appelli incomprensibili

e cinguettii irritanti

formattare

la misera luce

tra il denso delle nuvole

dove si leggono ‘accusativi’ insensati

per un latinorum del terzo millennio

– così, tanto per preparare una

memorizzazione di massa -.

Non è che un messaggio inutile

per far sorridere chi non ha più aspettative.

Intanto siamo tutti prede di parole drogate

in attesa di una morte luminosa

per un’abbuffata di torta alla panna.

Maddalena Capalbi

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Luigi Cannillo

cannillo

Risveglio, timbro sospeso

si raduna il carico di oggetti

e sentimenti da battezzare

parole spinte nel recinto delle cose

a definire contorno e sostanza

La luce al debutto fiuta ancora

nel disordine i resti

del giorno precedente abiti smessi

Ci ferma eterne reclute

finché al battito al tocco

al sorso di latte nella gola

tutto si riconforma nomi e cose

si saldano nostra corazza

verso aperto giorno

Non si fanno ingannare i sensi

anche se capovolti nella nebbia

o quando non facesse mai mattina

non barano chiamano uno a uno

e all’appello accelerando

salpa, ci sorpassa ogni cellula

si congeda lieve il suo monumento

Luigi Cannillo

da Cielo Privato, Joker Ed., Novi L. (Al), 2005

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Amedeo Anelli

Versi in treno

a Gianluigi e a chi opera

Né la polvere né i fuochi

una densa nebbia accesa di luce

in treno dentro la nebbia fitta e luminosa in banco

poi in un terso mattino

nei campi prima allagati

nella coltre di neve spuntano stoppie

allineate come tanti soldatini al presentat’arm

meno stato meno mercato

più beni comuni”

la luce è affilata nella distesa bianca di ghiaccio

il treno va silenzioso come il sonno

c’è chi picchietta sul computer c’è chi dorme

c’è chi ascolta dalle cuffie

c’è chi fa un selfie con l’alluce

nessuno parla ed argomenta

fra le sagome sbuca la luce

silenziosa la natura si fa futuro ed incombe.

Amedeo Anelli

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Filippo Ravizza

“Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Ciò che il concetto insegna, la storia mostra appunto che è necessario: che, cioè, prima l’ideale appare di contro al reale, nella… maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”

Georg Wilhelm Friedrich Hegel – Prefazione a “Lineamenti di filosofia del diritto”

 

“L’umanità dopo Hiroshima e Nagasaki per la prima volta si è specchiata nella raggiunta capacità’ tecnica di autoannientamento, autodistruzione e estinzione. Qui la tecnica imprime una torsione, una distorsione allo sviluppo della Storia che è in atto ancora oggi e da cui non sappiamo se e come e quando usciremo. Questo stallo è ciò che nel mondo occidentale è stato percepito come “fine della Storia”… ma la Storia si muove, si muove anche nell’epoca del dominio della tecnica e dell’ideologia pervasiva e totalizzante che oggi governa proclamando che è finita l’epoca delle ideologie .Questo cambiamento, questa torsione deve però essere ancora pensata dalla filosofia, deve ancora essere affrontata, siamo ancora nel pieno del livido giorno della era nucleare, l’era che ha deposto nelle mani della tecnica la capacità di eradicazione dell’intera umanità. Pensare la cesura e lo iato, lo slittamento del senso stesso del procedere del tempo e del rapporto tra idea e realtà provocati irreversibilmente dalla nuova condizione dell’essere – nel – mondo, è urgenza preliminare a qualsiasi tentativo di sistematizzazione futura del futuro.”

Filippo Ravizza

 

 

La forza per cantare

 

Parole lontane arrivano leggere

scendono da ogni dove a te sorelle

camminando tra gli ostacoli nei lampi

risuonano toccano il tuo rammemorato

annichilito cuore soltanto tu

pari sentirle ancora brividi

brividi orribili di povertà anime

senza più patria e ragione sali

tutti i gradini della disperazione

e ancora trovi la forza per cantare

per dire la potenza della poesia

che dice attenti attenti ancora indossa

ogni mattina la maschera dell’agnello

il lupo più feroce.

 

La forza per cantare”, poesia di Filippo Ravizza, tratta dalla raccolta “La coscienza del tempo”, La Vita Felice Editore, Milano, maggio 2017

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Giancarlo Pontiggia

Scuola

Forse la storia dell’umanità si potrebbe risolvere nella storia delle sue infinite costruzioni fantastiche, metafisiche o materialistiche, ma sempre dotate di questa perenne tensione a contrastare lo stato delle cose – in fondo così misero – con qualcosa di più sopportabile e soddisfacente, che alimenti il nostro innato desiderio di verità immaginose e ideali, e mitighi la tragica percezione di limite e di mortalità che incombe da sempre sulla condizione umana.

L’avvento delle società di massa, che è certo connesso con l’enorme sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi due secoli, ha però introdotto nella sfera dei concetti sociali qualcosa di nuovo, e cioè la necessità di soddisfare gli stati emotivi dei grandi – sempre più grandi – aggregati umani e insieme di fondare una visione pragmatica e illuminata delle cose del mondo: la scuola è uno dei campi in cui più evidente è questo contrasto, i cui esiti sono spesso così felici per le famiglie, così rovinosi per gli insegnanti.

Ogni anno scolastico si apre con proposizioni di spettacolare forza pragmatica e progettuale. I piani di lavoro disegnano un cammino in cui tutto è regolato fino all’ossessione: finalità, obiettivi, prestazioni, criteri di giudizio. Nondimeno, non c’è fine anno che non veda il totale sovvertimento di ogni principio, il ribaltamento parodistico di ogni parola d’ordine: nella stanza magica degli scrutini, i voti vengono all’improvviso adulterati, i giudizi contraffatti.

Naturalmente, su tutto questo opera il viluppo indistricabile delle infinite pedagogie, che si sono incardinate l’una nell’altra, negli ultimi cinquant’anni, fino a generare uno stato di costante disordine nelle menti degli insegnanti: i quali non sanno più come e che cosa giudicare, recalcitrano a ogni tentativo di far chiarezza, si piegano a ogni vessazione ministeriale.

Qualche sociologo potrebbe obiettare che questa, in fondo, è solo l’astuzia della Grande Storia: non abbiamo più bisogno di persone colte e dotate di un pensiero critico, ma non siamo ancora pronti ad ammetterlo; e per questo abbiamo bisogno di fingere, all’inizio di ogni anno, di voler formare cittadini coscienziosi e preparati, mentre alla fine di quello stesso anno cercheremo ogni sotterfugio – non importa se di ordine psicologico o sociale – pur di evitare un compito che non viene d’altronde neppure richiesto, che anzi viene scrupolosamente messo sotto accusa dall’ordine sociale: sull’insegnante che denunciasse il disastro culturale di una classe, sorgerebbero implacabili le Erinni dell’Opinione Pubblica e delle Nuove Istituzioni, perseguitandolo e denunciandone l’insensatezza. La colpa di ogni insufficienza, come si sa, ricade sull’insegnante.

L’universo – politico e culturale – che si è delineato dopo l’Ottantanove si fonda sull’imperio dell’emotività, che è la nuova grande merce contemporanea; ma anche sull’urgenza di sorvegliare che questa emotività non trabocchi dal suo alveo. Più delle immagini e dei suoni, le parole pesano, e per questo continuano ad essere temute, quando pretendano di stabilire una coerenza, un ordine di percezione e di giudizio della realtà. Il problema della scuola attuale è di dover ancora fare i conti con un’idea di cultura alta che ostacola i cammini radiosi della Nuova Tecnologia, ma che si fatica a combattere apertamente: la contraffazione sistematica di ogni giudizio nel mondo scolastico contemporaneo, rivela una contraddizione pressoché insanabile, poiché la scuola continua tuttora ad essere designata – nei discorsi ufficiali – come un luogo di studio, ma nessun uomo di potere vorrebbe per il futuro generazioni di uomini colti e pensanti. La devastazione psichica di cui soffrono, ormai, troppi insegnanti, è il frutto più vistoso di questa contraddizione.

Giugno 2017

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Orinatoi divenuti fontane

Orinatoi divenuti fontane,

aghi e fili che cuciono – spropositati –

gli incubi della mente,

comici che pontificano, tragici

resi muti dalle loro visioni,

politici senza gloria, dissennati,

e la terra che vaga – fuori dal suo asse –

in un alveare di pensieri confusi: è questa

la notte che scivolò inavvertita,

con urti, con pesi,

nelle nostre stanze?

Nel tempo buio, nel tempo

senza tempo, quando ogni anima

è persa, e annaspa, e i poeti, loro, per primi,

ci intimano «perdetevi

in briciole e frammenti», quando

ogni verità è bandita, e il suolo

delle lingue calpestate da un flabello

lieve, suadente –

di chiacchiere, quando

si allungano e allungano i versi, indeclamabili

agli orecchi che si tendono

nella notte di ogni suono, e senti

l’ala di un’imbecille solitudine tentare

il tuo cuore, premere

con soffi, con balsami

sul tuo cuore sovrastato, prigioniero, sordo – non è questo

non è questo, dimmi,

l’autunno delle foglie che marciscono, della vita

che si ritira, lenta, torpida, in un sonno

di case e di lenzuoli?

Giancarlo Pontiggia

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Sebastiano Aglieco

Caro Adam, ecco due parole … E ringraziandoti ancora per l’invito. Un abbraccio. Sebastiano

Ho scelto la parola ACCOGLIENZA, una delle più dolorose e abusate dei nostri anni, causa il degradarsi delle nostre società, dei sommovimenti antropologici in corso, di un esodo di popoli che ormai difficilmente si può definire con la parola emigrazione.

E viene da pensare, per doloroso contrasto, a cosa voleva dire una volta, “accogliere”, essere ospitali. Riuscivano ad essere ospitali anche i poveri, con quel desiderio di offrire il poco che avevano, evangelicamente – se un ricco fa l’elemosina è poca cosa, in quanto si libera del poco che gli avanza; se lo fa un povero, egli darà il di più che già non ha -.

Eppure l’Italia continua ad essere fatta di gente generosa, capace di spendersi nelle situazioni di calamità e di disagio! Lo fa tutte le volte che c’è un terremoto, tutte le volte che bisogna raccogliere soldi per la ricerca medica non badando a spese.

Che cosa è accaduto, allora, che sta stravolgendo il senso più intimo del nostro essere accoglienti? Un sommovimento, appunto, di popoli. Fenomeno per il quale né la politica, né la grande finanza, né tutto il volontariato del mondo riescono a far fronte. Siamo, dunque, in una situazione di disagio, che ci porta a pensare, per paura, che l’ altro debba essere confinato, anche fisicamente, per non nuocere. Che l’altro sia lo specchio di una perdita di identità che viviamo come rischio.

Che cosa può fare la poesia? Come sempre la poesia non può far altro che creare forma, onesta e robustissima forma per dire di questo esilio, di questa insignificanza culturale, di questa degradazione dell’etica, della politica e della cultura. Può dire solo se comunica, se trasmette, senza ammantarsi nell’estetica della forma, ma, semplicemente “essendo”, vivendo a contatto, persino con la voce strozzata, non importa, ma a contatto con la realtà bruciante che ci brucia.  Altro non può fare un poeta. Un poeta deve essere soprattutto un uomo che fa. La parola non redime proprio nessuno.

I testi che ho letto sono stati pubblicati, in parte, a cura di MILANOCOSA, nella rubrica degli inediti.

 

‘na matri

rumpu i lati ra ggèbbia

tutt’i matìni mi spaccu a testa ri pinzèri

e a luci mi fa n cori mmenzu e manu rapùti

àgghiu n carùsu appinnùtu o coddu

comu n ciùri ca si scusi

*

una madre

rompo gli argini del canale

attraverso ogni mattina la mia stessa mente

e la luce mi disegna un cuore sulle mani aperte

ho un figlio appeso al collo

come un fiore che sta per scucirsi

Sebastiano Aglieco

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 Beppe Mariano

Bel tema, Adam. Parole d’inganno, devastazione linguistica: ne discendono la corruzione culturale e politica.

L’esempio che sostengo è il fumo.  Un tempo poteva avere diversi significati, qualcuno anche positivo nell’ambito della visione. Poteva, ad esempio, rappresentare la bontà della casa e della unione familiare sotto il camino fumante. 

Ma poi i camini sono diventati quelli dei campi di sterminio… Si è così corrotto il concetto stesso di visione e pertanto il fumo lo percepiamo ormai come un inquinante mentale prima ancora che ambientale.

                                                                                                                         B.M.

IL FUMO

Bruciano nei campi sterpi d’autunno.

Nuove plastiche s’arroventano

e passano per un camino.

 

Le osservo spasimare

e contorcersi nella fiamma

e, pur mute, gridare.

 

Il fumo che ne sale più non appare

dopo la cremazione dei vivi

innocente visione.

Beppe Mariano

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Rinaldo Caddeo

NORMALE

 Sono una persona normale.

   Faccio cose normali. Ho una moglie normale, dei figli normali, un lavoro normale. Non mi piacciono le stravaganze. Amo la gente normale, le cose semplici. Sono talmente normale che tutti vengono da me, si confidano e mi chiedono qualche consiglio per essere normali.

   Devo dire spesso di non arrabbiarsi, di fare le cose con calma, di non preoccuparsi (tanto non serve), di prendere la vita così come viene, eh dai! di dimenticare, di vivere a questo mondo come se fosse il migliore dei mondi possibili, insomma consigli normali: «vai in rete, clicca “mi piace”, iscriviti a un nuovo social, partecipa a un dibattito in un forum», «accendi la tv, ascolta, non prendere le cose troppo sul serio, e se proprio ti stanchi, cambia canale, basta schiacciare un tasto del telecomando!», «affronta i tuoi problemi come se fossi capace di camminare sull’acqua anche se non sei in grado di farlo, nessuno che non sia un impostore è in grado di farlo», «non pretendere di fare miracoli, di moltiplicare pani e pesci, accontentati di quello che fai, di ciò che già sei», «non crocifiggerti, se non ti riesce una cosa passa a un’altra», «non ti piace la tua faccia allo specchio? Non ti guardare o mettiti di profilo».

   Se i predetti consigli non vengono accolti, consiglio di non pensarci, di fare un viaggio: «a volte basta un giro nella stanza per togliere la propria vita dall’attaccapanni e rimettersela indosso, come un abito nuovo».

   Se la distrazione non funziona, allora consiglio di prendere a calci negli stinchi il mondo, di schiaffeggiare in faccia la realtà. Dico loro: «tu vali, tu puoi se lo vuoi!».

  Se anche questa linea aggressiva non ottiene successo, ovvero non serve a un bel niente, come a un bel niente sono serviti i predetti consigli, allora li porto nella stanza segreta. Coloro che mi seguono in questo luogo hanno abbassato la guardia poiché non ce la fanno più e hanno, per forza, una fiducia incondizionata in me. In un angolo semi-buio c’è un teschio, appoggiato a due tibie incrociate. Glielo faccio accarezzare. Gli faccio baciare in ginocchio le orbite vuote. Gli faccio donare una piccola offerta del proprio sangue e se fanno tutte queste cose senza opporre resistenza, mostro il contratto e, di solito, firmano e, se non lo fanno subito, ritornano il giorno dopo. Nessuno vuol sapere, purché cessi il dolore. E il dolore cessa subito, appena apposta la firma in calce al contratto. L’accordo con il male è un calmante potente. Debella le paure. Rimuove il mal di testa o i mal di schiena o i mal di pancia. Estingue insonnie, attacchi di panico, manie di persecuzione. Accoglie sotto la sua ala le menzogne, acconsente alle notizie false, a bufale e fanfaluche varie di essere apparecchiate, quindi di apparire vere, senza sensi di colpa. Tramuta il ragionamento in collera, dato che c’è sempre qualcuno, malintenzionato e “con le mani in pasta”, che si mette di mezzo al raggiungimento della nostra felicità.

   Non mi accontento più di qualche carezza lasciva, di due salti davanti a un falò. Non so che farmene della ginnastica dei trucchi o delle giaculatorie. Non desidero beni o ricchezze. Voglio vedere bei gesti, voglio l’anima, azioni, sacrifici. Tutto ciò che taglia, separa. Il colpo alla nuca, le sedie elettriche, le ghigliottine. Mi piacciono le liste di proscrizione, i muri con i reticolati, i campi minati. Mi piace vedere le smorfie del terrore, le mani tremanti, il sangue sprizzare dalle vene. Non so che farmene delle voci bianche, dei canti gregoriani, mi piace il calcio nei testicoli, il cazzotto nello stomaco. Occorrono esplosioni che dilaniano i corpi, conficcano schegge roventi nella carne. Mi piace la guerra, combattuta con la clava o con i computer, è sempre la stessa cosa. Mi piace la vendetta. “Occhio per occhio, dente per dente”. Adoro sopra tutto l’invidia, l’odio primordiale, quello di Caino per Abele.

     Se vuoi avere successo, immagina di avere davanti l’individuo più rozzo della terra: rivolgiti a lui. Se convinci lui, convinci tutti. Bisogna partire da postulati elementari del tipo: «prima noi poi gli altri». «A casa mia comando io, a casa tua?». Bisogna svilupparli: «Sbarcano a casa nostra, luridi, affamati e pretendono da noi quello che noi non abbiamo mai avuto». «Ci tolgono le case e il lavoro: ma non hanno nessuna voglia di lavorare, deturpano, sono ingordi, appena possono rubano e ammazzano».

   Poi si passa all’azione: c’è sempre un incauto, in giro, da mettere alla berlina per la strada, arrestare o bastonare, o un altro che si fa esplodere per andare in paradiso. Si comincia così. Come fa il gatto che gioca con il topo? Imparate dalla natura. La natura è crudele. La migliore medicina al proprio male è fare del male agli altri. E io, come un bravo medico, la offro gratis, o quasi. A questo punto, il dado è tratto. Le cose procedono da sole. Lasciarle andare per il loro corso, fino in fondo… È facile.

   Sono il diavolo, un normale diavolo.

Rinaldo Caddeo

 ***

Maria Carla Baroni

Caro Adam

grazie soprattutto a te per aver organizzato l’iniziativa. Ti mando il testo letto martedì scorso chiedendoti di tenere valida per il testo collettivo la prima poesia “Comunismo”.  Scusa se non ho risposto prima ma sono stata via tre giorni per il partito, in Umbria e a Roma e sono ancora un po’ più stravolta del solito.

Buona estate e un abbraccio a tutti e a tutte Maria Carla

*

QUINTOCORTILE2017

Mi piace molto che questa rassegna di MIlanocosa/Quintocortile sia dedicata in sostanza alla potenza delle parole e, quindi, anche alla necessità di opporsi all’uso mistificato che se ne fa.

Non ho mai scritto nulla sulle parole proposte da Adam, ma ho scritto su una parola molto potente, che rimane nella mente e nel cuore di centinaia di milioni di persone nel mondo nonostante le alternanze della Storia.

Ho scritto di comunismo, parola tradita in primo luogo perchè identificata con una precisa esperienza storica ben limitata nello spazio e nel tempo: quella dell’URSS, a sua volta definita l’Impero del Male, con i suoi errori e orrori, certo, ma anche con il ruolo positivo svolto nel mondo a sostegno del movimento operaio internazionale e della liberazione dei Paesi del Terzo Mondo dal colonialismo.

Comunismo mai realizzato con matrice politica anche se esperienze di avvicinamento sono in corso in alcuni Paesi, soprattutto a Cuba e in Cina.

Il comunismo fu realizzato  in base a spinte religiose in piccolissime comunità, durate poco, ma che hanno molto da insegnarci su come ottenere una vita che possa davvero dirsi umana: la primitiva Chiesa di Gerusalemme subito dopo la morte di Cristo, ; la Repubblica di Santa Ana al confine tra Argentina e Brasile realizzata dai Gesuiti insieme al popolo Guaranì nella seconda metà del ‘700 e i kibbutzim israeliani del secolo scorso.

Comunismo dunque come progetto politico a lungo termine  dalle solide basi scientifiche, ma, di fronte alle ingiustizie e alla violenze sempre maggiori del capitalismo contemporaneo, esso rappresenta non solo una utopia e una sfida, che può essere anche appassionante, ma anche una speranza di solidarietà. Ora una brevissima poesia sul tema del comunismo:

COMUNISMO

Tragedia

di un progetto utopia

non realizzato

che pare morto

senza essere mai nato.

Maria Carla Baroni

***

Marta Rodini

Scuoti la tovaglia dello sfondo:
prese al volo, le briciole, dagli uccelli
sillabe cadute nel becco degli uomini
parola nascente dalle onde
torpide-tiepide delle mie viscere,
che vieni come ladra, di soppiatto…
così uomo così donna, indefinita
a saccheggiare le mie albe, il mio riposo
parola acre, come guscio scarno
di chiocciola, senza mossa d’animale,
ventre vuoto di richiamo e suono
casa di sabbia e non rifugio
parola pietra d’angolo, fondamenta
ai piedi delle città perdute,
istoriata sulle schiene dei tuoi muri
zampillo di lago, filo azzurro
nei labirinti delle acque e dentro il sangue
parola scheggia ignea,  che arde
più dei falò della terra e della Stella
più necessaria del dono del Titano,
che incatena i nessi dentro i mondi…
verità che canta in vena e si tramanda

 ***

Gabriella Galzio

Dopo il cibo di strada che si sbriciola

si vanifica anche l’uso dello smart

che nell’ultima versione sa di agile.

L’agile lavoro è già un fenomeno

è già l’agile gazzella e chi la sbrana,

dopo i voucher che promettono l’esotico

nella nostra civilissima savana.

Chissà che in tanta gaia leggerezza

non si stia consumando l’implosione

senza botto, micidiale, con destrezza

dell’intera civilizzazione! 

“Smart”, Gabriella Galzio

***

Anonimo

(Testo da me copiato, scritto su una saracinesca di un negozio chiuso dalla crisi – A.V.)

Precario

Precario è l’equilibrio prima di cadere o

credere di sapere di stare sull’orlo del burrone

senza aver nulla da gettare

il tempo dei guinzagli può strozzare

chi tira le fila dei fili

e sa solo annodare.

 

Ritratto d’Italia poggiata s’un soffio

che scappa e corre sotto mentre scrivo

che gocciola talenti come foglie al vento

che getta semi sparsi sul cemento

in questo lampo che rimanda il boato

d’una storia che s’è interrotta

che s’ora la distanza si fa corta

ognuno merita il regime che sopporta.

 

Poesia per chi resiste sulle sedie a progetto

per chi s’alza all’alba e non va più a letto

per chi scivola nei cantieri senza contratto

per chi soffoca i padroni del ricatto

per chi pensa che poi tutto va bene

che la paura fa la prigione

molto più che la gabbia

o le catene.

Anonimo

***

 Frasi utili

(per chi non rinuncia a coltivare alternative)

Oggi Warren Buffett è il terzo uomo più ricco al mondo, dopo Bill Gates e Amancio Ortega, e ha detto, ricordando la lotta di classe che era intesa dei poveri contro i ricchi: “La lotta di classe esiste … e la mia classe l’ha vinta”. 

 ***

La dittatura perfetta avrà le sembianze della democrazia, una prigione senza muri in cui  i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù.

Ci sono tre tipi d’intelligenza: l’intelligenza umana, l’intelligenza animale e l’intelligenza militare.

L’esperienza non è ciò che accade a un uomo: è ciò che un uomo fa con quel che gli accade.

Aldous Huxley

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