Convegno Antonio Porta-Atti

Pubblicato il 6 gennaio 2010 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

Antonio Porta e la capacità “presentativa” della poesia

Niva Lorenzini

La citazione da cui ho tratto il titolo per il mio intervento appartiene a una lettera scritta da Alfredo Giuliani al giovanissimo Leo Paolazzi, a tutt’oggi inedita e conservata presso il Centro Apice di Milano. La lettera è del 10 maggio 1959. Già in una lettera precedente del 18 febbraio ’59, commentando alcune tra le prime poesie inviategli da Leo e destinate a confluire nel 1966 nei Rapporti, in particolare Europa cavalca un toro nero e Vegetali, animali, Giuliani, oltre a consigliargli letture che ritiene utili per la sua formazione (Pound, Villon, intanto, e Robbe-Grillet) si appuntava un elemento che resta a tutt’oggi fondamentale per la comprensione della poesia di Antonio Porta. Con il fiuto del critico di razza Giuliani coglieva infatti in quei testi, in particolare in Europa cavalca un toro nero, una singolare “energia di immagini” e una “volontà schietta di rappresentare e narrare l’inferno della cronaca”, una volontà, scriveva, che faceva ricorso a un “montaggio violento e spesso illuminante”. E parlava ancora di “violenta espressività” del vedere, seppure ancora presente “allo stato brado” (questa la riserva che avanzava, di fronte a quei primissimi testi).

Poi, nella lettera successiva del 10 maggio cui accennavo in apertura, ricevendo da Leo una nuova versione di Europa cavalca un toro nero che giudicava più convincente della prima, propone al giovane poeta una riscrittura di Vegetali, animali in scansione “più compatta e ritmica”, e intanto riconosce a quei versi, come tema originale e caratterizzante, un “impulso epico, narrativo”. Seguendo quell’impulso toccherà al poeta di Vegetali, animali provare a conseguire nei suoi prossimi lavori, questo l’auspico e l’invito del critico, “il massimo di ‘presentazione’ delle immagini”, e la cosa non gli sarà difficile perché, conclude Giuliani, il giovane Leo gli appare davvero “ben dotato per ottenere questo effetto importantissimo”.

Cosa significhi “presentazione” delle immagini è illustrato nella stessa lettera dal poeta-critico: significa presentarle, le immagini, in modo che “il movimento del discorso si imponga alla mente del lettore”. E precisa subito dopo: “la capacità “presentativa” delle immagini gioca una parte essenziale nella dialettica tra struttura e dissociazione (cioè tra linguaggio e mondo). Un punto che è utile seguire, nel comporre, è la coerenza delle corrispondenze, la quale non si produce tanto con il ritorno di certe immagini tematiche quanto dalla loro complementarietà, dal loro richiamarsi a distanza cumulando e dinamizzando gli effetti”.

Sino qui Giuliani. Credo che la sua intuizione critica si possa estendere a tutta la poesia di Porta, da quella più direttamente sperimentale degli anni sessanta (quella dunque dei Rapporti e di Cara) a quella più ritmicamente e lessicalmente alleggerita ma non meno icastica degli anni ottanta. Ed è un percorso, questo cui mi riferisco della capacità “presentativa” della poesia, che non può esimersi dai riscontri che offrono, in una fase ancora iniziale risalente in prevalenza agli anni ‘63-64, le poesie visive che Porta realizza in collaborazione con Achille Perilli. Si intitolano Cronache, datate ’63 o ’64. Ne ha indagate alcune di recente Vincenzo Accame in un attento saggio pubblicato su “Avanguardia”, n.12, 1999, ma credo che meritino un supplemento di indagine per una serie di ragioni, divenute per me illuminanti soprattutto in seguito ai manoscritti, ai fogli preparatori, alle tavole che mi ha consentito di visionare, con la consueta gentilezza, Rosemary.

Tra le ragioni sta innanzitutto il fatto che già lì, e vorrei dire proprio lì, prende forma e corpo la “violenta povertà” cui si riferiva Giuliani presentando nel 1961 le poesie di Porta nell’antologia dei Novissimi quando scriveva:

L’accento delle poesie di Antonio Porta cade essenzialmente sugli eventi fisici e sulla loro estraneità allo sguardo di chi vuole penetrarli: estraneità e insieme appartenenza profonda, tale da coinvolgere la presenza stessa dell’uomo […] per Porta sono i fatti in quanto tali, spogli cioè di ogni veste verbale, a proporsi come un linguaggio sufficiente. E’ questa violenta povertà linguistica a suscitare interesse per le sue primissime poesie, ancorché giovanili sotto tanti aspetti.

Abbiamo sentito bene. I fatti, per Giuliani, si propongono in Porta come linguaggio, spogli di ogni veste verbale. I fatti, le cose, dunque, sono esposti, esibiti come linguaggio di per sé, si danno come parole-oggetto, paesaggi di parole (e sono parole che esprimono relitti di pronunce, ammassi di rimosso, violenza metropolitana, cronaca spoglia, stati di choc visivo e mentale). Credo che sia questa la “radicalità della parola” che Giuliani avvertiva in Porta (proprio lui che, riferendo nella Prefazione 2003 alla nuova edizione dei Novissimi, di una visita compiuta con Balestrini e con Porta alla Biennale d’Arte Contemporanea di Venezia dell’estate 1960, scriveva a proposito di un collage di Kurt Scwitters lì esposto, di composizione emozionante nella sua radicalità, come la messa in scena di un “paesaggio-relitto-natura morta”. Era in fondo la poetica degli oggetti che lo attirava di quel collage intitolato 1918 (una ruota vera di carro, scheggiata e rotta, a evocare il silenzio desolato della guerra, in una luce acida). Era la poetica che ritrovava in Porta, nelle sue parole-oggetto, quasi espressione di Arte Povera, o di Pop Art, da utilizzare nel loro potenziale energetico, per rifondare il linguaggio.

Tra quelle primissime poesie, cui Giuliani faceva riferimento, si collocano Non sono poi tanto bestie e L’enigma naturale, di cui Vincenzo Accame studia le corrispondenze visive con i collages realizzati da Porta per la mostra tenuta nel ’64 nel Palazzo Comunale di Reggio Emilia.

Anche nelle tavole si colgono – e Giuliani l’aveva visto giusto – estraneità e appartenenza profonda. E mi spiego: nella loro essenzialità visiva, quei collages di parole seguono la scrittura poetica, ma potrebbero allo stesso modo precederla. C’è compresenza, contaminazione, tra la forma verbale e quella visiva, tra lo choc verbale e lo choc visivo. Sappiamo bene che, pubblicando sul primo numero del ’64 di “Malebolge” L’enigma naturale, Porta scriveva proprio che si trattava di poesie “nate come collages”, nuovi epigrammi – scriveva – che intervenivano sulla realtà con “più violenta carica di ironia e grottesca deformazione”. E si riferiva alla deformazione dell’informazione.

Non si tratta solo di esperienze datate, legate, come sono, a una precisa stagione storica, come qualcuno potrebbe semplificando ritenere (sono quelli gli anni in cui Balestrini – lo cito per ricordare il contesto – compone Il sasso appeso, nel ’63, seguito da quelle vere e proprie tavole collagistiche che compongono il Carnevale 1965, pubblicato di recente in un volumetto, Lo sventramento della storia, a cura di Cecilia Bello Minciacchi per le edizioni Polimata di Roma. Io credo che dai collages di Porta non si possa prescindere, in un’analisi della capacità “presentativa” della sua poesia, per almeno tre buone ragioni.

La prima: a differenza dei collages di Balestrini, che agisce scegliendo, selezionando e montando un materiale verbale costituito – come scrive Cecilia – da “stilemi del parlato, lacerti di frasi fatte, linguaggio quotidiano, manuali e testi letterari, guide e opuscoli, stampa periodica e media in senso lato”, i collages di Porta fanno deflagrare parole-oggetto che posseggono una violenza icastica, una forza gestuale. Qui non si tratta tanto di denunciare “le falsità palesi di cui il linguaggio è portatore”, quanto di assegnare ai lacerti di frasi, titoli di giornale, la forza di un impatto visivo che dà alla parola smembrata o potenziata dai caratteri tipografici un’efficacia deflagratoria potente (è un po’, insomma, l’usare la parola come bomba per portare luce, come scriveva Porta nel Grado zero della poesia, ed è insieme un tentativo di rifondare un linguaggio nuovo).

La seconda ragione riguarda la frantumazione del narrato. Porta la applica in forma radicale già in questi testi smembrati, quasi “fotogrammi di una pellicola cinematografica”, come aveva intuito Sanguineti analizzando la scrittura di Porta nel saggio dedicato al Trattamento del materiale verbale nei testi della nuova avanguardia. Qui la frantumazione produce parole-figure bloccate nel loro procedere e sottratte a qualsiasi nesso (come avverrà poi nel montaggio su cui saranno costruiti testi come Aprire e un po’ tutta la poesia dei Rapporti).

Infine la terza ragione, la più decisiva. Essa riguarda lo choc percettivo che si ricava da questi collages, provocato dal carattere conflittuale dei lacerti di frase prescelti, che si danno in pieno attrito tra loro, a differenza di quanto avviene in Balestrini dove prevale semmai – scrive ancora Cecilia – “l’erosione sotterranea e incessante del senso comune”. Diversa dunque l’intenzione, diversi i risultati. I collages di Porta sono già, a modo loro, poesie realizzate. Lo sono nella capacità di penetrare il reale, fare del linguaggio – spazializzato, enfatizzato o miniaturizzato – il tramite con la cosa, il modo per dare forma e corpo all’annichilimento, ridistribuendo il materiale verbale per blocchi fisicamente, visivamente contrapposti. Il momento verbale e il momento visivo risultano così, dicevo, assolutamente contigui, si coniugano e fondono con efficace impatto su chi legge e guarda.

È indubbiamente capacità “presentativa” della parola. Ed è straordinario che quella capacità non si smarrisca, non si smarrisca in Porta la forza di quell’ossessione per un linguaggio visivo, di immagini, gesti, neppure – lo accennavo in apertura – in Invasioni, quando la parola si lascerà attraversare dalla seduzione della trasparenza, e certo neppure – tanto più – nel Giardiniere contro il becchino, con quel linguaggio che pulsa e preme sul foglio, con il suo respiro, con la sua scansione ritmica. Lo ha scritto bene Gramigna, quando parlava, per Invasioni, di limpide epifanie in un tessuto – diceva – “a chiasmo concettuale”, che conserva sotto la semplificazione e il nitore, tracce del magma, e cioè del corpo a corpo con la parola, per renderla, appunto, “presentativa”, carica di una valenza plastica, pulsante, rapinosa. Solo chi tiene in mente i Rapporti potrà insomma gustare, di Invasioni, il battito del respiro sillabico, la forza dello stupore riconquistato dalla e alla parola.

3 comments

  1. Laura Cantelmo ha detto:

    Niva Lorenzini aiuta ad approfondire la qualità evocativa e l’espressività (espressivismo?) del linguaggio e delle immagini in Porta. Grazie di questo intervento che consente di ripercorrere con calma il percorso di un poeta che è stato lentamente trascurato.

    Laura

  2. Laura Cantelmo ha detto:

    Volevo dire “espressionismo”, forse sbagliando nel giudizio…
    Laura

  3. […] di Niva Lorenzini, curatrice della sua opera, che può essere consultato all’indirizzo: https://www.milanocosa.it/eventi-milanocosa/convegno-antonio-porta-atti-5. Un altro omaggio dovuto, in ogni caso, a un autore che peraltro ho avuto anche modo di conoscere […]

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