Lampi di memoria
Gilberto Finzi
Ho voluto che il titolo di questa breve comunicazione fosse “Lampi di Memoria”: come quei fulminei ritratti che compaiono fuori dal sogno, o come quelle rapide scene evocate da un movimento, da una figura, da un’inezia di cui la memoria subito s’impadronisce riportando alla superficie quello che era rimasto lungamente nel profondo.
Sono stato solo un “compagno di strada” – come si usava dire, intendendo altra cosa – di Antonio Porta: pur collaborando ai medesimi inserti culturali (del “Giorno”, negli anni 70, del “Corriere della Sera” in seguito), ci siamo conosciuti e (credo) stimati anzitutto attraverso la partecipazione al gruppo di lavoro della Società di Poesia.
Qui il flash della memoria si allarga, a comprendere altre persone, altri amici. La Società di Poesia – qualcuno la ricorderà – aveva lo scopo di pubblicare testi di poesia che avessero superato gli scogli delle letture critiche; ma essendo una società doveva avere, oltre a una commissione di lettura, anche un consiglio di amministrazione. Dunque mi sono trovato, in tempi differenti ovviamente, a far parte dell’una e dell’altro: alla mia mente si affacciano quindi varie figure, tra le quali, accanto ad Antonio spiccano Giovanni Raboni e Nino Majellaro. Nel film del ricordo naturalmente prevalgono i momenti più duri, colossali litigi per motivi inerenti la vita della società: niente di personale, però, soltanto occasioni di valutazioni poetiche oppure motivazioni societarie.
Ad avvicinarmi maggiormente ad Antonio Porta fu la sua presentazione di una quindicina di mie poesie nel n. 9 (1980) dell’Almanacco dello Specchio: per queste “Poesie scritte sulle pagine bianche di libri”, mi chiese di evitare precisazioni e spiegazioni relative, preferendo esser libero di giocare sulle circostanze esistenziali e soprattutto di valutare un linguaggio (il mio) allora esasperatamente criptico. Da questo episodio, nel quale risalta soprattutto la sua notevole capacità critica, derivarono altri momenti di collaborazione: per esempio, le note critiche e le poesie che, presentate da lui ma col beneplacito della redazione, pubblicai sulla rivista mensile “Alfabeta”. Per qualche altro episodio, elemento, o casuale vicenda sono stato più di una volta a casa sua, ma ora mi sfuggono i motivi, persone o libri, che ne erano stati l’occasione.
In un tempo successivo – quando entrambi, Antonio Porta e io, collaboravamo all’inserto settimanale “Cultura” del “Corriere” – avemmo a che fare con un’altra figura, forse eccentrica rispetto alla linea costantemente tenuta da Antonio, da me, da altri, nel fare critica e nel fare poesia, ma pur presente e indimenticabile nella sua dirittura di maestro un poco più anziano, una specie di nume tutelare che di lontano ascolta e lascia correre gli amici-colleghi: si trattava di Giuliano Gramigna, la cui presenza nella critica come nella narrativa e nella poesia è stata discreta eppure estremamente sensibile come la finezza delle sue note critiche e dei suoi versi: a lui, scomparso solo qualche anno fa, devo/dobbiamo un omaggio che non ha nessun bisogno del flash o del filmino della memoria.
Infine, non è un caso se questi appunti s’intitolano “Lampi di memoria”, perché proprio questo sintagma di recente è stato scelto come titolo di una collana di narrativa: una collana, come si usa dire in gergo editoriale, di repêchage, di ripescaggio di libri di valore – romanzi – che sembrano non avere avuto, al loro tempo, l’ascolto che meritavano; o anche di scrittori che forse non ebbero quello che meritavano. Ma non voglio fare qui l’apologia di questa iniziativa che è partita all’inizio dello scorso anno e che sta arrivando al quinto libro: voglio ricordare che la collana si è aperta proprio con un libro di Antonio Porta, col romanzo Il re del magazzino uscito, in prima edizione, da Mondadori nel 1978. Iniziare una serie con un testo narrativo di un importante poeta del nostro tempo ha avuto un preciso significato: porre le basi di un discorso che, cominciato anni prima, può trovare riscontro anche negli anni nostri, favorire un nesso ideale fra problemi di allora e problemi di oggi.
Infatti, se il racconto di Porta (inframmezzato da testi poetici che sono spiegati nella loro logica di “lettere”) può caratterizzarsi come catastrofico, svolgendosi in un mondo disastrato, i romanzi pubblicati successivamente, di Denti di Pirajno, di Bonura, di Cassieri, mettono in pagina vicende di grande attualità, dalla donna che sa prendere le redini del clan mafioso dopo l’uccisione del marito, alla crisi del senatore comunista, e così via. L’importante è ascoltare il messaggio che viene da un passato abbastanza recente e saperlo decifrare: tante situazioni non sono ancora state risolte, tanti problemi non sono così nuovi come sembrano.
In questo senso l’insegnamento di Porta narratore va ben oltre il caso limite, apparentemente fantascientifico o comunque legato all’idea di un mondo finito o distrutto, che viene proposto approfittando delle informazioni disponibili all’epoca: dobbiamo piuttosto completare, per suo merito, un quadro attuale che va sempre più precisandosi come manifestamente foriero di disastri ambientali e di un futuro cupo per tutta l’umanità. Dobbiamo comprendere e integrare il suo manifesto catastrofico con un seguito realmente distruttivo, quale ci viene oggi quotidianamente prospettato. Il romanzo di Antonio Porta diventa, per così dire, il manifesto della collana, confermato dagli autori che lo seguono e da vicende fra loro dissimili e sempre molto attuali per realismo, ma è, nello stesso tempo, un preciso riferimento a un’opera letteraria (quella dello stesso Porta) che non si esaurisce nel verso poetico ma che impiega e impegna le sue risorse intellettive e linguistiche in una terrestre resistenza umana e culturale.
Gilberto Finzi
Milano, novembre 2009