Convegno Antonio Porta-Atti

Pubblicato il 20 dicembre 2009 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

Cardini e poli di senso del progetto infinito di Antonio Porta

Intervento al convegno:

Il giardiniere contro il becchino – memoria e (ri)scoperta di Antonio Porta

9 dicembre 2009 – Biblioteca Comunale Sormani di Milano

Adam Vaccaro

Preambolo

La poesia è indefinibile, come ogni cosa che tende alla totalità della vita, ma chi se ne occupa non può fare a meno di decidere il suo atteggiamento e metodo. Antonio Porta ha costituito, per me, una fonte notevole di riflessioni sul senso della scrittura poetica, in particolare sul pensiero critico che essa non può, a mio parere, non contenere. A tale proposito, non mi soddisfano entrambe le espressioni proposte di poesia pensante o pensiero poetante. Perché la prima è una tautologia (può esistere una poesia che non pensa?) e la seconda fa diventare il fare poesia quasi un’appendice del pensiero.

Ma al di là di ogni definizione, mi pare utile vedere come A. P. si rapporta ai due versanti di senso o di modi di sentire il fare poesia che possiamo cogliere lungo gli sviluppi della letteratura italiana, sin dalle sue radici originarie – petrarchesca e dantesca.

Un primo modo pone l’accento sul creatore solitario e sul valore del colloquio interno intrasoggettivo. Che è fondamentale, ma senza contrappesi può favorire lirismi appagati in monadi autoreferenziali, illusioni salvifiche e concezioni di una bellezza sottovetro, tendente a termini assoluti, spirituali e astratti. Approcci favoriti dalle linee (ontologiche) prevalse nella cultura occidentale, in cui – da Platone all’idealismo, come nel pensiero giudaico-cristiano – il processo conoscitivo è inserito in tutta una serie di doppi: tra un esterno (sconosciuto) e un interno (fonte di verità), tra corpo e anima, carne e spirito ecc.. Ne sono derivate le due culture e crescenti separatezze tra i vari ambiti, ognuno dei quali convinto di scrivere la Verità assoluta.

L’altro modo di vivere l’operatività creativa del singolo, non separa il valore del suo fare dal contesto storicosociale, quale nodo sincronico del soggetto nella sua pluralità di piani e rami di albero alato, radicato nel ventre della storia e nel cammino antropologico di seguir virtude e conoscenza. Un cammino cui la poesia dona aria e ali alle gambe di altri esseri umani, che possono regalare gioie di condivisione o ferire e dare calci, ma sono la sola misura per chi vuole accadere nel mondo. E che, nella successione diacronica di contraddizioni e scambi biologici tra unità e totalità, accumula esperienze e senso di sé, perdite e capacità di immaginare un oltre, senza il quale non si darebbe né arte né cultura né storia umana.

È una concezione materialistica che, nel bicentenario della nascita di Darwin e dopo gli ultimi secoli di scoperte – dalla meccanica quantistica, alla ricerca biologica, alle neuroscienze –, ha delle ragioni per dire che energia, pensiero, mente, spirito, anima, sono anch’essi materia e nomi di una unità vitale inscindibile in continua metamorfosi. Una concezione rimasta minoritaria, dalle intuizioni più antiche – da Protagora ai clinamen di Epicuro – alle ricerche moderne; una visione che impone alla cultura laica sfide continue, sul piano etico e delle idee, tese ad aprire e favorire rinascite incessanti.

Tutto il percorso – poetico, culturale e intellettuale – di Antonio Porta ci dice che “l’essere, se lo volete, per me è un fare”. È posto perciò entro una visione fenomenologica inconciliabile con ogni fissità ontologica, che lo fa misurare costantemente con tali sfide: “La verità non esiste”, affermava, distinguendo “con la fenomenologia di Luciano Anceschi, tra vero e verità, intendendo il primo quale punto di interazione tra il soggetto e l’esperienza, un punto fermo che però non è definitivo come la verità1

Ogni volta che mi sono accostato ad Antonio Porta vi ho trovato corrispondenze tali da dover contenere una certa commozione. Acuita da Cesare Viviani, quando azzardò a definirmi suo “miglior prosecutore”. Ma commozione e generoso credito non mi hanno mai fatto perdere le mie misure di piccola formica rossa che arranca, rispetto a un poeta che ci ha lasciato con vent’anni di anticipo avvisi e messaggi del degrado attuale, attraverso testi che, in un ampio caleidoscopio di forme, hanno il tratto comune di trasmettere una energia e impatto di presenza di chi scrive, assolutamente non comune. Per questo ho voluto fortemente questo convegno. E sono perciò grato a tutti coloro che hanno collaborato e ne hanno consentito la realizzazione.

1L. Sasso, Porta, La Nuova Italia, Firenze 1980, p.3; è comunque fondante per la poesia e il pensiero di Porta la visione fenomenologica, in generale, e di Merleau-Ponty in particolare, come sottolinea J. Picchione in Introduzione a A. Porta (Editori Laterza, Bari 1995, p.17): “In Merleau-Ponty come in Porta, le verità non sono da scoprire nell’interiorità del soggetto…ma nella concretezza del mondo a partire dalla percezione”;

Biologia, psicogenetica e storicità dei linguaggi

Il linguaggio è storia, strumento di comprensione e conoscenza che, quanto più cammina in essa, paradossalmente la supera, accumulando memoria in strati di significati che abitano la carne, la psiche e la mente della totalità corpomentale. E quando ciò succede, il linguaggio si fa metastoria e mito; un arco teso molto evidente in Antonio Porta, che tuttavia evita cristallizzazioni acritiche grazie alla impostazione di fondo suddetta.

Il linguaggio è “il fondamento costitutivo della globalità della vita psichica dell’uomo” di “un animale in preda al linguaggio” (Lacan). È il ponte fragile che tende a congiungere sia il soggetto all’ambiente, sia Io e inconscio, quali parti dell’intera soggettività del singolo. Ma se parliamo di totalità corpomentale il linguaggio è in realtà la pluralità di linguaggi con cui il corpo vivente si esprime.

Andate, mie parole,

calcate le tracce

dei linguaggi infiniti

maggio 1983 – Tutte le poesie (1956-1989), a cura di Niva Lorenzini, Garzanti, Gli Elefanti, p.448,

Quel ponte è fragile ma necessario perché, nelle dinamiche fenomenologiche, ci dona interruzioni di sia pur brevi momenti della condizione normale, tragica, che fa dire a Paul Klee: “La capacità spirituale dell’uomo di spaziare a piacimento nel terreno e nel sovrumano è in antitesi con la sua impotenza fisica, all’origine della tragedia umana…L’uomo è per metà alato, per metà prigioniero”. E che fa dire a Umberto Galimberti: “la parola è schizofrenia, la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, dove l’uno si rifrange nell’altro, per cui è indecidibile quale sia il mondo vero”. Sta allora solo nella pato-logia, “in quel patire (páthos) che si fa parola (loghia)”, di chi non ha timore di abitare “la profondità dell’abisso (Ab-grund)”, l’unico sbocco concesso? All’arte e alla filosofia non resta che la “proclamazione alta e forte di questa lacerazione” (La casa di psiche, Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli 2005, p.270)?

Seppure, come dice “Jaspers: La nostra forza è la scissione, abbiamo perduto l’ingenuità” (K. Jaspers, Genio e follia, Stridberg e Van Gogh, R. Cortina, Milano 2001, p.174), credo pure che ciò non contraddica il paradosso costitutivo dell’arte in tutte le sue forme. Il piacere della sua prassi poetica, di uscita precaria dalla distanza scissa in cui siamo, incarna quella dell’amore, della sua forza e verità di momenti di unione della molteplicità intra e inter soggettiva, dove verità qui ha un senso fenomenologico, “significa che in esso riusciamo a vivere”. Verità, dunque,“come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita” (U. Galimberti, cit, p.99)

È una prassi che si misura col caos, storicamente e non ontologicamente collocato, col senso del tragico e col rifiuto di ogni parola consolatrice: “Il senso del tragico è alla base di ogni mia operazione poetica. Gli oggetti, gli eventi, gli uomini sembrano sfuggire a ogni condizione di…dare senso alla vita. Sembra che questo tentativo continui a fallire”, come “Edipo, l’uomo sapiente che si acceca“ (Il grado zero della poesia, in “Il Marcatré”, 1964)

Ma ciò diventa, in Porta, motivo per sollecitare il soggetto (scrivente) a resistere con una parola in re, fenomenologicamente vera, impietosa e conscia della propria provvisorietà, come di ogni altra cosa. La sua azione è chiamata così a esserci come materia biologica di una polarità opposta e irriducibile alla mancanza di senso, come cosa che si costituisce nel fare di un progetto ignoto, non definibile ante rem, da un pensiero o da un correlativo oggettivo che, come in Eliot, tende a pre-formarlo. Un’azione che vuole tuttavia s-velare e misurarsi con la realtà (visibile e invisibile, ignota o mascherata) di rapporti umani violenti, per creare un grado zero da cui ripartire. È il punto fondante che genera il distacco da posizioni solo destruens (che non riguardano solo alcune posizioni della neoavanguardia), e che tende a un’azione construens contro la perdita di senso; ne consegue la rivalutazione della comunicazione, col rifiuto di concezioni aristocratiche e chiuse nel letterario, simbolismi astratti (Mallarmé), esercizi cerebrali, giochi di parole e iperdeterminazioni del significante che tendono ad azzerare il valore dei significati.

I linguaggi infiniti, l’eteronomia della poesia ed l’estetica fenomenologica

Vita, storia, realtà: sono nomi della complessità in cui siamo, che impone alle proprie parole, scelte, giudizi, pensiero critico e visione di idee, che è impensabile elaborare e farne strumenti di conoscenza senza la misura col nodo del potere. A. P. non vi è mai sfuggito, già nel 1958, dice: “Attento abitante del pianeta, guardati dalle parole dei Grandi, frana di menzogne, lassù balbettano, insegnano il vuoto”.

Ma è solo uno dei nodi della totalità della vita, rispetto alla quale siamo chiamati a prendere posizione, sia come persone o cittadini, sia come poeti, artisti, scrittori, con tutta la potenzialità dei nostri linguaggi infiniti. Antonio Porta mostra in tutto l’arco del suo percorso e nelle articolazioni del suo fare, una tensione dolorosa, gioiosa, disperata, visionaria e mai esausta nel tentativo di espanderli e farli esplodere. Il fine non è il gioco letterario ma non far inacidire il lievito di un oltre, non far morire il desiderio di un’ultrarealtà rispetto a questa “Aria della fine” in cui stiamo degradando. Lo dice e lo pratica in mille modi nei suoi testi poetici – vedi Airone – come nelle incessanti ricerche che riguardano il teatro, la prosa narrativa e favolistica, la pubblicistica, l’attività editoriale e iniziative culturali rimaste storiche come Milanopoesia.

“Ma è chiaro che questa identità linguistica (specifica in “Il progetto infinito”, Milano 1980, a cura di Silvia Batisti e Mariella Bettarini) è continuamente preparata dalla successione di eventi extralinguistici e insieme dalla capacità di sopravanzare questi eventi, per atroci che siano”, dando cioè “loro un senso…non esiste, né può esistere, un linguaggio autonomo della poesia come fatto puro, autonomo. La scrittura poetica si muove autonomamente ma all’interno di tutti gli altri linguaggi, compresi quelli scientifici …mi pare quasi superfluo affermare che il testo non basta a se stesso”.

Ne deriva che “il ‘mestiere del poeta’ va comunque ripensato, in termini di figura sociale…così come l’aveva pensata Pavese. Da questo mestiere (fare poesia) si parte per bucare la pagina, per sfondare i linguaggi automatizzati…uscire dalla letteratura per raggiungere quell’immagine dell’esistenza che in qualche modo intuiamo possibile…oppure: anche rimanere nell’ambito della letteratura purché si identifichi ‘letteratura’ come luogo delle interazioni tra storia e immaginazione…tra poesia e esistenza, in direzione dell’esistenza: i versi ci servono, noi non vogliamo servire i versi e tanto meno l’Estetica” (scritto del 16/8/88, Diari inediti, della cui disponibilità ringrazio Rosemary Liedl Porta).

L’estetica che ci serve è resistente e umana quanto più è fragile e fiorita tra le pieghe oscure della storia dei singoli e delle collettività, negli abissi dove si congiungono biologia e indicibile del nostro universo mentale. Questo, credo intendesse, quando nel 1982 scriveva: “Un poeta deve avere le antenne…sa che deve offrire i frutti del proprio linguaggio alla comunità e sa che questi frutti non devono essere avvelenati dalla retorica dell’Eternità”.

Porta richiamava ancora e con L. Anceschi la comune concezione di poesia, “come qualcosa che vive nel pieno sviluppo delle relazioni interne che la riguardano”, e “delle relazioni con le altre attività umane”. Dunque, una “letteratura in cui tutto rientra, dalla filosofia alla scienza, dalla morale alla politica, dal costume allo sport”. Gli intellettuali “non possono certo sentirsi chiamati al ruolo un po’ ridicolo di ‘angeli salvatori’”. Ma è anche indubbio che “la loro formazione sparsa somiglia sempre più a pattuglie disperse nel deserto e il momento dello smarrimento ha coinciso proprio con l’abbandono dell’impegno politico.”

“Il discorso dell’impolitico, un tempo caro agli intellettuali della fallimentare separatezza, mi pare che oggi funzioni solo da alibi: di fatto il discorso va rovesciato:…la posizione ‘impolitica’…fa riferimento a una ‘politica’ che non può più reggere neppure se stessa.” “Si deve dunque parlare di un ‘nuovo impegno’, di un pensiero che torna a essere forte e non si rassegna ad amministrare la posizione di rendita dell’osservatore distante e rassegnato dello status quo? La mia risposta è decisamente positiva.”

Lo scriveva all’inizio del 1989 su l’Unità e, per quanto oggi possa apparirci ancora più utopistica, è questa la sfida che Antonio Porta, insieme alla realtà attuale, ci ripropone.

Comunicazione poetica e poesia in re

È l’apice, molto dibattuto, delle sfide portiane. Nella “Nota introduttiva” alla mia La casa sospesa (2003) ho citato lo scritto del 16/8/88 dei Diari inediti sopra ricordati), in cui Porta parla della sua ‘sfida della comunicazione’: “‘comunicazione’ vuole dire prima di tutto ‘mettere in comune’…tuffarsi insieme nel mare del linguaggio…La comunicazione non è un piroscafo di linea”, è “entrare dentro il cuore della lingua e farmelo rovesciare sul tavolo”. Mi sembra superfluo sottolineare il legame con i linguaggi infiniti, carne della tensione del suo progetto infinito.

Tensione che passa per l’altro, interiore ed esteriore – soggetti, natura, cultura – e sollecita un eros che si dibatte e resiste tra tanatologie, immagini di crudeltà, sangue e orrori, o a stasi paralizzate, che a tratti sembrano prevalere sulla ricerca di una reazione vitale (in sé e nel lettore): “Anche il poeta, dunque deve accecarsi?”, si chiede Porta, e risponde: “No. Egli si muove insieme agli altri in una condizione paragonabile a quella di assenza di gravità, librato…mentre cerca di afferrare gli oggetti in libertà. Cerca di avvicinare i suoi simili e pone le domande fondamentali sulla vita e sulla morte.” (Il grado zero della poesia, 1964).

Ma, pur non vedendo soluzioni, cerca un’uscita e non il nulla. È un senso del tragico che rifiuta sia il pessimismo che l’ottimismo, “due facce di uno stesso atteggiamento”, dice, in cui “nasce l’idea del nulla, variante mistica dell’idea del sublime”. (Correlativo oggettivo, in “Malebolge”, 1964; e in Gruppo ’63. Critica e teoria, a cura di R. Barilli e A. Guglielmi, Feltrinelli, Milano 1976).

La conoscenza della realtà procede in un interminabile “sviluppo per contraddizione” (Correlativo oggettivo, p.69), in cui il linguaggio è attore che, a partire dalla percezione, traduce l’oceano prelinguistico dei sensi nel mare del proprio sistema di segni. Ne risulta “la necessità di una dialettica tra autonomia ed eteronomia” (J. Picchione, in Introduzione a A. Porta, Laterza, Bari 1995) dei due sistemi, crinale che aiuta a uscire dall’ideologia (o totalizzazione) del testo, col suo corredo di separatezze, assolutismi e arroganze; aiuta soprattutto a misurarsi con il senso del limite e quindi del sacro, che unito all’eros spinge il logocentrismo dell’io maschile a ricercare lampi di totalità adiacente nella relazione con l’altro, in primo luogo dell’universo femminile, nell’invenzione di ali fragili di canto e gioia capaci di donare “perfino l’estasi dell’esserci” (A lezione da Antonio Porta, in “Poesia”, n.7-8, 1988, p.9; anche in Il progetto infinito, a cura di G. Raboni, Ed.”Fondo Pier Paolo Pasolini”, Roma 1991).

Per quel che riguarda il femminile, oltre a Poemetto con la madre, Il giardiniere contro il becchino è fonte ricca che G. Gramigna risale a fondo (Contrasto/identificazione, in “Autografo”, n. 17/1989; ora in “Testuale”, n.43-44-45, pp.170-176,): “La poesia, malgrado certe opinioni, è una cosa molto concreta”, anche nelle sue tensioni al sacro, “zona che circonda…l’ombelico del non-dicibile”; in Porta, “sia pure in una dimensione tutta laica”, catene anagrammatiche di significanti (quali miRACOlo /sACRO /pARCO) generano sensi e significati verso “il femminile, il materno”, che “connette …l’atto della vita e l’atto scrittorio”; e ciò fa dire a Gramigna che Porta è andato “oltre il principio paterno, dominante in tutto il periodo precedente”, principio che “s’informa prevalentemente al doppio ordine dell’astrazione e della metafora”, là dove “oggi nel principio materno” prevalgono “indistinzione, movimento continuo, visceralità, metonimia”, attenzione ‘rivolta a tutte le parti’”: “La montagna tagliata a metà/ scioglie il suo liquido femminile/ delira nella cascata, trionfa./ Il giardiniere ammira di lontano,/ ricrea l’immagine nel parco/ la ripete e alimenta/ mille specchi, laghi in miniatura”,(. Gramigna, esempio di sguardo e relazioni gioiose (Spinoza) tra parte e totalità della vita.

In un testo, “Lettera a me stesso”, agisce un Io che rincorre i limiti e la povertà dell’Io, la sua solitudine e il deserto di senso senza l’altro. In primo luogo la donna e il suo sesso, rispetto al quale traspare una sorta di invidia della vagina, che però è solo superficie e strumento del senso. Tutto il discorso è detto dall’Io, ma la tensione è data dal disperato bisogno, nella mancanza e nostalgia (nel nostos), della gioia toccata solo in attimi di infinito, che non possono esserci senza comunicazione. La quale è perciò intesa come operazione di massima complessità (“non è un piroscafo di linea”) “che non può lasciare filtrare messaggi arresi al senso comune del comunicare piatto, livellato” (N. Lorenzini ne “il verri” n.41, ott 2009). Se comunicazione e totalità non tendono a co-agire, si finisce in una divaricazione che ci priva di entrambe.

Allora: senso come esoscheletro di significante-significato, fenomenologia della mancanza e dell’utopia dell’esserci, comunicazione complessa e poesia in re, sono anelli inseparabili di uno stesso circuito interminabile di una poesia che ci serve e ci aiuta a vivere. Scrittura nella stessa tensione originaria che ha portato migliaia di anni fa all’invenzione dell’alfabeto, mettendo in comune sensi, emozioni, pensieri, immagini, ritmi e suoni, per restituire una “esperienza della totalità della vita”.

Per Porta, comunicare è porsi nel tra, preposizione mobile e prima sillaba di tragico che, col suo sinonimo in fra-gile, può suggerire la fusione in tragile, di un io che accetta l’amorosa sfida della perdita (pur momentanea) di sé per porsi nello spazio vuoto del bianco della pagina celebra la liturgia della nascita di un possibile incontro con l’altro. Una liturgia di eros e della carne che tende ad andare oltre i propri limiti.

Ma compie il miracolo solo se lo spazio vuoto del (momentaneo) annullamento dell’io, da nonluogo diventa luogo abitato anche dall’altro. In tal caso il vuoto (non nulla) si rovescia come clessidra e diventa un (momentaneo) tutto, momento orgasmatico di comunione, che concretizza la poesia in re.

La poesia in re non sta negli oggetti nominati o evocati, ma nell’utopia, fenomenologicamente intesa, cioè mai concretizzata una volta per tutte, dell’incontro o dell’amore, di una verità esperienziale condivisa.

Paradosso del progetto infinito, in cui Porta ci sfida a esserci, esserci in reinvenzioni di qui e ora, che non possono essere predeterminati ante rem, pena deliri di onnipotenza e arroganza. Possiamo solo essere parte che chiama gli altri, per condividere momenti di paradiso che rompano il limbo del nulla. Per questo siamo qui, per dire ad Antonio/Leo che ci siamo, sperando di aver risposto alla sua attesa.

Dicembre 2009

Adam Vaccaro

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