ChiAmaMilano
Via Laghetto 2 – Milano
5 Aprile 2019 – ore 17,30
Attraverso Milano
Staffette letterarie e artistiche
***
Secondo incontro
Ernest Hemingway e Elio Vittorini
Relatori
Laura Cantelmo e Adam Vaccaro
***
Sintesi delle Relazioni
***
Ernest Hemingway
Laura Cantelmo
Nota biografica
Ernest Hemingway nasce a Oak Park, Chicago, Illinois nel 1899, figlio di un medico e di una maestra di canto, dal padre viene educato a uno stretto contatto con la natura e a praticare la pesca. Rifiuta di andare all’Università per tentare la carriera di giornalista. Nel 1918 con la Croce Rossa parte volontario per il fronte italiano. Ferito gravemente, viene trasportato e curato in ospedale a Milano. Quell’esperienza gli ispirerà la storia d’amore narrata in Addio alle armi (1928). Corrispondente del Toronto Star, nel 1921 è inviato a Parigi, dove frequenta molti artisti “espatriati” dagli USA che Gertrude Stein chiamerà Lost Generation. Nel 1926 pubblica con successo Fiesta. Nel 1936 si trova in Spagna dalla parte dei repubblicani durante la Guerra Civile. Da quell’esperienza nascono Per chi suona la campana e La quinta colonna. Appassionato di safari frequenta spesso l’Africa, che si ritrova in molti racconti. Dal 1939 soggiorna a lungo a Cuba, dove scrive il suo romanzo d’addio, Il vecchio e il mare. Nel 1954 gli viene assegnato il Premio Nobel. Muore il 2 luglio 1961 a Ketchum, Idaho.
Ernest Hemingway ed Elio Vittorini a Milano
“Ci piaceva star fuori in Galleria, i camerieri andavano e venivano, ogni tavolo aveva la sua lampada col piccolo paralume… la piazza era piena di tram; al di là dei binari sorgeva bianca e umida nella nebbia la Cattedrale, nella piazza la nebbia era densa; la Cattedrale pareva enorme sotto la facciata; ed era umida veramente la sua pietra.”
Le parole del giovane tenente americano protagonista di Addio alle armi, arruolatosi per contribuire con il suo paese a combattere la “crociata per la democrazia” nella Grande Guerra sul fronte italiano, paiono citazioni dalle lettere che Hemingway inviava alla famiglia nel 1918. Nell’intreccio del romanzo Milano divenne scenario di una sezione importante per lo sviluppo della trama. Ferito alle gambe dallo scoppio di una granata, Hemingway era stato trasferito per qualche mese in ospedale a Milano. La storia sentimentale con un’infermiera, la degenza e le passeggiate erano dunque commosse testimonianze della sua biografia personale trasfigurate e inevitabilmente integrate dalla scrittura.
Quando nel 1928 il romanzo esordì con successo in tutto il mondo, la realtà storica e la vita stessa di Hemingway avevano subito grandi cambiamenti. Lui era ormai uno scrittore apprezzato, a volte discusso, mentre in Italia il fascismo aveva eroso le libertà fondamentali.
Lo scrittore amava l’Italia, dove contava sull’amicizia e la stima di molti. Negli inevitabili contatti con le case editrici aveva stretto amicizia con uno degli editor più influenti, Elio Vittorini. Siciliano, vivamente interessato alla letteratura angloamericana la cui originalità poteva offrire interessanti stimoli alla nostra letteratura nazionale, pubblicò nel 1941, per Mondadori, Americana, antologia che comprendeva brani tratti dai classici dell’Ottocento, come Hawthorne e Poe, fino ai contemporanei tradotti dai maggiori scrittori e poeti del tempo. La censura che si abbatté su quella pubblicazione fu superata grazie alla scelta del prefatore, Emilio Cecchi, prestigioso letterato che risultava gradito al regime per la scarsa considerazione della letteratura di quella parte del mondo.
Si stabilì, tra Vittorini e Hemingway, un legame di affetto e di stima reciproca, e tuttavia a nulla servirono gli sforzi di Vittorini per pubblicare Addio alle armi. Il romanzo non riusciva gradito al regime a causa del realistico racconto delle condizioni dei militari che contrastava con la retorica ufficiale. Vittorini tentò invano di farlo uscire a puntate sulla rivista Il Politecnico sperando in qualche distrazione del regime. Eppure Hemingway aveva incontrato Mussolini nel 1922, sempre a Milano, come inviato del Toronto Star, per intervistarlo presso la sede de Il Popolo d’Italia (quotidiano che aveva sostituito il socialista Avanti) poco prima della marcia su Roma, traendone un’impressione non del tutto negativa, per poi ricredersi qualche anno dopo e divenire suo fiero oppositore, il che aveva contribuito a provocare il veto sulle sue opere.
Si dovette arrivare al 1948, dopo la tragica fine del fascismo e della guerra, perché il romanzo fosse dato alle stampe da noi. E fu proprio tra il 1948 e il 1949, in concomitanza con la sua pubblicazione che i rapporti tra i due si intensificano mostrando una relazione ravvivata dai progetti editoriali delle opere dello scrittore statunitense in Italia. In una lettera datata 1949 Vittorini confidenzialmente dichiara la sua scarsa conoscenza dell’inglese scritto e rivela alcuni passaggi fondamentali della sua vita a Milano. Avendo letto ben sette volte Addio alle armi, lo scrittore siciliano la definisce la migliore tra le opere Hemingway ed auspica di incontrarlo, avendo concordato di avere da lui la prefazione alla traduzione inglese de Le donne di Messina.
Frattanto le relazioni di Hemingway legate al nostro paese si arricchivano di nomi illustri. L’anglista Fernanda Pivano, la carissima “Nanda”, traduttrice prediletta dei suoi romanzi, rivestì anche il ruolo di consigliera e affettuosa confidente delle sue più intime angosce. Lascia perplessi il giudizio abbastanza diffuso da noi sulla scrittura di Vittorini, ritenuta un’imitazione dello stile di Hemingway, se appena si considera quanto egli fosse lontano dall’essenzialità del suo amico. Pensiamo alla cosiddetta strategia stilistica dell’understatement, alla teoria dell’omissione che rendeva eloquenti le sospensioni, le interpunzioni e le frasi asciutte, povere di dettagli eppure intense nell’utilizzo del non detto, la punta dell’iceberg che riempiva di senso i voluti silenzi, le frasi laconiche.
La Lost Generation
La produzione di Hemingway, dopo Addio alle armi, dove lo scrittore dichiarava il suo rifiuto della guerra, è segnata da una profonda crisi di senso che coinvolge la fede incondizionata nel proprio paese. L’entusiasmo dei giovani intellettuali che avevano risposto all’invito del Presidente Wilson partendo per l’Europa nella convinzione di condurre una crociata per salvare la democrazia si era dissolto di fronte alle atrocità belliche.
Nei successivi romanzi spesso il protagonista soffre le conseguenze di una ferita nel corpo, segno di una ferita dell’anima. Il rifiuto della guerra del tenente di Addio alle armi con la fuga in Svizzera non fa di lui un transfuga, ma nasce da motivazioni molto serie, come si legge nella prefazione dell’autore stesso: ”le guerre sono combattute dalla più bella gente che c’è…ma sono provocate e iniziate da precise rivalità economiche e da maiali che sorgono a profittarne.”
Gli artisti che negli anni Venti approdarono dagli Stati Uniti in Europa, raccogliendosi a Parigi in una comunità feconda di novità, godereccia e rissosa, come narra lo stesso Hemingway in Festa mobile (uscito postumo nel 1964) erano accomunati dalla ferita della guerra. Essi avevano affrontato il conflitto con distacco nella quasi assoluta certezza che, non partecipando ad azioni belliche nessuno di loro vi avrebbe trovato la morte. I nomi erano Francis Scott Fitzgerald, John Dos Passos, E.E.Cummings e altri, da principio tutti convinti che il loro paese non potesse mai commettere errori. Quell’immagine idealizzata degli Stati Uniti risultò gravemente compromessa dalla violenza del conflitto. Fu Gertrude Stein a definire quella generazione intimamente spezzata A Lost Generation per il senso di perdita, di sradicamento, di disincanto e insieme di disperata voglia di vivere che li caratterizzava e che si doveva concludere con il crollo della Borsa di Wall street nel 1929. Il loro comune atteggiamento sorgeva anche dalla consapevolezza che l’immagine del loro grande paese, nella cui innocenza avevano creduto nei loro primi anni, fosse in realtà gravata da una visione puritana, moralistica e provinciale che non potevano far altro che rifiutare.
Ciò fece di loro una generazione straordinaria nella ricerca e nella produzione letteraria grazie agli scambi umani ed artistici che si intrecciavano sotto l’occhio attento e influente di Ezra Pound e di Gertrude Stein. Gli anni Venti diedero vita a un movimento di grande portata, nel quale l’arte era divenuto l’unico fine da perseguire. Un’arte tesa a colmare il vuoto provocato dallo sconvolgimento della guerra e che non poteva che essere rivoluzionaria. Parole e immagini dovevano risultare del tutto nuove e i ritmi adeguati a quelli della nuova realtà emersa dal conflitto, con un forte impatto di veridicità grazie all’uso prevalente della lingua parlata. Il salon di Gertrude Stein divenne un laboratorio di scrittura dove molti giovani appresero o approfondirono l’arte dello scrivere dando il via a una fase di rinnovamento.
La guerra, la morte, l’amore.
Quanto a Hemingway, la guerra restò sempre in fondo al suo Io come un incubo da cui non riuscirà mai a risollevarsi. Stentò perfino a farsi riconoscere come reduce che ha subito una ferita, benché gli USA lo avessero decorato con la Croce di guerra e l’Italia con la Medaglia d’argento per la il coraggioso aiuto offerto ai feriti al fronte. Né si libererà mai dall’accusa di essere stato un semplice spettatore del conflitto e di vivere isolato dal mondo, indifferente alla sorte dei diseredati.
Il tema della morte divenne un topos per gli scrittori della Generazione perduta, il cui profondo scetticismo per la caduta di valori e di ideali riduceva l’esistenza a una forma di nevrosi infinita nella quale ogni giorno era vissuto come l’ultimo. Fitzgerald definì quell’atmosfera disperatamente convulsa Età del Jazz, sull’onda del ritmo musicale che si affacciava sulla scena mondiale uscendo dai poveri locali di ritrovo dei neri.
La consapevolezza della morte fu allora l’unica concreta realtà da fronteggiare. Così si spiega gran parte dell’opera di Hemingway, nella quale spesso l’uomo, posto di fronte al rischio estremo, cerca di affrontarlo con dignità. Le critiche che si muovono al suo lavoro, le accuse di maschilismo e di crudeltà nascono dal suo porre i personaggi di fronte a sfide continue, sia nei safari che nella corrida, nelle quali affrontare la paura di fronte all’animale ferito significa affermare la superiorità dell’essere umano razionale di fronte alla disperata violenza animalesca. Da questo esorcismo contro la morte, unito alla grave fragilità di carattere dello scrittore, nasce una metafora che viene coniugata sotto varie forme nei romanzi e nei racconti. Il simbolismo del conflitto tra vita e morte impone un ritmo che alterna stasi e movimento in una narrazione che si dipana attraverso eventi di una semplicità apparentemente banale e paesaggi di una fissità pressoché assoluta. Va riconosciuto che lo stile prevalentemente paratattico, povero di subordinate, la lingua colloquiale, la strategia dell’understatement e l’uso della ripetizione che impone un ritmo originale, devono molto all’insegnamento della Stein come anche al Manifesto del Movimento Imagista del 1913 fondato da Ezra Pound, che insisteva sulla precisione del linguaggio ottenuta evitando le parole superflue e l’eccesso di aggettivi.
Dopo il primo romanzo, dove l’amore è vissuto in modo totale, quasi adolescenziale e la donna è un personaggio angelico, anche la figura femminile subisce una trasformazione. I difficili rapporti dello scrittore con l’altro sesso si traducono in figure femminili indifferenti e crudeli, pronte a chiedere all’uomo continue prove (vedi ad esempio il primo dei 49 racconti, “Breve la vita felice di Francis Macomber”).
La sua vita tormentata sempre più condizionata da una profonda fragilità interiore, lo aveva reso dipendente dall’alcool fino alle estreme conseguenze, tanto che nel 1954, avendo vinto il Nobel non riuscì a recarsi a Stoccolma a ritirare il Premio a causa della grave depressione in cui era sprofondato e che doveva condurlo al suicidio nel 1961.
Laura Cantelmo
***
Il percorso di Elio Vittorini
Adam Vaccaro
Biografia sintetica
Nacque a Siracusa nel 1908. Figlio di un ferroviere, ragazzo inquieto e amante dell’avventura, scappò di casa più volte, finché nel 1926 lasciò definitivamente la Sicilia, all’inizio in Friuli, poi a Firenze, e infine nel 1939 si trasferì a Milano. Fece anche lavori umili, studiando nel frattempo da autodidatta lingue e letterature italiane e straniere, in particolare anglo-americane, di cui avviò la traduzione e la pubblicazione di tutti gli autori più importanti, collaborando con riviste primarie e poi attraverso il suo crescente ruolo editoriale, da Bompiani a Einaudi. Da ciò deriva uno dei suoi grandi meriti, di stimolo notevole al rinnovamento della nostra letteratura. Nel frattempo scrisse e pubblicò alcuni romanzi e racconti, da Piccola borghesia, a Il garofano rosso a Conversazione in Sicilia.
Dopo aver collaborato da fascista di sinistra con organi fascisti, ne fu espulso nel 1936 per le sue prese di posizione a favore dei repubblicani e contro le milizie franchiste della guerra di Spagna. Nel 1939 cominciò la sua militanza clandestina antifascista a fianco dei comunisti. Arrestato dopo il 25 luglio 1943, durante una rappresaglia antifascista, rimase in carcere fino all’armistizio (8 settembre dello stesso anno), partecipando poi attivamente alla Resistenza e collaborando alla stampa clandestina. Dopo la guerra, nel 1945, fondò la rivista Il Politecnico e nello stesso anno si iscrisse al Partito Comunista, ma se ne allontanò nel 1947. Nel 1957 fondò la rivista Il Menabò che diresse insieme a Italo Calvino, con l’intento di far conoscere autori nuovi non soltanto italiani, ma anche di altri paesi. Morì a Milano, dopo una lunga malattia, nel 1966.
Le idee e la poetica
L’opera narrativa di Vittorini si svolge tra diversi spunti e risoluzioni formali. Lo scrittore non assume mai uno stile definitivo, desiderando sperimentare forme e campi nuovi di indagine. Nei suoi romanzi più noti, vedi Il garofano rosso, la narrazione si svolge su tre piani: il diario, il dialogo e la lettera, tre modi del protagonista per rivelare sé stesso con immediatezza, e per l’autore tre mezzi per interpretare ed esaltare il mondo dei giovani, senza alterarne il fascino. Con i continui mutamenti di stile Vittorini intese adeguarsi non solo ai soggetti trattati, ma alla società in movimento e in evoluzione di cui seppe cogliere e intuire i mutamenti. Uno dei suoi nodi formali fu quello di rendere la letteratura uno strumento di conoscenza di una società caratterizzata dallo sviluppo tecnologico: non basta, pensava, che lo scrittore descriva questo sviluppo, ma deve indagare la catena di effetti che provoca, o meglio deve indagare la condizione umana alienata che esso determina.
Scrive ad esempio Vittorini nella prefazione a Il garofano rosso (Mondadori 1948): «Era tuttavia sugli americani che puntavamo le nostre speranze d’una ripresa del genere in senso di sviluppo poetico del suo linguaggio. Faulkner da una parte e da un’altra Hemingway…sembrava che gli americani avessero un’inclinazione di massa a riscuotere il romanzo dall’intellettualismo e ricondurlo a sottovento della poesia. Lo indicava il gusto della ripetizione, la loro baldanza giovanile nel dialogo, il loro procedere ad orecchio della vita e non a riflessione sulla vita».
Ecco che, in questo senso, Vittorini si può considerare promotore e anticipatore di molte correnti successive, oltre che di giovani autori, incoraggiati con lungimiranza di critico. Cosa che favorì anche attraverso le riviste cui diede vita.
Vittorini e Milano
Anche per Elio Vittorini, è impossibile parlare del suo rapporto con Milano, senza collocarlo nel percorso complessivo della sua vicenda culturale, molteplice e straordinaria, nell’arco dei decenni che hanno attraversato fascismo e secondo dopoguerra.
Vittorini ha rivelato, sin dall’adolescenza, con precocità non comune (anche per la sua epoca) una energia e un profilo di autonomia e insofferenza per le chiusure famigliari e siciliane. Rifiutò gli studi programmati da suo padre (che nel romanzo Conversazione in Sicilia chiamava con sarcasmo la morale), e dopo essere scappato di casa più volte sin dai 16 anni, a 18 anni andò a lavorare in Friuli come edile. Ma già l’anno dopo si trasferì a Firenze, studiando lingue e letterature, e cominciando a tradurre scrittori famosi inglesi e americani. Per mantenere sé e la famiglia (a 19 anni si era sposato con Rosa, sorella di Quasimodo) fa il correttore di bozze, e collabora con riviste e giornali (tra i quali, la “Stampa” diretta da Curzio Malaparte e “Solaria” di Firenze). Nel ‘31 inizia a collaborare anche col “Bargello”, settimanale della federazione fascista di Firenze.
Ma comincia anche a scrivere e nel ’31 pubblica la raccolta di racconti “Piccola borghesia”. L’anno dopo vince ex aequo con V. Lilli il premio “Diario del viaggio in Sardegna” (in giuria G. Deledda) col testo Sardegna come un’infanzia, pubblicato prima puntate su “Solaria”, poi nel ’36 per Parenti, Firenze, e per Mondadori nel ’52.
Nel ’33 escono prime puntate si “Solaria” de Il garofano rosso, e nello stesso anno, da un viaggio a Milano, rimase come folgorato dalla città. Sicché, nel ’38 vi si trasferisce, lavorando presso Bompiani. Intanto scrive dal ‘37 al ‘38 Conversazione in Sicilia, con una scrittura criptica di intenzionale denuncia dell’impossibilità di libera espressione imposta da Fascismo, pubblicata anch’essa prima a puntate su “Letteratura”, e poi nel ’41 da Parenti col titolo Nome e lagrime.
La tessitura di Conversazione fu influenzata da un amore crescente per la letteratura anglo-americana, in primo luogo per Hemingway, trasferendo nel clima censorio e oppressivo fascista l’asciuttezza espressiva della moderna letteratura americana. Il fatto è che questa era motivata da ben altre ragioni – opposte, tese ad ampliare la capacità di fruibilità e comunicazione della letteratura di qualità. Quella di Vittorini, rimane perciò una forzatura intellettualistica che segna il limite dell’opera, pur rimanendo un interessante testo di sperimentazione storica.
Una sperimentazione che se superò in tal modo le barriere della censura fascista, rimase da un lato poco fruibile, se non illeggibile, per il pubblico, dall’altro mostrò nel dopoguerra tutta la deferenza servile della cultura nazionale, che riversò saggi e analisi su quest’opera da parte di tutti i più autorevoli critici e letterati. Quale attenzione sarebbe stata riservata allo stesso testo se l’autore non avesse assunto ruoli di potere editoriale, quale quello che rivestì Vittorini nei decenni 40-60?
Ma, tornando all’enorme attività di traduzione di Vittorini, nel ‘42 esce con Bompiani una prima edizione, depurata dalla censura fascista e poi ristampata nel ’68, di Americana. Una attività sicuramente accentuata dall’atmosfera culturale milanese.
Nello stesso periodo entra nel Partito Comunista, partecipa all’attività clandestina di collegamento tra bande partigiane e subisce anche un arresto. Nel 1946 è anche candidato del PCI alla Costituente, ma poco dopo entra in conflitto con l’ortodossia ideologica di Togliatti e altri dirigenti, per cui ne esce.
Nel ’45 era riuscito a fondare “Il Politecnico – settimanale dei lavoratori” edito da Einaudi, che resistette solo due anni, per i contrasti irriducibili tra quelli che lui chiamava i due fronti: la visione di una cultura intesa con funzione politico-sociale e quella intesa dalla camicia di forza del dogmatismo stalinista, egemone nel PCI e nelle strutture ad esso collegate. “Il Politecnico” ne fu stritolato, a dimostrazione della pochezza culturale di una dirigenza politica che avrebbe dovuto invece aprire orizzonti di liberazione, come declamava la sua propaganda.
Consonanze e punti di arrivo
Questa sintetica scorsa nell’avventura, umana, culturale e politica di Vittorini, era necessaria per restituire una immagine della sua ricca e molteplice azione che ha attraversato la prima metà del ‘900 contro chiusure di ogni tipo. Vittorini è un esempio di cultura e scrittura concepita al di fuori di stanze alimentate solo da fascinosi sentori libreschi, ma capace di misurarsi con vento gelido e impietoso della Storia.
La sua statura sta in tale capacità di avere incarnato un esempio oggi inesistente, tra furbizie remissive a ogni piccolo-grande potere, e raffinatezze di culi di pietra appagati dai propri parnassiani esercizi verbali, attente a non farsi coinvolgere dal verminaio che esplode violento fuori.
Quella di Vittorini è una statura con caratteri diversi e simili – al di là della qualità dei risultati espressivi – a quelli rilevati in Hemingway. Per cui, non a caso, ha creato scambi importanti tra loro, in particolare Attraverso Milano, che con questo incontro abbiamo focalizzato.
.
È indubbio che Vittorini fu letteralmente folgorato da Hemingway, che divenne per lui un maestro di scrittura e un mito. Lo mostrano con evidenza le lettere che gli scrisse, in una prosa piuttosto verbosa, datata e dal tono deferente. Le distanze, umane e culturali erano molte, ma hanno avuto tratti comuni non solo di insofferenza e di ricerca di libertà, nei confronti dei vari poteri che incontrarono sulla loro strada (dal fascismo all’ortodossia togliattiana del PCI, al maccartismo americano). Insofferenza e libertà che non furono solo di dichiarazione seduta, ma divennero atti e scelte di vita concrete e coraggiose. Qualità umane oggi molto rare tra letterati e altri opinionisti dei media.
In Hemingway e in Vittorini c’era una forte idealità, sia pure con connotazioni culturali diverse, nel primo di spirito libertario americano, nel secondo di radice sociale. Per questo, credo, trovarono alla fine del loro percorso espressivo forme con caratteri comuni che voglio qui brevemente richiamare. Sono punti di arrivo creativo che dicono molto sulla loro identità profonda e sui rispettivi punti di partenza.
The Capital of the World, è il grande affresco che Hemingway ci lascia di Madrid. In esso ricostruisce la vita di una città: il clero, il movimento operaio, l’ambiente taurino con i toreri falliti o in pensione. Un mondo nel quale il protagonista Paco, un ragazzo pieno d’illusioni e con tanti progetti, proveniente dalla campagna, muore di una morte accidentale, banale, nella pensione dove serviva senza neppure avere il tempo di rendersi conto che l’esistenza è solo una stupida farsa.
Cercava anche lui una città ideale, come il Rosario delle “Città del mondo” di Vittorini. Paco l’aveva ritrovata in Madrid. Rosario la ritroverà più tardi in Scicli. Guardando i tetti di questa città crederà di trovarsi davanti ad una nuova Gerusalemme, sorta dalle rovine dell’antica Babilonia. Mosso dallo stesso affanno per cui Hemingway cercava Madrid, Vittorini ritornò “per ritrovarsi” in una Scicli del dopoguerra, straziata dalla morte e dalla fame ma, nonostante tutto, isola incontaminata di sicilianità ancestrale. Ne documentò i volti più espressivi, gli angoli più ignoti scrivendo appunto, tra il ’52 e il ’55, un suo grande affresco mitico. E che fu pubblicato dalla moglie, postumo, nel 1969.
È indubitabile l’influenza di The Capital of the World, su tale ultimo romanzo di Vittorini. La prosa è molto diversa, come le vicende e i personaggi, ma il motivo che ispira le due opere appare identico: il sogno di un luogo ideale, di una utopia umana che l’anima depurata da spinte mercificanti non smette di cercare. In particolare, per Vittorini, non si può non notare la vittoria in lui del nostos, radice di poesia che lo fa ritornare nel luogo delle insofferenze adolescenziali e della sua partenza ribelle.
Era importante ricordare e sottolineare queste consonanze, anche perché Hemingway e Vittorini hanno condiviso analoghi oblii. Le “loro” città si sono dimenticate delle parole che hanno scritto. Madrid volentieri tace il ricordo del primo. E Scicli non è da meno con il secondo. Gli uomini ingrati e insensibili, dappertutto, hanno memoria breve. Una perdita di memoria, oggi ancora più dilagante nella catastrofe antropologica programmata e voluta dal dominio globale del pensiero unico neoliberista, cui noi con Milanocosa offriamo esempi contrari, come con questa serie di incontri di Attraverso Milano.
Milano, maggio 2019
Adam Vaccaro