Seguono i brani del poemetto Airone, letti con grande adeguata, da Patrizia Valduga al Convegno Il giardiniere contro il becchino – Memoria e (ri)scoperta di Antonio Porta, (Biblioteca Sormani, Milano 9/12/ 2009). In calce ai testi una nota scritta in proposito nel 1998 da Giovanni Roboni, all’uscita delle Poesie 1956 – 1988 di A. P. negli Oscar Mondadori, a cura di Niva Lorenzini.
A.V.
Airone
1. (27.7. 79, premessa, a lei)
come se il mio ventre covasse una bomba
il sentimento, il terrore della perdita
allora spalanco la finestra, comincio a gridare
tu invece: hai il senso della conquista
tu invece; hai attraversato la frontiera
la pianura sconfinata
io invece: caduto in una buca
tu a tirarmi su
e io a viverti attaccato
una seconda pelle
ma interna
allora è questo il desiderio; spalancarti
e uscire e voltarmi a guardarti
a chiederti di continuo senza urlare
e inseguirti
inseguito dai primi passi che muovi
per non perderci
2. (26.7.80)
ti saluto ti canto, airone
ritornato a infilare le zampe
nelle risaie lombarde
canto la mia liberazione
appena uscito dalla prigione
disceso nelle acque
dove il seme va maturando
ancora una volta hai reciso
le sbarre invisibili ma sicure
alzate tra me e il mondo
di nuovo fai delle parole
i tramiti cantabili
tra me e il mondo separato dal letargo d’inverno
tu preparavi il ritorno
io dormivo chiuso in una parete di ghiaccio naturale
e artificiale interminabile inverno del Nord
gli occhi fatti opachi
dai cristalli del gelo
(ci sono sette tipi di gelo
io stavo chiuso nell’ottavo
quello prodotto dal silenzio
muto come ogni lingua
divien gelando muta)
airone, suono del contatto, dell’unione
le mani battono nell’aria
insieme alle tue ali
subito mi fisso immobile al suolo
rimango come te zampe nell’acqua
come fossi ancora cieco e sordo
e non lo sono più
fisso a guardare dove il sole scende
in attesa di sentirlo risalire alle spalle
avverto il sobollire nello scroto
il sesso comincia a distendersi
prepara la sua lievitazione
teso come il tuo becco nella palude
tu come tutti gli aironi
arrivi qui nelle acque tiepide per fecondarti
(gli altri, gli scomparsi
nel vuoto del ritorno
fanno lo stesso
nella memoria della specie
compiono gli stessi tuoi movimenti)
così tu mostri
ciò che devo fare anch’io
il mio sapere
formi con un’immagine disegnata
nitida nella sua umana perfezione
come quelle osservate nel volo
(consolazione degli uomini
sopra la terra attenti,
gli altri scendono
nel buio di prima, di dopo)
ma disegnate, costruite immagini
da uomini ancora più attenti
al corpo della terra
che arano, nutrono, profumano
anticipando le acacie
misurando i filari delle viti nuove
avendo cura delle antiche
preparando le arnie
(eccetera, eccetera, eccetera
quanti uomini nutrono gli altri
come ai tempi dei tempi…)
non so se folli o disperati,
questo mi chiedo, come un folle
o disperato, io
che sento così necessaria quell’opera
o invece sono semplicemente
come tu sei, airone,
allora tengono a distanza la montagna dei rifliuti
delle immondizie fatte eterne
si battono con le frane, i crolli improvvisi
le malattie sconosciute, la fatica mortale
la morte stessa cintura la città
confinano la lebbra
piantati come te
i piedi nell’acqua
bruciano al vento
obbediscono al sole e alla luna
ma non sono soltanto questo
sono cuori intatti
resistono sulle rive dei fiumi a difesa
del padre antico avvelenato
ancora vivo per poco
non è solo teatro dell’antico
non solo Arcadia sovvenzionata
ma uomo attore consapevole
non troppo uomo non troppo animale
così simile all’airone
quando muove le zampe
sui primi passi della danza amorosa
nel principio del corteggiamento
forma i suoi cerchi, i suoi quadrati
intorno a un sesso di piume fa sua quella danza
e allora l’uomo diventa l’umile
dio del corpo…
(ma agli scomparsi voglio ritornare
affrontare la morte)
……………………..
16. (14.8.81)
l’alba filtra dalle cerniere della notte senza numero
con il pulviscolo dell’alba
salgon0o e scendono senza soffi
le piume dell’airone
poi più in alto gelano, all’alba
quando l’airone si alza come un falco
quando poi picchia giù io scompaio
il vento si fa leggero
non c’è più nessuno qui intorno
la mia penna si mette a scrivere da sola
senza occhi che la sorvegliano
il petto dell’airone è il foglio candido
ne ascolto il palpito sul morbido guanciale dell’alba
lievitante relitto della notte il mio letto
ora mi sta alle spalle disfatto
(lo stellato mi ha attraversato senza dolore
ora sono albero, ora bottiglia)
17. (20.1.85)
Ancora una volta non l’ultima volta
volando osservando dall’alto i capricci
delle acque, a mordere il più molle,
a curvarsi su di sé, a sbocciare i ciuffi, i riccioli
in cresta di onda, sotto rimane nascosta
la placenta che tutto contiene,
cunicoli di dove la vita risale veloce
e non vi è traccia di maschio sulla terra,
conserva gli invisibili geni per la madre e la madre
risucchia tutto e tutto restituisce
in forma di albero, di foglie, di erbe, di muschio,
di licheni, di anellini, di bacche odorose, la mia bocca
si apre per accoglierla, la lingua della terra,
stringerla tutta dentro di sé.
18. (21.3.85)
A questo punto, Airone
mi frughi nel ventre
e trovi umida sabbia e
piccole uova di rettile,
il tempo, il poema finisce
in punta di lingua.
Qui in casa dormono tutti, un’ondata
improvvisa mi rigetta sulla spiaggia
a incontrare il tuo becco
(Finito di scrivere: settembre 1987)
Su L’airone
Antonio Porta, in volo con la poesia oltre l’avanguardia. Presentando le Poesie 1956 – 1988 di Antonio Porta uscite negli Oscar Mondadori, per l’ottima cura di Niva Lorenzini, a quasi dieci anni dalla prematura scomparsa dell’autore, Maurizio Cucchi ricorda che nel 1968, dopo aver sentito Porta leggere i suoi versi, Pasolini gli disse: “La tua poesia non ha niente a che fare con l’avanguardia”.
Riferisco a mia volta l’episodio per due ragioni a prima vista inconciliabili. La prima è che fino a pochi giorni fa avrei sottoscritto senza riserve il giudizio di Pasolini. La seconda è che dopo aver ripercorso, nella scelta della Lorenzini, l’intera opera poetica di Porta, mi sono convinto dell’opposto, ossia che essa costituisce quanto di meglio e di più tipico abbia prodotto l’avanguardia (sto parlando, è chiaro, della cosiddetta neoavanguardia italiana: Novissimi, Gruppo 63 ecc.) in questo ambito specifico.
A confronto con la drammatica radicalità dei versi scritti da Porta tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta, la contemporanea produzione dei suoi compagni di strada mostra oggi inesorabilmente i segni della saccenteria accademica o, nella migliore delle ipotesi, di un’ammiccante bonarietà goliardica; solo nell’atroce fisicità della sua pronuncia il conclamato rifiuto dell’io lirico esce dal limbo delle intenzioni per inverarsi in un’autentica realtà espressiva.
Ma proprio per questo – proprio perché non si trattava, per lui, di un teorema letterario da dimostrare, bensì della sua stessa vita – Porta non si e’ fermato lì, è andato avanti, si è lasciato alle spalle il dover essere tragico della giovinezza per affrontare quella che lui stesso ha chiamato la scommessa della comunicazione e che era anche, o prima ancora, una scommessa adulta e rischiosa di condivisione, di pienezza amorosa, di felicità. Non a caso una delle sue ultime poesie, Airone, è il diario di un disperato, gioioso corpo a corpo allegorico con il più antico, forse, dei desideri umani: quello di volare. Ed è stato a questo punto, credo, che colleghi avanguardisti e teorici dell’avanguardia l’hanno perso definitivamente di vista.
ANTONIO PORTA Poesie 1956 – 1988 Mondadori editore Pagg. VIII – 195, lire 12.000
Giovanni Raboni