Annamaria De Pietro

Annamaria De Pietro

Annamaria De Pietro, è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha pubblicato Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997), Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Piero Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Piero Manni, Lecce 2002), Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, Castel Maggiore -Bo 2005).

Annamaria De Pietro: una intellettuale scomoda (intervista a cura di Laura Canevali)

L’ANFESIBENA

Donde non va non torna, ripetendo
sé da luce insidiante, ai fini, ai bordi
e intero impianto pone, fermo
dentro l’attorta vena in calmi giri,
e uguale un sole a picco coglie, margine
sorretto come quando in mani e guanti
manici stanno di vassoio lucente
e al centro esatto fuma il bricco e bolle
volgere polveroso e caldo e bianco,
intorno andando dove è spazio; intanto
la doppia via si stende, e non ha dove.

Da Il nodo nell’inventario

LA SORPRESA

A volte, quando è buia la stanza, e i merli
soli compagni ascolti alla finestra
e ne fai immagine senza vederli –
non voce, non parola si risente
oltre la vite della chiusa scala
che tra il fermo dei muri monta e cala
mentre una luce cade da ponente
ma a te non appartiene e non dà niente
come muto ed avaro gioielliere –
a volte dico, per semplice piacere
e puro arbitrio di luna maestra
prende il galoppo a un tratto il cavaliere.

Da Dubbi a Flora

IL VUOTO E IL PIENO

Rende ragione il passo del dissesto,
il calibro del meno. Scopre il varco
il fianco del continuo, il vuoto infesto
che è lente e occhiuto spacco.
Oltre mostra l’aspetto il secco innesto
rugginoso di spine e di veleno
fra i gangheri e le maglie che del pieno
passo e calibro sono, e tutto, e questo.

Da La madrevite

PROSOPOPEA DI DAFNE

A lui gloria ora dà questa mia chioma,
alla sua chioma l’estro se ne sperde.
Ché mi sorprese alla terra ventosa
(io la coglievo e la contavo – o madre -)
e da quel nodo d’erba errai fuggendo
sole alle spalle mia lucente soma.
Sole correndo lui le frecce ladre
dal suo centro scagliava, e dall’esplosa
farraggine me d’ulcere in crivelli
mutando bianca me sfondava, e stanca
oltre corsa lunghissima io – o madre -.
E spalancò l’imbuto essa, la donna.
La conca fredda me accolse; era verde
la sciarpa che volò via dai capelli.

Da Venti fusioni a cera persa

LA BRICIOLA

Fu di una parte la minima parte,
fu il fallimento di un coltello, e il dente
non ne avrà parte mordendo, né il cuore
della fame profonda alla sua fiamma
accenderà il camino. Nel diagramma
dell’alimentazione è fatuo errore,
è scheggia persa a canone eccedente –
lunga è la vita, brevissima è l’arte.

LA BUCCIA

Un bicchiere d’olio stracolmo
a menisco fortemente convesso
tracima se una sottile cannuccia
celando in sé canna distolta
che leva il fondo dal colmo
nient’altro che la sua esile buccia
somma, e sarà quella la molta
violenza precettata all’eccesso.

LA VANITOSA

La signora che osò un cappello sciolto
da ragione e misura in veli e archetti
piumati, assi di rami orti di rose
poi nastri volti al vento sottilmente
– lasse lente che le are favolose
strisciano via per verde bosco folto –
spariva e compariva entro gli stretti
intercolumni, entro le arcate ombrose
vera non vera aria infinita niente.

MOVIOLA

Uno che ti raggiunge e poi ti uccide –
due che gli fanno volare il cappello
dal colpo di due mani – tre che stanno
con le spalle appoggiate a un muro al sole –
quattro che guardano da un treno in corsa
senza uno sguardo. Quattro che saranno
presto là dove tre contro un cancello
faranno ombra, e due in una borsa
chiuderanno i berretti e le pistole
riprese indietro da uno che ride.

I SIMBOLI A RIENTRO

Oriente a fronte a forme uguali esposte
opposte come in scritta destra e manca
ammanca a una netà metà che a lato
alato passo indietro verte, e pari
pare per due per tre scostando il centro
dentro fermo per tre per due per coste
discoste e uguali, anca a snodo ad anca –
anche così parentesi, o specchiato
spicchio di luna in sorte ai calendari –
calandra contro i simboli a rientro.

LA RECIPROCA BUGIA DELLE GRANDEZZE

Dunque si aperse il cielo
a uno squarcio bugiardo
felice. Ebbe misura
lo squarcio quanta il cerchio
falciato via a radura
dal compasso di quanto
sta l’orizzonte, o mondo –
misura intera, oscura
per chiarità di sguardo
che l’ordire del velo
chiuse a grado soverchio.
Passava il tempo intanto
perché il tempo non dura
che il tempo di uno stelo
radicato in profondo,
spezzato nello specchio
dalla foglia del gelo –
che il tempo dell’azzardo
che sortisce a figura
come lune in un secchio
poi il nardo e l’amaranto –
che il tempo senza fondo
che asciuga a fonda arsura
come il volto di un vecchio
l’amaranto e poi il nardo.

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