Anticipazioni – Roberto Bertoldo

Pubblicato il 15 giugno 2021 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
Vedi a: https://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Roberto Bertoldo
Inediti
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Nota di lettura di Adam Vaccaro
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Nota di poetica
Ringrazio Milanocosa per avermi fatto conoscere, con le sue iniziative, degli ottimi poeti a riprova che la poesia è ancora viva, e aderisco al suo invito con questi inediti, anche se non so quanto possano essere rappresentativi della mia scrittura ormai purtroppo più che cinquantennale. Annotare i propri testi è operazione al contempo necessaria e impropria, necessaria perché bisognerebbe sempre giudicare le opere all’interno del mondo culturale ed emotivo dell’autore, e impropria perché c’è una netta differenza tra espressione e decodificazione, anche riguardo alle proprie produzioni. In ogni caso, almeno per chiarire l’uso che spesso faccio della prima persona singolare, non ho mai scritto testi esplicitamente autobiografici, ogni verso che scrivo è in verità prodotto da una tensione empatica, da questo proviene il taglio esplicitamente civile di molte mie poesie, che cercano di mettersi nei panni dei diseredati, dei sofferenti, dei vilipesi. In pratica, dei bambini che hanno subito una violenza, degli amanti bistrattati, dei ribelli, dei popoli feriti, insomma degli ultimi. Così la mia poesia può assumere tinte tragiche, di denuncia, ma sempre all’interno di quel flusso di immagini intersemiche, sonorità spesso esacerbate, brutture metriche, affastellamenti di figure retoriche che conducono ad una scrittura che, a posteriori, ho chiamato tonosimbolismo. Non c’è dunque nella mia poesia una ricerca estetica, è il contenuto, e con questo intendo anche la mia natura emotiva e intellettuale, a determinare lo stile.

Roberto Bertoldo

Voglio un vasto pubblico…

Voglio un vasto pubblico per le mie poesie,
un pubblico istupidito dalla melassa
con labbra che dissentono dagli echi delle caverne
una sfilata di occhi che non conoscono le mareggiate
questo il pubblico per i miei versi blasfemi,
perorerò bestemmie e percorrerò ogni vena
che mi condurrà al suo rancore,
distillerò sillabe per la franchigia.
Voglio un vasto pubblico per le mie poesie,
che sia di seta pregiata e con un petto grande
grande in cui pigiargli il mio cuore dannato.

*
Il giorno della memoria

Eppure l’uomo nasconde il dilemma della colpa,
celebra la mente come diaspora,
fomenta la parola che froda la storia.
Gli uccelli cantano una primavera slava
di germogli bellici e illimitate ossessioni,
tutto diviene notte che feconda con seme nero,
diviene l’aspersorio che infradicia
persino di conturbato esistere.
Arricchisce così la zolla imperitura
perché la materia è autofaga,
connette le passioni ai coltivi,
provvede senza requie alla vittoria. Così.

*
Io, pagliaccio della vita

Avrai una ragione valida
nelle brache di tela dorata
tu che sei la permanenza dei sogni,
il marese che assume la pioggia
con i suoi cirenei a filo delle rogge.
Vedi i pioppi che ondeggiano
con le frasche materne
mentre passeggi sotto le gocce
quando ti manca la carezza
delle sue dita folli.
Ormai sei solo un clown
che piroetta sulle strade dimentiche
sotto le rudi foglie del bosco
e anche il freddo sulla tua pelle derisa
è circense.

*
Il sepolcro del mondo

La notte è questo acquitrino insolvente
il cui gergo dipana la linfa
di chi un tempo ha urlato,
distrutto dalla messinscena della vita.
La violenza passa dai cieli
e agita le nuvole infaticabili
sotto il sole che declina,
l’angoscia penetra nelle case, tra i letti,
posa sul tavolo dove vibrano i bastoncini dello shanghai
e i bambini colgono l’ansia della terra,
il rancore ha lo spessore delle tenebre
perforate dalla nostra immondizia d’uomini.
La guerra incava la fronte,
di cespuglio è il volto, c’è anche l’erba
e uno strano giaciglio di passeri
ora che piove la miscredenza.
Vigono il peccato e il dolore delle alte stelle,
il ventre concavo, le strade a spicchi,
il suono dei pianoforti inglobati
e l’inverno che non ha più misura.
Infine è poesia stanca questo mausoleo.

*

Roberto Bertoldo ha scritto libri di poesia, di narrativa e saggi filosofici. Come poeta ha pubblicato Il calvario delle gru (Bordighera press, New York 2000), L’archivio delle bestemmie (Mimesis, Milano 2006), Pergamena dei ribelli (Joker, Novi ligure 2011), Il popolo che sono (Mimesis, Milano 2015), Victims’ Cram (Chelsea editions, New York 2016).

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Nota di lettura

Roberto Bertoldo è tra le poche torri emittenti pensiero critico inattuale (in senso nietzschiano) che si fa voce – fuori dagli idiotismi narcisistici, in rete e fuori, dell’affollato e ininfluente “acquitrino insolvente” del pantano attuale – di Insofferenza e Vendetta dei Contenuti.
Tra tanti fiori verbali appagati di sé, alimentati più da iperdeterminazione del significante che da transitività del significato, Bertoldo afferma con forza il bisogno di dire. Con sensi qui di comunicazione, quale intesa da Antonio Porta, che sa mettere in comune la complessità, da attore di condivisione e arricchimento antropologici: “Voglio un vasto pubblico per le mie poesie,/ un pubblico istupidito dalla melassa/ con labbra che dissentono dagli echi delle caverne”. Diretto richiamo alla caverna platonica, colma oggi di bla-bla mercantili, politici e massmediatici, che accentuano la perdita di senso e, a cascata, quello di comunità. È la pedana che spinge alla ricerca di una risposta con la messa (in opera) della sacralità umana opposta allo sterco finanziario che riduce tutto a merce: “Avrai una ragione valida/ nelle brache di tela dorata/ tu che sei la permanenza dei sogni”, anche se “Ormai sei solo un clown/ che piroetta sulle strade dimentiche”.
Bertoldo re-agisce, anche con (auto)ironia, e fa di questa mancanza, tra insofferenza e rifiuto di resa nichilista, lievito di “tensione empatica”, fino a un “taglio esplicitamente civile” contro quel poetically correct che ignora l’ideologia del testo di una poesia depurata dei “panni dei diseredati, dei sofferenti, dei vilipesi…dei ribelli, dei popoli feriti, insomma degli ultimi” – carne violata del mondo. E se “l’uomo nasconde il dilemma della colpa” e “fomenta la parola che froda la storia.”, Bertoldo ne fa chiodi di una poesia che vive nel bisogno/dovere di mettersi in quei panni, in cui diventa impossibile evitare “tinte tragiche, di denuncia”, entro un “flusso di immagini intersemiche, sonorità…spesso esacerbate, brutture metriche, affastellamenti di figure retoriche” che tendono a scritture definite da Roberto “tonosimbolismo”.
Ne deriva una ricerca estetica per la quale le forme e “lo stile” sono determinati dal “contenuto”. Che beninteso non è riducibile né a cosa esterna, né a illusorio hortus conclusus dell’anima, ma alla totalità “intersemica” della propria complessa, molteplice “natura emotiva e intellettuale”. Se “La notte è questo acquitrino insolvente” e “il rancore ha lo spessore delle tenebre” nella “nostra immondizia d’uomini.”, Bertoldo li rovescia in moto del (proprio) processo creativo con inattuale lucidità biologica e fenomenologica, aliena di ogni elucubrazione letteraria. È l’alveo in cui resiste il sogno di un pensiero-azione, e poesia che va (come in T. Mann) oltre una celebrazione isterica di bellezza, con spirito e animalità di vita e coscienza di vita. Ed è in tale visione il conio delle forze creative delle proprie forme.

Adam Vaccaro

2 comments

  1. Roberto Bertoldo ha detto:

    Grazie Adam, interessanti le tue considerazioni e corretta la tua lettura. In accordo con quanto dici, non credo che allo scrittore debba interessare la letteratura in sé, se non per prenderne le distanze, e credo invece che lo scrittore debba interessarsi ai contorni di questa letteratura e al mondo di cui fa parte, soprattutto perché la “bellezza”, a cui la letteratura aspira, non coincide con le brutture che spesso noi esseri umani infliggiamo al mondo. Certo, c’è chi sceglie di migliorare artisticamente o verbalmente l’abito di questo mondo, e rispetto questa posizione, che tuttavia, a mio modo di vedere, spesso s’inebria troppo dei canoni, e chi preferisce che la poesia abbassi la testa e metta in luce le ferite, anche quelle estetiche che gli sono proprie. Ma, come rilevi tu, per “dire”. Dire con le immagini e le sonorità, senza rispetto preordinato delle assonanze, ma col timbro tanto ironico quanto tragico. Oggi vedo che non sono pochi i poeti che hanno scelto questa strada diciamo di impegno civile ma è una strada in verità più dura di quanto sembri e che facilmente evidenzia gli opportunisti, perché essere scrittori non significa essere bohémien o essere personaggi mediatici ma implica un impegno continuo e coscienzioso. La scrittura è una forma di martirio, come la musica, come tutte le arti; è la capacità di sopportare la solitudine, il disinteresse altrui, il rifiuto, la desolazione. La scrittura è lotta, adesione a tutti gli strati della realtà, a volte è anche complessità. Certamente è soprattutto profondità, intellettuale ed emotiva. Vorrei, riguardo a ciò, riportare due frasi di autori molti diversi ma uniti dalla stessa passione, quella di quanti hanno accettato di fare del proprio piacere un dovere: «Un intellettuale degno di questo nome deve essere capace di sopportare stoicamente l’odio e l’indifferenza e di continuare la sua opera ingrata» (Drieu De La Rochelle); «Un giorno anche noi diventiamo adulti, e scopriamo che la solitudine, quella vera, scelta consapevolmente, non è una punizione, e nemmeno una forma morbosa e risentita di isolamento, né un vezzo da eccentrici, bensì l’unico stato davvero degno di un essere umano (…); quella solitudine profonda, intensa, che circonda ogni spirito creatore come l’atmosfera avvolge la terra» (Sandor Márai).
    Roberto Bertoldo

  2. Adam Vaccaro ha detto:

    Sono grato a Roberto, sia per il contributo di testi datato ad Anticipazioni, che per questo profondo, articolato commento che, oltre a confermare le nostre radicali visioni adiacenti, mi auguro sia da forte stimolo ai lettori più appassionati a una ricerca non terminabile o riducibile a questo o quel manifesto/canone. Se il contesto muta in un processo incessante e metamorfico, la letteratura, l’arte e la poesia, se sono parte di tale processo, non possono che essere materia – specifica e speciale ma non celestiale – di forme co-create dallo stesso flusso fenomenologico.

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