Anticipazioni
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Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Giacomo Cucugliato
Poesie inedite
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Nota di lettura di Adam Vaccaro
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Nota di poetica
Queste note poetiche tentano l’intercettazione del dialogo costante tra un corpo, uno sguardo bilocato e le terre africane in cui è stata tombata la coscienza di chi scrive. Si immagina la realtà come la lastra di uno specchio su cui l’essere scrivente è stato scaraventato con violenza tale da frangerla e da frangersi, al punto che l’unica possibile visione ricompattante resta quella di una poesia che sappia seguire i riflessi e riproporli nella sua lingua. Ne deriva un dettato che vuole essere una parziale ricucitura, compiuta con affanno e interruzione del respiro, di un universo lacerato dalla caduta, ma che non ne snaturi l’essenza ormai sezionata. In quest’opera di poiesi chi scrive si ritrova a percorrere il labirinto delle cose presenti e passate, seguendo estaticamente il farsi e il disfarsi della luce: ché nella distruzione di ogni cosa un sole come una biglia pare, percuotendo gli specchi, pur se solo nell’attimo della visione, poter alludere a una unità sovrasensibile. Quell’unità, forse apparente, si produce quando chi scrive assorbe ed è assorbito nell’orbita degli oggetti della manifestazione: ogni parola poetica si appiglia alla cosa che dice solo transitoriamente, per abbandonarla identificandosi alla cosa successiva, così per una serie di ascese e di discese che fanno una metafisica poetica degli esseri e dei nomi. Qui le terre africane che parlano attraverso e sopra e sotto il corpo nel tramite della liaison permessa dallo sguardo si popolano della memoria del sangue umano che le ha irrorate assieme al sudore contadino: quella memoria si fa presenza cucita nelle viscere delle cose, diventa storia, produce inesausta poesia non detta che attende l’attimo della narrazione. Questo atto contadino è una operazione magico-poietica potenzialmente capace di far geminare senso circolarmente dalla terra all’uomo al macrocosmo.
Giacomo Cucugliato
A Mimì
I.
Ruvida scorsa cosa non mota si assola il giallo pantomima
da forma a forma
[ desolata terra ] concupita d’acqua lo sguardo grano affonda
eresie di mani contro un’ombra.
D’esser dissolta cristo patente accenna: fa nervi musiche di rami
II.
Uniche fonti diavoli santi vanno suffumigi nubi peregrine
a grinfie nei morsi di questi merli
la bocca scalda braci di racconti, come un ventre, trascendo
la palingenesi di queste mura.
III.
Liquore l’ombra si annida nelle pareti delle carte laterale fischia
un vecchio come un nembo
l’egida del vino
ho timore del tuo grembo vasto quanto il grano nel quando
la piazza
s’immola al vento, [ ]
quando il sole ci mastica poltiglia di fantasime e parole ora
non dico,
nel lasso allumi di segni la sorte
transito per le tue vene le gengive spoglie gonfio questo paradiso.
IV.
Rumina nastri metastasi cobalto [ ] inerme il tratto giugulare
del mare vergine soda che gonfia seni di sassi: fonda la notte
un pianto, resinoso,
come di cosa non detta, io ti appartengo.
e sgrana gli occhi il pontile timidamente
sul vaso rosso delle rose mani.
V.
Da retto fallo un campanile acquoso nell’anonimo piatto nemboso si perde
da immagine a immagine
gioco, il due di picche delle mie vertebre, rosa, madre
cammini su cenci arsi da secoli postumi, tacendo, provieni. All’ora assorto
un cuculo alla voce qualcosa di me domanda [ ] stasi reticolare di sguardi.
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Breve biografia
Giacomo Cucugliato (Lecce, 1994) si è laureato in Lettere Classiche presso l’Università del Salento con il massimo dei voti e menzione di merito e svolge attualmente un dottorato di ricerca in Italianistica presso Sorbonne Université Paris IV. Si occupa principalmente dei rapporti fra le culture esoteriche e la narrativa ottocentesca e primo-novecentesca e di letteratura fantastica. Il suo esordio poetico risale al 2016 con la pubblicazione de La vergine nuda presso la casa editrice Milella (Lecce). Due suoi testi sono raccolti nell’antologia Come una mezzaluna nel sole di maggio pubblicata nel 2018 da Fallone Editore (Taranto).
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Nota di Lettura
Un percorso di forme frante che non giacciono arrese e appagate nei loro frammenti, ma inseguono come perle un filo capace di unirle in un disegno di unità e complessità antropologica. E il filo è ovviamente il poièin, che dall’Autore è inteso, pertanto, nella funzione necessaria suddetta. Ai versi, fuori dagli argini di canoni assunti dalla storia letteraria, viene dunque affidato e chiesto il compito umano di dare voce a una lacerazione e a una mancanza di unità, singola e collettiva. Ne scaturisce perciò una poesia di autopoiesi, di resistenza e costruzione inesausta della propria identità, svolta in 5 quadri di varia cromaticità, in cui il là lo dà il giallo, del sole, del grano maturo, di terre d’Africa e, in ultima, della vita che risuona tra rami d’alberi silenti.
Briciole che diventano da subito atomi e molecole di ripresa inarresa di unità, irrinunciabile, seppure in una “desolata terra”, che fa apparire tale sogno e bisogno un’utopia illusoria tra “eresie di mani contro un’ombra”. È un regno impossibile di ossimori e paradossi, essenze costitutive di poesia, di “diavoli santi”, sulle “braci di racconti” in attesa di “palingenesi di queste mura”.
La visionarietà che gocciola dall’alambicco verbale è “Liquore l’ombra” di “un vecchio come un nembo/ l’egida del vino”, e “quando/ la piazza/ s’immola al vento,/ quando il sole ci mastica poltiglia di…parole… per le tue vene le gengive spoglie gonfio questo paradiso”.
La tensione alla congiunzione appare/scompare nella poltiglia, ma “come di cosa non detta, io ti appartengo./ e sgrana gli occhi il pontile timidamente/ sul vaso rosso delle rose mani.”
Mani che “nell’anonimo piatto nemboso si perde/ da immagine a immagine/ gioco, il due di picche delle mie vertebre, rosa, madre”, mentre “cammini su cenci arsi da secoli postumi, tacendo, provieni.”
Sono frammenti e momenti, squarci, orizzonti, memorie e vite, che faticano a ricomporsi, evidenziate tanto dai salti degli allineamenti, quanto dalle rotture sintattiche, mentre continuano a deporre briciole di un Pollicino inesausto, declinatore di voci sperdute che hanno perso al gioco della vita.
Adam Vaccaro
Mi congratulo con Cucugliato, che si rivela studioso attento e poeta non allineato alla stesura di versi propri del poetese lirico-innamorato (che denuncia i postumi di un morbo terrible che ha colpito la poesia italiana negli Anni Ottanta) che ormai imperversa con magniloquernte retorica manierista tra i giovani del nostro Paese.
Gentile Dottor Pamio, è un onore leggere il suo commento ai miei versi, un onore che accolgo con grato cuore e di cui mi auguro di diventare vieppiù all’altezza.
La perseveranza in questo senso ci sarà, mi auguro ne vengano anche fruttuosi risultati.
rara sintesi tra lirica e avanguardia
ho apprezzato versi come:
“ho timore del tuo grembo vasto quanto il grano nel quando
la piazza
s’immola al vento”
il cui senso d’infinito, ellitticamente, dal grembo attraversa il grano, la piazza e ritorna al vento, coniugando sacro (s’immola) e mondano (la piazza)
Grazie mille Dottoressa Galzio, sono lieto di poter leggere le sue lusinghiere parole, quanto per la statura poetica e intellettuale di chi le scrive, tanto per la profonda comprensione di quella che è forse la chiave di tutto quanto tento nella scrittura: così nei versi che ha sottolineato è il moto circolare che gonfia ogni mio tentativo di composizione.
Ringrazio di vivo cuore Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo, per avere così generosamente accolto i miei testi all’interno della rubrica Anticipazioni.
Mi ritengo onorato di questa ospitalità.
Il fatto di essere ospitato su queste pagine è per me motivo di orgoglio, da una parte, ma più ancora incentivo a proseguire non tanto l’attività di scrittura (che continua indipendentemente dalla mia volontà), quanto quella di diffusione, sempre invece timida, dei miei testi.
Non posso poi che rimanere entusiasta delle parole lusinghiere di Adam Vaccaro, il quale con tanto suo consueto acume ha colto la radice di quelli che sperano almeno di essere versi. Colgo questa occasione telematica per rispondere che sì di tentativo fallito si tratta, di un tentativo di raccolta (poietica) del disperso, in cui le mani sono rose perché si feriscono continuamente, e che questi indegni versi altro non sono che la traccia di quel fallimento.
Forse, almeno questo credo di poter dire di me, ogni opera di poeiesi è il frutto di un maldestro istinto titanico di riconquista del divino, disciolto nella storia, nella carne “parentale”, nell’ambiente in cui cadiamo gettati; ma più che l’opera titanica risuona il tonfo della caduta dopo l’impresa, se poi quel tonfo può essere ritmato in versi, tanto meglio per chi ascolta perché quel tonfo è la testimonianza che qualcosa d’oltre esiste, forse, e se non altro si può provare a raggiungerla.
Il corpo si riafferma, la caducità si ripropone in quello schianto, ma proprio perché di schianto si tratta in esso si riassume l’ascesa e la fragilità dell’uomo, quindi il tutto che Vaccaro tanto sottilmente evidenzia.
Non posso che essere grato a lui per l’occasione che mi dà di elucidarmi concetti, tante volte taciuti dentro di me, e non posso che ringraziare Milanocosa tutta per questa opportunità.
Mi auguro, per il poco che posso sperare in questo senso, di potervi dare via via versi migliori, che suonino di fraterna amicitia tra chi ha ancora il coraggio, la forza, o l’istinto appunto, di credere nella falsità della poesia.
Mi compiaccio vivamente di questi riscontri di Giacomo, che confermano la sua intensa passione di ricerca, precisando solo per lui e tutti noi che, tra i tanti paradossi della prassi poetica, c’è quello di ribaltare come una clessidra anche il “tonfo” e lo “schianto” (splendida parola ricca di memoria e storia) che ci regala il pugno di un fallimento. E altrettanto c’è quello della sua meravigliosa sapienza di essere verità-falsità, senza la quale noi non saremmo!
E aggiungo un grazie di cuore ai carissimi Massimo Pamio e Gabriella Galzio per i loro acuti contributi e commenti.