Anticipazioni
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Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Francesca Del Moro
Inediti
Con commento di Luigi Cannillo
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DICHIARAZIONE DI POETICA
Se dovessi individuare una parola per definire la mia poesia, questa sarebbe ‘testimonianza’. Negli ultimi anni stavo mettendo insieme un libro di argomento politico incentrato sul crescente individualismo e sulla digitalizzazione (già in epoca pre-covid) ma il recente suicidio di mio figlio mi ha portata ad abbandonare il progetto, perché in questo momento non c’è altro che possa toccarmi, altro di cui possa dire. Propongo quindi alcuni testi tratti da un possibile libro futuro, il cui titolo provvisorio Da dove sto parlando viene dal fatto che ho iniziato a pensare i primi versi al cimitero, dal basso in cui mi trovavo emotivamente e fisicamente, seduta su un gradino e sopraffatta dal viso giovane e sorridente della sua foto nell’ultima e più alta fila di lapidi. Il titolo, che si può leggere o meno come domanda, allude anche alla sensazione di non essere più parte di questo mondo, di essere passata oltre, dalla parte dell’orrore, delle tragedie riportate nei trafiletti di cronaca che a volte, con più o meno superficiale empatia, gli autori fanno proprie nella scrittura. La parte di chi ha vissuto, nelle parole della mia terapeuta, “un’esperienza estrema”, che forse vale la pena testimoniare poeticamente nella sua crudezza, nella sua verità.
Francesca del Moro
Dal libro inedito DA DOVE STO PARLANDO
Ho stretto l’urna contro il ventre,
pesava pressappoco come allora.
Un figlio lo contieni sempre
e ogni minuto io contengo,
ogni minuto sento dentro
mio figlio che muore,
mio figlio che decide di morire.
*
L’estremo gesto, il gesto insano.
Il rapporto di polizia si concede
qualche cliché letterario.
Ma io ricordo bene
il viso buono di chi quel giorno
mi ha fermato sulla strada
e gli occhi lustri di chi ci ha ridato
i suoi effetti personali
mentre i nostri si riempivano di lacrime
e il suo ripetere commosso
non è colpa vostra, mi raccomando,
ricordate, non è colpa vostra.
*
Mi sono picchiata,
ho percosso le tempie
coi palmi delle mani,
premuto i pugni
sugli zigomi, sbattuto
la fronte alla parete.
Chissà se, ovunque sia,
l’angelo, coi suoi angelici
occhi, mi vede.
*
I riti di ogni giorno
sono sempre gli stessi,
a parte l’amore
nel socchiudere la porta
per spiare il suo sonno.
Fuori i visi coperti
fanno strade ospedaliere.
Io malata cammino
con la mascherina alzata
per nascondere gli occhi
già rotti al mattino.
*
Non mi lasciano più sola nella casa,
conoscono al suo interno
i percorsi dell’amore e della morte,
che io ripenso ovunque tutto il giorno.
Non ho paura della casa, mi assomiglia,
è innocente come me, è ferita.
Ma ieri è stato bello trovare
dietro la porta il suo sorriso,
la tisana e il disco di Nick Drake,
l’ascolto attento del dolore,
lo stesso che ripeto mille volte,
e poi lei nella stanza accanto
e la gatta insieme a me nel letto
a custodirmi un sonno dolce.
*
Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. Ha pubblicato otto libri di poesia, tra cui Gli obbedienti (2016), Una piccolissima morte (edizionifolli, 2017, ripubblicato nel 2018 come ebook nella collana Versante Ripido / LaRecherche) e La statura della palma. Canti di martiri antiche (Cofine, 2019). Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa ed è autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Baudelaire, pubblicata da Le Cáriti nel 2010. Fa parte del collettivo artistico Arts Factory, insieme a Federica Gonnelli e alla fondatrice Adriana M. Soldini e collabora con le Memorie dal SottoSuono alla realizzazione di performance di poesia e musica. Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo La rosa e la corda. Placebo 20 Years, edita da Sound and Vision. Dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie realtà bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere. Cura la rubrica “Poemata. Versi Contemporanei” per la rivista ILLUSTRATI edita da Logos. A breve uscirà la sua traduzione dei Derniers Vers di Jules Laforgue, nella collana “La costante di Fidia” curata da Sonia Caporossi per i tipi di Marco Saya.
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Nota di lettura
Quando scriviamo della perdita siamo spinti da due forze: una è quella dell’urgenza, l’altra quella della forma da dare all’energia sprigionata dall’urgenza stessa. Ci sono separazioni nel segno della tragedia, di una morte inaspettata e repentina. Ne parla esplicitamente Francesca Del Moro nella sua nota di poetica: così la perdita del figlio le fa accantonare ogni altro progetto di scrittura. Il movimento generativo della poesia si sviluppa dal basso verso l’alto, partendo dall’immediatezza; è caratterizzato da una “esperienza estrema” che disloca l’autrice dalla posizione di coinvolgimento negli eventi a quella di estraneità al mondo – e viceversa, alternativamente. Questa complessità è la scintilla incandescente della poesia che rischia di bruciare la mano di chi scrive, e la carta stessa, e si manifesta nella interrogazione rivolta sia al destino che agli eventi comuni della quotidianità.
In Francesca Del Moro questa urgenza cruda e bruciante annichilisce ogni certezza precedente ma si riversa in un’energia che si esprime in progetto di poesia attraverso testi brevi e spietati, appunti del “diario necessario” di una nuova forzata quotidianità, oppure mosse più distese e articolate. Tutto è avvenuto, davanti a chi scrive si accorpa un vuoto che è anche pagina bianca sulla quale la parola prende posto come fremito, come segno tagliente della vertigine che attraversa. Così la materia si rappresenta in metafora, e le forme reali e quelle simboliche si intrecciano: “Ho stretto l’urna contro il ventre,/ pesava pressappoco come allora./ Un figlio lo contieni sempre/ e ogni minuto io contengo,/ ogni minuto sento dentro/ mio figlio che muore,/ mio figlio che decide di morire.”
La modulazione del linguaggio consente poi risvolti di un sarcasmo già presente per altre tematiche care a Francesca Del Moro, in particolare nelle poesie legate al mondo del lavoro come nella recente raccolta Gli obbedienti (2016). In questi inediti il riferimento è all’effetto di cliché letterari nel rapporto di polizia: “L’estremo gesto, il gesto insano./ Il rapporto di polizia si concede/ qualche cliché letterario./ Ma io ricordo bene/ il viso buono di chi quel giorno/ mi ha fermato sulla strada/ […]”. E, a proposito del rapporto con forme e immagini, è notevole la poesia conclusiva: il dolore, concentrato nel perimetro della casa anch’essa ferita, scorre in una circolarità che è flusso dolente ma anche, simbolicamente, richiama al ciclo di morte/rinascita; e a quel movimento allude il percorso a spirale casa-stanza-gatto-sonno: “Non mi lasciano più sola nella casa,/ conoscono al suo interno/ percorsi dell’amore e della morte,/ che io ripenso ovunque tutti il giorno./ […]/ e la gatta insieme a me nel letto/ a custodirmi un sonno dolce.”
La parola individuata dall’autrice per definire la sua poesia sarebbe “testimonianza”, un compito qui tanto più impegnativo perché riguarda l’Estremo, l’Indicibile, l’esperienza inimmaginabile del Male. Nell’esperienza del Tragico assoluto la testimonianza di questa poesia è innanzitutto la verità: non il semplice realismo emotivo che si legge in tanti versi di “superficiale empatia” bensì l’autenticità dell’esperienza e della sua restituzione. Il labirinto in cui convivono inseguendosi la Vita e la Morte conferiscono poi ai versi una energia contratta che ci coinvolge profondamente. La testimonianza è anche voce che proviene dal mistero e infonde nelle poesie il carattere di un’opera aperta in costante ricerca. Forse è nella spirale, nella circolarità, il segno chiave che va oltre gli eventi: tra ferita e sopravvivenza. D’altra parte la stessa Francesca del Moro, nel citare il titolo della silloge, Da dove sto parlando, scrive di un possibile tono interrogativo. Come lettori siamo noi stessi testimoni di quel percorso: di una verità rivelata e, insieme, di un enigma.
Luigi Cannillo
grazie Francesca Del Moro di questo intenso attraversamento. Bella anche la nota di lettura.
Francesca Del Moro qui si mette in gioco fino in fondo esponendosi a una scrittura che avviene nel mezzo delle cose, mentre le cose accadono.
Ci concede così di entrare nel profondo di un orizzonte chiuso, dove non si vedono le vie di fuga, le prospettive.
Eppure in un qualche angolo questi orizzonti, pure terribili, aprono quasi per svista a una piccola e salutare crepa dove si insinua un fremito di sarcasmo, ipotetica strada di salvezza. È come se la materialità del dolore sia talmente enorme dal non potersi lei stessa sostenere e debba quindi quasi per necessità scollarsi, incrinarsi. Quindi magari trasformarsi?
Noi diventiamo partecipi e partigiani sperando che prima o poi questo dolore collassi. Consola intravedere questa possibilità attraverso quella crepa.
L’autrice ci consola. È lei a consolare noi.
Mi trovo quasi incerta se accogliere queste poesie per il loro valore o se mescolarmi, con umiltà, per quel tanto che posso, ovvero molto poco, rispetto all’autrice, al dolore più grande, quello che nessuno di noi riesce a nominare.
Trovo questa scrittura, oltre che straordinaria, un gesto di grande generosità. Non posso perciò fare a meno di ringraziarne Francesca Del Moro.
Leila Falà.