Reportage di Alberto Masala

Pubblicato il 25 aprile 2010 su Resoconti da Adam Vaccaro

Grigio di Baghdad – Reportage di Alberto Masala

Parto da Baghdad con i suoi 1400 checkpoints in una triste prima mattina di pioggia che rende ancora più plumbeo il grigio del cemento e più fangosa la polvere marrone degli sterrati. Il grigio qui non è più un colore: è una condizione mimetica che pervade lo sguardo appiattendolo in visioni disperate. Anche il respiro è razionato a brevi dosi in un soffio d’angoscia senza mai distesa. Nell’ultimo tratto, mentre il Toyota s’infila nel percorso obbligato tra i blocchi di cemento, penso alla generosità di Nicola Calipari ed alla forza di Giuliana Sgrena che ha scelto di tornare fra questa gente. Era marzo, sono passati giusto 5 anni. Mi guardo attorno e non riesco a pensare ad altro. Dov’era appostato Lozano? A che punto del percorso ha sparato?… è un’orribile sensazione percorrere uno spazio dove qualcuno ha ucciso, è un peso che arriva al cuore come se la stessa terra rifiutasse di inghiottire quel momento e lo rendesse materia solida, pesante e difficile da attraversare. E non si arriva mai… 14 passaggi, gli ultimi, dall’accesso dell’aeroporto al portellone dell’aereo: mettiti in fila, passaporto, apri la valigia, fatti perquisire, chiudi la valigia, togli la giacca, vuota le tasche, passa al metal detector, qualcosa squilla… la cintura, i bottoni metallici della camicia… lo scanner… ok, rivestiti, rimetti tutto in tasca… avanti il prossimo. Posso partire dall’Iraq. Sono illeso, le uniche tracce che esporto stanno nel profondo e mi hanno solcato l’anima lasciando detriti incancellabili. Ho visto poco e quasi tutto dai finestrini del pullman che ci ha portava sempre scortato da due pickup pieni di armati.

Dov’ero? A Bassrah (Bassora) al festival nazionale di poesia Al Marbid (o Marbed, Marbad, Marbadi, Marbeda nelle sue declinazioni…), e a Baghdad per una coda finale invitato dal Ministero della Cultura iraqeno. Il segnale di ripresa della “normalità” in un paese che vuole ricominciare a comunicare la propria capacità di produrre arte e pensiero. Il primo evento culturale, orgoglioso e fragile, persino prematuro e inattendibile dopo tanta guerra che tuttora non può dirsi finita… E per la prima volta il festival della poesia iraqena, interrotto da anni, si apre agli stranieri nel nome di Buland Al-Haidari, morto nel 96, innovatore di poesia e difensore dei diritti umani. Nel segno della libertà di espressione multiculturale. Un centinaio di poeti iraqeni, tutti i migliori, anche donne in una bassa percentuale di quota rosa perfettamente europea. Una grande assenza: Sa‘di Yusuf, l’enfant-terrible difficile da governare, indomabile, resistente, e, peggio, perfino comunista… (chissà cos’avrà combinato per non farsi invitare…). Nonostante i molti chiamati da Muniam al Fakir (poeta che vive a Copenhagen) e Aqeel Mindlawi (funzionario che si occupa del festival), solo uno sparuto gruppo di stranieri ha l’audacia di arrivare lì. Non ero l’unico italiano: c’era Anna Lombardo, amica poetessa da Venezia. E, per citare alcuni poeti, Jack Hirschman con Agneta Falk, cari vecchi compagni di tante vicende, Eric Sarner (filmaker francese ora in Uruguay), gli spagnoli Angel Petisme (cantautore) e Maurilio de Miguel (scrittore e giornalista), Kamal Akhlaki dal Marocco, Bayan Al Safadi dalla Siria …

Bassrah, città dell’estremo sud alla foce dello Shatt-el-Arab, il Fiume-degli-Arabi formato dalla confluenza del Tigri con l’Eufrate dove finisce la Mesopotamia, sta giù nella tormentata strettoia sul mare tra Iran e Kuwait. Per tre giorni letture di continuo. A lato anche due mostre: pittura e fotografia, notevole questa per la presenza di un interessante ritrattista e di un reporter che lavora per la Associated Press. E tre concerti: sinfonico (miracolosa esecuzione di “Quadri di un’esposizione”), folklorico, e classico con l’orchestra nazionale di Oud.

Insomma, sono stato lì e ne sono tornato indenne. L’amorosa e allegra brigata che ci scortava aveva attenzioni e presenza quasi eccessiva, o almeno così pensavo all’inizio di quella scrupolosa preoccupazione e della ricorrente domanda degli intervistatori: “Vi sentite sicuri? abbastanza protetti?”

Ma a Baghdad ho capito e provato riconoscenza per tanta accurata protezione. Nella notte mi mostrano un hotel bersaglio del fuoco americano: ha un’ala spenta, scura, come un gigante stordito la cui bocca spalancata, mi dicono, era la sede di Al Jazeera. Per le strade nessuno. Dalla finestra al quarto piano del mio albergo decaduto, polveroso e fatiscente, vedo lo scorrere del Tigri e, all’improvviso, fiammate di colpi sull’altra sponda. “Oggi sono arrivati i risultati elettorali”, penso. Ci si abitua a tutto? No. Alla guerra no. Ai morti che ancora si producono ogni giorno senza far notizia, alla fierezza dolce di un popolo innocente che cerca di mantenersi in piedi nel dolore, alla dignità dei suoi poeti e intellettuali feriti in maniera insanabile nello spirito, ai quei bambini che ci accolgono cantando nel teatro circondati da militari armati, ai carri armati leggeri ad ogni incrocio, alle pericolose facce da rambo dei contractors… a questo non ci si può abituare. Ne sono per sempre testimone. Di rabbia. Per il mio paese interventista che ha acriticamente sostenuto una menzogna sporca di business e petrolio. Di orrore. Per la vigliaccheria di chi l’ha sostenuta giustificando l’occupazione. Di ribrezzo. Per l’arrogante presunzione di chi pretende di esportare democrazia in una terra che sa di essere culla della civiltà. Di disgusto. Per una crudele sub-cultura che millanta valori morali ma pensa agli affari. Che cosa siamo diventati? Provo dolore. Davanti ho l’umanità di chi, pur nella sofferenza, sa accogliermi con affetto e rispetto.

Ora so che niente è sprecato. La solidarietà attiva serve davvero specie se si ha l’occasione di poterla trasformare in presenza. Infatti, pur sapendo di rappresentare solo me stesso, sentivo l’enorme spinta emotiva di migliaia di persone che testimoniano la loro opposizione alla guerra. Di questo hanno bisogno: traducevo un gesto d’amore collettivo per continuare a nutrire il coraggio di chi resiste.

SCHEDA DELL’EVENTO

Al Marbid, l’importante festival nazionale della poesia in Iraq, si svolge a Bassrah ed è voluto e sostenuto dal Ministero della Cultura. Interrotto per tanti anni, quest’anno ha ripreso con la 7° edizione intitolata al poeta kurdo-iraqeno Buland Al-Haidari scomparso nel 1996 dopo 30 anni di esilio. Lo slogan dell’edizione 2010 è: “Per una cultura nazionale della libertà di espressione e della multiculturalità”. In tre giornate vengono ospitati poeti iraqeni di tutte le provenienze, città e culture nazionali (kurdi, turcomanni, arabi, ecc…). Per la prima volta erano presenti anche poeti non Iraqeni. Gli invitati stranieri erano: Jack Hirschman (USA), Agneta Falk (Svezia/USA), Angel Petisme e Maurilio de Miguel (Spagna), Eric Sarner (Francia), Alberto Masala e Anna Lombardo (Italia), Sejer Andersen e Kristen Bjornkeer (Danimarca), Bayan Al Safadi (Siria), Kamal Akhlaki (Marocco), Ali Akbaş, Osman Çeviksoy, Nekdet Karasevda, Fatih Şahir, Imdat Avşar, Ayten Mutlu (Turchia). Si è svolto nei principali spazi culturali di Bassrah: Teatro Nazionale, Auditorium, Casa della Cultura. In parallelo anche mostre di arte visiva e concerti.

One comment

  1. […] e concerti. questo articolo è stato ripreso * dal sito di Sardegna Democratica * dal sito di Milanocosa * dal blog di Angel Petisme (poeta e cantautore spagnolo, pacifista e antimilitarista, caro […]

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