Luca Benassi Il guado della neve CFR, Piateda, 2013
In quest’ultimo libro Luca Benassi giunge quasi a mettere in discussione le acquisizioni stilistiche che aveva raggiunto nei precedenti: Nei Margini della Storia (2000), I Fasti del Grigio (2005), L’onore della polvere (2009), Di me diranno (2011). In quest’ultima lezione, la fascinazione della modernità tende a rinnovare il genere. Forse sono i germi della crisi del genere poesia che qui si avvertono con maggiore nitore.
La letteratura non è e non è stata un valore corrente in ogni età della storia; al contrario, sono esistiti periodi, anche assai lunghi, durante i quali la scrittura si è ridotta a umili funzioni di servizio: pensando alle vicende italiane, basti ricordare per tutti, la millenaria stagione medievale nella quale, forse con il sostegno di un cristianesimo penitenziale, certamente un po’ iconoclasta e in ogni caso poco attratto dalla conturbante seduzione del bello, della poesia e anche del racconto è difficile trovare tracce significative per molti secoli tra la donazione di Costantino e l’affermarsi dei primi testi poetici in volgare.
La svolta decisiva la segnò la Commedia di Dante inglobando nella forma poesia il genere narrativo, ma per un seguito di ragioni storiche che qui non è il caso di indicare, da quell’opera romanzo e poesia si sono divise per sempre, fino ad arrivare ad oggi alle soglie del Dopo il Moderno, dove la poesia si pone come testo di un avantesto o testo di un metatesto sul testo (come in Zanzotto); quella funzione poetica, che tendeva a convogliare tutti i segni sul messaggio di cui era portatrice, la poesia sembra oggi essersi dispersa in una miriade di diramazioni laterali e minoritarie. Così è avvenuto che non c’è più un paradigma al quale ragguagliare l’opera poetica, non c’è più un Canone con la maiuscola ma una serie di mini canoni sempre più minuscoli, ciascuno con il proprio pentagramma lessicale e tonale.
Ecco spiegata la ragione del ritorno al duplice binario della poesia in Lingua e in Dialetto (sardo) come nel caso in esame, forse per quel bisogno di avere dei punti di riferimento stabili là dove non c’è più alcuna stabilità che la poesia possa darsi dall’interno o dall’esterno, perché sono venuti meno i punti di riferimento, e l’orientamento ne è stato sconvolto, e non c’è più una bussola che non sia impazzita. Il senso del titolo del libro: «il guado della neve», io lo interpreto così: nella difficoltà di aprirsi un «guado» stabile in una materia per eccellenza friabile come la «neve». Nella sezione dal titolo ossimorico «Il dovere dell’acqua» c’è la consapevolezza di trovarsi in «lame di fosfeni, feti di fotoni brillanti come fonemi, sintagmi interrotti, bagliori, scoppi, incistati, incurvati nelle trame del legno, intavolati, inchiodati al problema del vero»; sembra quasi di trovarsi nella caricatura di una certa poesia post-sperimentale del tardo Novecento.
Forse questo di Benassi è un libro d’amore, come può scriverlo un autore che voglia dissimularne le tracce; e il poeta è costretto a scrivere sull’acqua o ad aprirsi un guado nella neve. Se Cavalcanti e gli stilnovisti elaborano una laica teoria dell’amore, per secoli, nelle generazioni seguenti sarà più di tutti Francesco Petrarca a percorrere, «nano sulle spalle di quei giganti», il cammino a ritroso che, grazie al senno di poi, doveva invece condurre in avanti, costruendo i fondamenti di quella civiltà umanistica nella quale riuscirono a convivere, arricchendosi reciprocamente, la tradizione classica e quella cristiana.
Oggi il mondo moderno a tecnologia avanzata esclude a priori ogni autorità e magistero spirituale che non provengano da essa, e la poesia si vede quasi ridotta a prendere ad interlocutore un detenuto condannato all’ergastolo e ristretto nel carcere di Spoleto, o a inventarsi degli interlocutori surrogati, o finti, a prodursi nella zona di scocca tra un socioletto idiomatico sardo e un italiano tradotto da quel socioletto; e lo stile diventa il risultato di un rapporto, il risultato di un dialogo tra un socioletto e l’istituzione linguistica per eccellenza qual è il linguaggio poetico. Dal punto di vista fonetico e lessicale, nelle parti in versi, la poesia di Benassi riceve sicuramente uno stimolo da questa contaminazione a distanza, ma rimane pur sempre all’interno della dialettica tra conservazione e innovazione di novecentesca memoria, non può sfuggire alla dialettica che il Novecento ha inaugurato con le avanguardie storiche.
Siamo certo tutti figli del Novecento, il secolo che ha espiantato la poesia dal corpo umano quale organo inutile, un po’ come si faceva un tempo quando i chirurghi espiantavano le tonsille ai bambini. Ma è un espianto che ha delle conseguenze non, propriamente, tutte positive, o che comunque porteranno dei risultati che soltanto il futuro potrà giudicare.
Giorgio Linguaglossa