V. Guarracino

Lucetta Frisa – Nell’intimo del mondo

Pubblicato il 22 gennaio 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Lucetta Frisa
Nell’intimo del mondo
Pasturana, Puntoacapo 2016

Viene da lontano, Lucetta Frisa: da un lungo percorso di scrittura che da sempre interroga la vita, a partire da un punto essenziale che è la consapevolezza di un ancoraggio alla parola come chiave di lettura del mondo, all’idea, già enunciata ne I miti, le leggende (1970) e ribadita ne La costruzione del freddo (1990), di un “punto solare”, di un “cuore”, da cui si irraggiano infinite possibilità verso la conquista dell’io, oltre La notte alta del senso (un titolo mirabile del ’97), oltre l’”arida neve che nasconde il cuore”, verso la ricomposizione cioè di quello che in Modellandosi voce (1991) è definito “l’irrimediabile squarcio” della vita, la ferita originaria dell’esistere.
È a partire da ciò, da questo omphalos, luminoso e insieme oscuro, esaltante ma anche doloroso, che prende il via un’avventura esperita col viatico consolatorio della scrittura (si scrive “respirando”), costruendo ogni volta vere e proprie partiture liriche e drammatiche, storie di un’inquieta ricerca di luce, in cui si coniugano e trovano corpo pensiero e memoria in strutture di controllata densità, in una lingua mutevole e lunare, a tratti drammaticamente franta, cavalcantiana (“una scrittura / di nervi e sinapsi”, come è definita nella raccolta L’altra, 2001), la cui esplicita ambizione è quella di far lievitare e sopravvivere “in punta di penna” quell’idea di sé enigmatica e femminile, cangiante, che ognuno si porta dentro, nei propri intimi “inferni”, come una risorsa o una condanna.
Tra i tanti, c’è un testo in particolare che più di tutti colpisce e intriga. Un testo che assume per me un valore paradigmatico e mi fa dire, e non per ragioni esterne ad esso, che, sì, davvero con Lucetta l’incontro è con un’anima gemella: con una che a rileggerla continuamente la si scopre nuova e diversa, “altra”, giusto il titolo in copertina del libro del 2001. Si intitola, il poemetto, Porta Rosa ed è contenuto nella sezione Ritorno alla spiaggia (2009).
A parlare è in esso una donna: un’ombra che riemerge dall’”oltre” delle tenebre e della notte, nell’atto di “riprendersi la luce”, col solo ausilio di un canto che la richiama e riscatta dal suo Erebo, prestandole voce e consistenza, Euridice di un impossibile Orfeo. Non diversamente da quanto già avveniva anche in altre raccolte, nella raccolta La follia dei morti (1993) o in Siamo appena figure (2003), attraversate da simulacra luce carentum, notturne, virgiliane umbrae (Emily, sopra tutte, nella prima), protese all’apparire e perciò già vive, che diventano lingua, fissandosi nella luce del canto, componendo così un disegno in cui esistono come attesa e vigilia, in un alone fosforico di luce, in bilico tra inquietudine e consolazione, tra grigiore e luminosità, grate del loro dono e del loro attimo eterno di vissuto. Specchiandosi in un caleidoscopio di proiezioni, in “autoritratti”, disegnati nei versi per “non morire mai”, come si dice nel Secondo autoritratto notturno di Se fossimo immortali (2006)
“Cerco la mia casa”, spiega ansiosamente, quasi a volersi giustificare per il suo ardimento. “La mia casa era ai piedi di una strada in salita / e in cima una porta grande di pietra”. Sa dov’era e quanto arduo fosse abitarvi: al cospetto di un emblema di luce e di armonia, la Porta (quella che ad Elea “divide giorno e notte”, secondo il “venerando e terribile” Parmenide), la stessa, forse, ora serrata (cfr. ”Meditare davanti a oggetti chiusi / l’apertura del mondo”, in Maddalena, nell’incipit di Siamo appena figure), ora spalancata, alla cui guardia stazionavano “parole / che l’attendevano scalpitando” sempre in attesa di guidarla “verso un’altra lingua” (in L’altra, un libro attraversato tutto da lame di luce atterrita come “in una specie di fitto delirio eliotiano”, come in prefazione sottolineava Attilio Lolini).
Ma troppo tempo è passato, troppe stagioni umane hanno deluso e per sempre ridotto tutto a un infimo, “infinito inferno” di “cose distrutte” e impossibile le è ritrovarla e riconoscerla.
Per questo, in un siffatto paesaggio di rovine, ci si chiede che senso abbia la sua ricerca. E quale bisogno la spinga, lei che è una “morta”, a cercare ancora una dimora, diventata “fango / tra il fango”.
“Cerco la mia casa”, nel segno di un riacquisto di “luce”, lei insiste: quasi che casa e luce siano, come sono, la stessa cosa, nell’ordine snervante del tempo (“Ad ogni tremito passano i secoli”, Siamo appena figure, in Teatro della luce), schiacciato sotto “il peso doloroso del paesaggio”.
Forse lei che “non attende / segni dall’alto e dal basso”, cerca affetti, cerca tracce del suo passato e le scova dall’”intimo del mondo”, per appropriarci del titolo dell’intera silloge: dal mistero di una solitudine essenziale in cui fioriscono parole necessarie.
O forse è di essere riconosciuta o di riconoscere, sentire un luogo, quel luogo, come il suo proprio, che lei ha bisogno: di riconoscersi in esso e di mirarlo come lo spazio familiare della sua esperienza, al di là del tempo. Una cosa impossibile. Agli umani non è dato guardare il cielo se non soltanto per illudersi, per “indovinare / figure nelle nuvole alte”, senza aspirare ad altro, non concependo altra prospettiva se non quella di riconsegnarsi alla “polvere”, a quel simbolo cioè di morte da esorcizzare vanamente nel canto, come si diceva in un testo di Gioia piccola (1999).
È in questo silenzio, dinanzi a questa “polvere” e dinanzi a una “porta” che separa e unisce, si spalanca una prospettiva astrale, infinita: “parlerò solo alle stelle”, proclama all’inizio dell’ultimo poemetto, Perseidi, ed è la promessa di un canto che non chiede ascolto umano, di un canto che ambisce a ricostituire la scena primaria dell’invenzione stessa della vita, della propria vita (“Io ipnotizzo le stelle / loro ipnotizzano me / allargando allo spasimo / le mie pupille umane”), come in un idillio del siracusano Teocrito o in un’ecloga virgiliana, con la coscienza che carmina vel caelo possunt deducere lunam, che cioè il canto può operare l’impossibile, perfino tirar giù dal cielo la luna.

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Leopoldo Attolico – Si fa per dire

Pubblicato il 20 novembre 2018 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

Via Laghetto 2 – Milano

30 novembre 2018 – H 17,30

Associazione Culturale Milanocosa
con la collaborazione di Marco Saya Edizioni

presenta
A cura di Adam Vaccaro

SI FA PER DIRE
Tutte le poesie, 1964-2016
di
Leopoldo Attolico
(Marco Saya Editore, 2018)

Il libro di una vita di passione per la scrittura
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Dialogano con L’Autore
Vincenzo Guarracino e Adam Vaccaro

Scarica la locandina

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Info:
ChiAmaMilano – Via Laghetto 2, www.chiamamilano.it – negozio@chiamamilano.it, T. 0276394142 Associazione Culturale Milanocosa – www.milanocosa.it – info@milanocosa.it – T. 3477104584

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KEMENY – BOOMERANG

Pubblicato il 7 ottobre 2018 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Tomaso Kemeny
BOOMERANG
Edizioni del Verri, Milano 2018
pp.67, 15,00 e.

È bipartita, divisa com’è in due parti, tematicamente e stilisticamente, ma soprattutto moralmente, la più recente raccolta poetica di Tomaso Kemeny, Boomerang: con la prima, Ghost poems, che chiama in scena, nel “notturno abbaglio” del “cuore del silenzio”, la letteratura, sotto le spoglie dei “fantasmi” di oltre una ventina di poeti della contemporaneità novecentesca, tutti italiani tranne uno (Dylan Thomas), da Bertolucci, a Montale, da Luciano Erba, a Sanguineti, a Dino Campana, a Fortini, e giù giù fino a Zeichen e ad Amelia Rosselli, “poeti inquieti” evocati quasi a mo’ di sfida al lettore, fissati ognuno in un detto o in un vezzo memorabile; con la seconda, invece, Voci, che chiama in causa un “caos” di “voci ineguali del mondo” animate solo dalla “forza del sogno”, una gran folla (meglio, un Coro) insomma di personaggi che, come si dice nel primo testo introduttivo, reclamano il diritto di parlare in virtù dell’”energia della loro immaginazione” che si sprigiona dalla loro vita e dai loro versi, riverberandosi come “corrente di energia” sulla vita dei loro fruitori al di là del breve tempo della loro esistenza.
Letteratura e vita, dunque, quello che Kemeny nel suo dittico con la forza espressiva che gli è consueta propone definendo in nome di un’esigenza di memoria un sistema valoriale estremamente variegato a riprova di quanto entrambe reciprocamente si giovino e incidano nel processo di avanzamento della civiltà, sul teatro dell’eterna lotta tra Bruttezza e Bellezza, tra Costrizione e Libertà: come dire, un tributo da un lato alla letteratura, dall’altro alla speranza, a un sogno “impossibile” di crescita culturale e morale costruito attraverso la poesia.
Così nel primo dei due elementi, nei Ghost poems, è sorprendente come la presenza metabolizzata ed evocata di poeti anche molto distanti e caratterialmente eterogenei (si pensi, ad esempio, a Fortini e Sanguineti, ma anche a Pasolini) funzionino, sotto il segno della “différence”, come emblemi di una concezione in cui “tout se tient”, di un tutto armonico in cui pensiero e linguaggio, sogno e realtà, si integrano e collaborano ognuno per la propria parte.
Nel secondo, invece, quel che si compone per lacerti e bagliori è una sorta di nerudiano “Canto generale”, un canto di “eroi” che strappati brutalmente dalla vita (come Radnoti Miklos e Garcia Lorca) si rivelano oggi e sempre in grado di alimentare ancora “sogni e speranze degli uomini giusti” e di indirizzare “l’eterna lotta / contro l’ingiustizia” e la “disorganizzazione morale del mondo”. E’ questo, una sorta di Spoon River, che troviamo qui, nel poemetto Voci, dal grande empito civile, fissata in figure di grande forza suggestiva (esemplari, Camus, Rosa Parks, Luther King), che hanno sventolato il loro vessillo in nome di una umanità nuova, fondata sui valori della fratellanza universale.
Un’immagine, essenziale ma emblematica, per concludere, l’apparizione di Gabriele D’Annunzio, a riprova della poetica del Kemeny, espressivamente e moralmente votato alla poesia come “azione”: “I miti forgiati di terra / d’aria, di acqua e di fuoco / e di furente passione / trasformino la vita delle genti / seguendo la corrente d’energia / metamorfica che dal presente / muove verso l’ignoto / chiamato futuro”.

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Roberto Sanesi: “Ho sognato la vita…”

Pubblicato il 20 settembre 2018 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

“Ho sognato la vita…”
(Rapporto informativo, I, 1966)

Vincenzo Guarracino

Roberto Sanesi nasce il 18 gennaio del 1930, a Milano, da una modesta famiglia di origine pratese (il padre, Angelo, è infatti un restauratore di mobili), che si era trasferita nel capoluogo lombardo in cerca di migliori condizioni di vita e di lavoro.
Durante l’infanzia, si appassiona precocemente al teatro. Come in seguito racconterà, il rinvenimento in casa del nonno di un numero considerevole di libretti d’opera, alimentano in lui il gusto per la lettura e successivamente per la scrittura: “A furia di leggere libretti d’opera mi aveva preso l’idea del teatro. Avrò avuto sette o otto anni quando passai un’estate a Galciana nella parrocchia del prozio Arturo. Nel pomeriggio andavo in fondo all’orto e davo inizio a un dramma, per lo più di cappa e spada”. È proprio il prozio Arturo, parroco di Galciana, un paesino non lontano da Prato, a incoraggiarlo e guidarlo alla scrittura: “Sotto un gazebo nell’orto della parrocchia, al tavolo di pietra, in certi pomeriggi estivi trafitti dal ronzio delle vespe in sospeso su certe susine claudie o damaschine quasi completamente sfatte, fingevo di scrivere drammi cavallereschi. Lo zio Arturo mi veniva alle spalle, leggeva, mi diceva che non potevo limitarmi a far entrare in scena il Conte di Vallombrosa lasciandolo in silenzio. ‘Sennò non succede mai nulla’”, confida in una nota commossa alla poesia Lo zio di Galciana (nell’antologia L’incendio di Milano e altre poesie, 1995).
Nel ‘42, in conseguenza della guerra, assieme alla famiglia ripara a Prato, dove resta fino al ‘45. Risale a questo periodo una passione precoce per la poesia, solo per pudore qualificata come “artificio inutile” (in Rapporto informativo, II, 1966), che si traduce nella composizione di testi che rivelano un talento già promettente. Di questi, alcuni confluiranno nell’antologia Poeti italiani contemporanei, curata nel ’47 da Pietro Bernardini e pubblicata a Rovigo; altri, invece, si ritrovano nella raccolta Ora vorrei che l’angelo, pubblicata postuma, nel 2002, a cura della moglie Anita, presso le edizioni Il Bulino di Roma, con incisioni di Mario Raciti.
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PER RODOLFO DI BIASIO

Pubblicato il 23 agosto 2018 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Rodolfo Di Biasio
Mute voci mute
Ghenomena Poesia, Formia 2017
pp.23, 8,00 euro

PER RODOLFO DI BIASIO

Ancorché schivo e appartato, Rodolfo Di Biasio gode di sinceri estimatori in Italia e all’Estero. Autore di numerosi libri di versi, di racconti, di un romanzo, oltre che di un’autoantologia poetica, Altre contingenze, che raccoglie e condensa i testi pubblicati dal 1958 al 1995, tradotta in inglese (da Barbara Carle, per Gradiva, 2001) e in spagnolo (da Emilio Coco, per Sial, 2008).
Io l’ho seguito da diversi decenni, apprezzandone, da sempre, lo sguardo severo e sereno sulle cose delle vita e sul mondo circostante (penso in particolare a Poemetti elementari, 2008), riscontrando la sua coerenza nel non sottrarsi mai alle responsabilità di far testimoniare alla parola letteraria le sue idee e il suo impegno civile e morale.
È in questi termini che si propone ancor oggi in questa sua ultima, breve ma succosa, fatica, il poemetto Mute voci mute, che, raccogliendo testi anche non recentissimi, nella conclusiva nota che correda le tre sezioni, La guerra, La fame, La peste, ci dà conto con un preciso rimando memoriale del filo della sua vita di uomo prima ancora che di scrittore, all’alba dei suoi ottant’anni: “Ho insegnato storia per tanti anni ed ho cercato di far cogliere ai miei allievi il dolore della storia… Il poemetto vuole essere una laica dolente meditazione su questo dolore”.
“Raccontare” il bene e il male della vita, come dice esplicitamente nel terzo dei tre testi, diventa così una scelta di moralità, una pratica di scrittura da operare con determinazione e senza compiacimenti retorici e lenocini culturali, a contrastare lo scadimento verbale ed etico da cui è afflitta la nostra esistenza quotidiana, come si evince subito anche dai versi d’apertura della sezione La guerra: “La mia scoperta del mondo / è legata ad una ragnatela di morte / che la Guerra, ai bimbi / si addice la maiuscola, / mi tesseva nei giorni / una stagione che mi cucì addosso / una seconda pelle di malinconia / mi velò il sorriso degli occhi / mi curvò le spalle / Il suo vento la sua furia ancora / s’accanisce a farmi tristi / nei giorni, nei miei giorni tutti, / le cose belle della vita…”.
Per “riscrivere” insomma la storia da un’altra prospettiva, per risarcire con la parola poetica “i morti” di cui la guerra “lastrica…/ il fiume” dell’esistenza individuale e collettiva, contrastando la “peste” che in senso traslato e metaforico l’assedia (“La peste è dell’anima / vi si annida / vi scava purulenti anfratti / e apre a un tempo malcerto / Né giunge a segno / la parola salvifica”): ridare voce e forza, dignità, alle “mute voci mute” delle vittime che chiedono “udienza” e attendono non una “sterile pietà”, bensì un ascolto, un empito di commozione, tale da tradursi e realizzare un “sogno” di “luce” e di fraternità.
“Vengo da un tempo / in cui non ebbi / la mia porzione di carne e di latte / Vedevo negli occhi di mia madre / la pena per i figli”, dice nell’incipit della seconda sezione, La fame, e si capisce da questo, come dai precedenti esempi riportati, come la voce di Rodolfo sia una voce che vuole raccontare senza indulgere a patetismi, senza fare dell’elegia un momento di puro appagamento letterario: scarno ed essenziale, di un’asciuttezza davvero esemplare, protetto da una moralità direi montaliana, non per commuoverci ma per ammonirci e metterci in guardia. “Una laica dolente meditazione”, davvero, per sé e per gli altri: ma senza assurgere a un rango di maestro, proposta in una forma affabile e commossa, su registri che sono quelli da sempre adoperati, dando voce a un’intima esigenza di canto, intrisa di pietas.

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Roberto Sanesi, poeta del secolo scorso

Pubblicato il 20 ottobre 2017 su Eventi Suggeriti da Maurizio Baldini

Giovedì 26 ottobre a Milano un grande evento:

la Presentazione del volume saggistico e antologico

curato da Vincenzo Guarracino

Giovedì 26 ottobre ore 17,00

Milano, Galleria Montrasio Arte

Via di Porta Tenaglia 1

Presentazione del volume saggistico e antologico

Roberto Sanesi, un poeta del secolo scorso

puntoacapo ed.

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All’interno della mostra “Roberto Sanesi. Dialoghi con la Fenice”

Partecipa il curatore Vincenzo Guarracino

Interventi di Ottavio Rossani e Adam Vaccaro

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