Poesia

Incontro con Paolo Valesio

Pubblicato il 27 gennaio 2020 su Eventi Suggeriti da Adam Vaccaro

Blog di Donatella Bisutti

Invito Incontro Paolo Valesio

Cari Amici,
il prossimo mercoledi 5 febbraio alle ore 17e 30 avrà luogo alla Sormani Sala del Grechetto un incontro importante. Verrà a trovarci da Bologna il professor Paolo Valesio, professore emerito della Columbia University e presidente del Centro Studi Sara Valesio, nonché direttore della prestigiosissma rivista internazionale Italian Poetry.

Ma in questo caso Valesio viene in veste di Autore di due raccolte poetiche, una delle quali, Il servo rosso, edito da Puntoacapo, è stata curata da un’altra importante studiosa, che sarà anch’essa presente, la professoressa Graziella Sidoli, che vanta un curriculum internazionale. Tra i relatori, oltre a me, anche Tomaso Kemeny e Adam Vaccaro.

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Tra Lampi e Corti – Presentazione Roma

Pubblicato il 23 dicembre 2019 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

Biblioteca Nelson Mandela

Via La Spezia 21 – 00182 Roma

Giovedì 9 Gennaio 2020 – ore 17,30

Donato Di Stasi e Francesco Muzzioli

in collaborazione con Associazione Culturale Milanocosa

presentano

Tra Lampi e Corti

di Adam Vaccaro

Marco Saya Edizioni

poesie tra fotografia e cinema

La ricerca di Adam Vaccaro focalizza con questo libro due forme espressive che caratterizzano l’epoca moderna, traendone per la propria poesia comunicazione e pensiero critico,

attraverso lampi di immagini e brevi narrazioni dell’epica del quotidiano ignoto.

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Anticipazioni – Vincenzo Mastropirro

Pubblicato il 15 dicembre 2019 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
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Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Vincenzo Mastropirro
Inediti
Con una nota di Laura Cantelmo
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Nota dell’autore
Ho ricevuto in eredità da mia madre, la sua lingua: il dialetto e i suoni che ho dentro e che sono riuscito fin ora a sbrogliare da questo gomitolo di parole. Poi ci sono le note e quelle me le son prese da solo. Non sempre riesco a scindere la forma linguistica da quella sonora e intercambio la riga al pentagramma a seconda del momento. Probabilmente faccio quello che fa ogni buon contadino, raccolgo quello che prima la terra mi offre. Ho scritto prevalentemente in dialetto, ricevendo apprezzamenti e stima di molti amici poeti e critici letterari ma, non sempre utilizzo la stessa modalità stilistica. Qui ho deciso di proporvi alcune poesie in italiano e una in italiano/dialetto per la mia innata curiosità di bambino. È impossibile prescindere dalla mia formazione musicale, si ritrova nella metrica ed anche nei contenuti di queste liriche, ma…sono un “poemusico” e per me, sia in italiano che in dialetto, ogni parola ha il suo suono poetico e, come amante della “bellezza”, cerco di esaltarla in qualunque forma in cui essa mi sia concessa.

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Quinta vez-Maria Pia Quintavalla

Pubblicato il 11 dicembre 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Nei cerchi sonori del materno
Quinta vez, di Maria Pia Quintavalla, Stampa 2009, Azzate (Va), 2018

di Luigi Cannillo

Stamane, mi sono svegliata già stanca e un po’ agitata come da un sonno duro e senza pace, e avrei voluto parlare con te, madre:
mi sento così strana senza il nostro telefono senza fili, che quei fili ho cercato amorosi nel buio, per un po’, senza trovarli.

Intanto risentivo la tua bella voce sensuosa avvolgermi, e un po’ solare, ma l’aria pareva potesse smarrire quei tesori se non li afferravo presto, come quel tuo ondeggiare lieve.

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Anticipazioni – Francesco Macciò

Pubblicato il 30 novembre 2019 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
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Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Francesco Macciò
Inediti
Con una nota di Luigi Cannillo

Nota dell’Autore
Si lega a doppio filo con la nostra vita, la poesia, la abita e ci chiama per condurci chissà dove, a rinominare le cose, a illuminarne il lato oscuro o sfuggente. La precisione, ovvero insistere su un punto circoscrivendolo e descrivendolo, talvolta anche minuziosamente, credo sia un modo per avvicinarsi all’oscuro di ogni sostanza. Ma è una precisione che sfiora l’evanescenza, la sospensione, l’attesa di un accadimento sempre ulteriore a una nuova attesa. È sempre la poesia a scegliere, a far sentire la sua voce. Quando si scrive in versi si è spinti da necessità: accerchiati da immagini e parole, ci si mette in cammino, non si sa su quale strada, ma se la strada è sbagliata immagini e parole anziché trovare dei varchi tornano indietro. Mai come oggi il destino della poesia sembra coincidere con il destino di Orfeo, il cantore fatto a pezzi dalle Baccanti, che non cesserà mai di cantare. La sua testa staccata dal corpo non muore, ma è trasportata dalla corrente di un fiume sulla lira (l’unione indissolubile di parola e musica) e giunge fino al mare. La poesia dunque è sempre in movimento e fa sentire la sua voce irrevocabile. Ecco, da un lato il miracolo di una testa divisa dal corpo, sospesa sulle corde di uno strumento musicale che naviga in mare aperto e rivendica col canto l’eternità della poesia, dall’altro l’orrore di un corpo straziato, a ricordarci simbolicamente la nostra civiltà, disgregata, abbruttita, separata da sapienza, bellezza, poesia. La scommessa non riguarda tanto il destino della poesia e la sua sopravvivenza, quanto piuttosto la possibilità di ritrovare un corpo capace di accoglierla

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L’infinito Leopardi

Pubblicato il 25 novembre 2019 su antologie da Adam Vaccaro

L’infinito Leopardi

di Stefano Lanuzza

Nell’Antologia
POETI PER L’INFINITO, a cura di Vincenzo Guarracino
Di Felice Edizioni, 2019

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”…: è l’incipit che contrassegna e fa volare i quindici endecasillabi sciolti dell’Infinito, dodicesimo dei Canti inclusi nella raccolta degli Idilli (1826) leopardiani dove la tendenza lirica romantica si fonde con una volontà realistica che contraddice l’introspezione puramente contemplativa e perfino arcadica troppo a lungo attribuita al poeta dalla critica idealistica.
L’Infinito, nella versione originale marcato con una I maiuscola che tuttavia non vuole suggerire un’interpretazione per così dire metafisica del testo, è composto negli anni 1818-’19 dal ventenne Giacomo Leopardi, “giovane” detto “favoloso”, prima del regista cinematografico Mario Martone nel 2014, da Anna Maria Ortese: “Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme, da cento anni, il giovane favoloso” (Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi. In Da Moby Dick all’Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte. A cura di Monica Farnetti, Adelphi, 2001).
La celebre poesia evoca un luogo di meditazione, il prediletto colle solitario, e una siepe che impedisce la vista dell’orizzonte segnando un confine oltre il quale regna l’arduo inconoscibile. Allora, fluente verso “interminati spazi e sovrumani silenzi”, resta la soccorrevole immaginazione, altro nome della poesia che Leopardi sempre volge in libera ricerca conoscitiva.
Spazi e silenzi inquietano l’animo del poeta e, non senza un orrore subito acquietato, gli fanno meditare sull’eternità coi suoi silenzi incommensurabili, sulle “trascorse stagioni” e “la stagione presente”, un realistico ‘qui e ora’ risonante dello stormire di piante carezzate dal vento che ha voce di un “infinito” eterno e indeterminato a colmare di sé ogni pensiero.
“Io nel pensier mi fingo” (con senso ben diverso da “Sogni e favole io fingo”, 1733 ca., del melodrammatico Metastasio); “ma sedendo e mirando” immagino e m’inabisso come a toccare, appunto, l’infinito stesso: “ove per poco / Il cor non si spaura”. È un pensiero che pure soavemente abbandonato al “mare” dell’“immensità” non per questo smette di essere lucido e di sciogliere la propria struggente aura lirica nell’attenzione per il mondo e l’umano destino, ossia con la verità intera della realtà mimesi della spinoziana ‘natura’ o laica e cogente ‘sostanza infinita’.
Ora, a ben due secoli di distanza dalla sua composizione, l’idillio leopardiano viene da Vincenzo Guarracino, uno dei maggiori studiosi dell’opera del recanatese, affrancato dall’entropia museale dei libri scolastici e, nell’antologia Poeti per l’infinito (Di Felice Edizioni, 2019, pp. 186, € 20,00), assunto quale misura di paragone dell’influsso esercitato sulla poesia italiana più recente.
È – osserva Guarracino – una trama di sorvegliate suggestioni o l’evocazione di una “memoria segreta e sotterranea” quella intessuta con le prove di cento poeti secondonovecenteschi presso i quali si assiste a una “riemersione” che fa “assomigliare” L’Infinito “a una sorta di carsica vena inesauribile, una memoria segreta e sotterranea che s’impasta e struttura con l’idea stessa di poesia”: qualcosa che, perlappunto, ha a che fare con l’indefinibile infinito.
‘Sottotesto’ risonante di echi, palinsesto ‘raschiato’ per far emergere sodali genealogie, emulazioni e simulazioni, L’Infinito appare un vivo “archetipo” per una conoscenza comparatistica en poète, ampio luogo di pluralità e metamorfosi confluenti in “un catalogo che convoca ed esibisce testi di autori che oggi vivono ed operano scrivendo il loro esserci nel panorama morale e civile di questi anni” in nome di “un’esigenza di parola” che continua ad avere in Leopardi l’inobliabile maestro e testimone.
Sono versi di agonistico quanto discreto confronto quelli che Guarracino aduna nel suo florilegio da cui si estraggono, qui, alcune campionature; con brevi versi trascelti a rappresentare un accordo e, talvolta, un’intima declinazione dei versi dell’Infinito…: “E in questa immensità / annegava la mia mente, pensando i confini del pensiero” scrive Alida Airaghi. Sono versi – commenta Guarracino – per affermare come sia “nel segno della solitudine, della ‘magia di ore solitarie’ che si scrive”. Mentre per Baudino, che modula la condizione di solitudine vissuta dal poeta dibattuto “fra luce e ombra”, l’infinito somiglia a un navigare “nella notte”; Brancale: “sia siepe o colle, / uno sbocco nell’orizzonte immenso”. Ciò – spiega Guarracino – attraversando “la siepe, il colle, l’orizzonte, il mare e poi il vento, le piante, lo stormire, il naufragio […]: quanti segnali a punteggiare la devozione del testo all’archetipo leopardiano!”; Cajani: “l’infinito porta l’eco della fiducia / distrutta nell’età che corre”. Col poeta che, tra impressioni di paesaggio, “insegue un sentimento oltre (e nonostante) ostacoli e difficoltà, la ‘siepe’ di un oggi senza qualità”; Giuseppe Conte: “… Cerca, esplora // tutte le vie del finito”. È inesausta la ricerca del poeta, la sua “‘fame’, quasi fisica” di sfidare “la propria condizione di ‘cecità’ con la felice smemoratezza e ‘leggerezza’ del suo canto”; Claudio Damiani: “lascia correre il tempo dentro di sé / e si apre l’infinito”. Senonché il poeta prende a farsi “rincorrere ‘all’‘infinito’ senza mai lasciarsi veramente catturare”; “Sempre cara mi fu questa spianata” svaria Antonio De Marchi-Gherini, “il quale legge nella filigrana dei versi leopardiani il proprio paesaggio fisico (il lago di Como)”; “Sempre ritorni tu sull’ermo colle / a questa siepe che nessuna parte / dell’ultimo orizzonte ormai esclude” sembra celiare Antonio Donadio con “una riscrittura divertita tra umori e veleni che si intuiscono lievitanti tra le pieghe dell’archetipo”; Alba Donati, consegnandosi a uno spazio-tempo tutto interiore: “… io a questo mai visto, / paesaggio appartengo tutta intera”; “Buio agli occhi. Vertigine” davanti all’indifferente infinito, immaginato oltre la realtà – appunta Marco Ercolani. Perché – rileva Guarracino – “il reale, ciò che si vede, è sostanzialmente una questione di ‘immaginazione’ […,] innescando un’avventura creativa destinata a un ‘naufragio’ essenziale”; Luciano Luisi: “Fin dove giunge lo sguardo”; intanto che – svela Elio Grasso – “Su questa collina / troviamo un’altra siepe, / un secondo orizzonte / che occupa il nostro sguardo”. Un luogo, la collina – commenta Guarracino – “di impensate risorse, consentendo di osservare oltre una ‘siepe’ continuamente risorgente ‘orizzonti’ sempre nuovi”; Dante Maffia: “… la violazione della siepe leopardiana”. Ché la statica “siepe” è “da oltrepassare (da ‘violare’) come scelta, come atto rivoluzionario di affermazione di sé”; Maugeri, traguardando le prospettive temporali: “… questo spazio d’aerei limiti…”; Rino Mele, con riflessiva requie: “Sempre più mi perdo”; Alessandra Paganardi, drammaticamente: “… ho sospettato l’infinito / e quanto può far male”; Renzo Paris, senza idillio e con lucidità: “in un pianeta dove il futuro sono / le morte stagioni e la presente / che è già materia di ricordo”; Ruffilli, indagando con sguardo speculativo: “Quanto dista, / si chiede dalla siepe, il mero fatto”; Adam Vaccaro, “sognando l’infinito”; e Silvia Venuti, gravitante in una quotidianità non scevra di attese: “Lì sostare, per intuire / segni d’Infinito”… Peraltro, “L’infinito quotidiano” è anche il titolo di una raccolta di versi del 1973 di Ennio Cavalli.
Come suggerisce Cavalli, in fondo, il sentimento dell’infinito, lungi dall’apparire come una condizione spirituale oppure metafisica, o solo cervellotica, riguarda soprattutto la vita materiale quotidiana e il desiderio mai sopito perché signoreggiato dall’immaginazione che, non limitabile dentro campi precostituiti, col suo carico di speranze, disperazioni, inganni e chimere pervicacemente s’innesta nell’umana esistenza.
Con puntuale adesione al cuore profondo della poetica leopardiana e moderna coscienza critica, Vincenzo Guarracino, nel suo saggio introduttivo Dentro l’infinito, tiene soprattutto a esprimere, pressoché segnalando un viatico non consolatorio per i poeti da lui scelti e per coloro che alla poesia possono ancora oggi fare malgré tout affidamento, che “l’esperienza della poesia, di ogni poesia, è l’esperienza di un nulla che interviene nell’attimo del pensiero, di quel pensiero che dice non senza impagabili sforzi, io sul crinale di un abisso”.

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Anticipazioni – Liliana Zinetti

Pubblicato il 15 novembre 2019 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
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Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa

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Liliana Zinetti

Inediti 2019
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Con un commento di Adam Vaccaro

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Nota dell’Autrice
Sì è parlato, si parla tanto della poesia che il rischio di cadere nel risaputo è alto. La poesia si fa, semplicemente. Sempre al limite, sfidando i nostri limiti, a un passo dall’abisso. Si fa per amore, per sentire e per sentirsi.

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Il Ventilabro di Francesco De Napoli

Pubblicato il 12 novembre 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Francesco De Napoli, VENTILABRO-Scotellariana

Graphisoft Edizioni, Roma 2019

Questo libro di Francesco De Napoli è un denso poemetto che prova a tradurre in versi la terra desolata, esteriore e interiore, focalizzata da un punto di sguardo posto nel Sud. Ne deriva una forma di lucida dolorosa denuncia civile interconnessa a una mancata paideia – nome e stella polare della Rivista e del Centro Culturale di Cassino, che l’Autore dirige da decenni – che purtuttavia è valore di una funzione formativa imprescindibile, assegnato all’esercizio letterario in genere, e al poiein in particolare. È il valore centrale che diventa fonte di forma, esplicitata da titolo e sottotitolo.
Ventilabro era la pala di legno usata dai contadini per ventilare il grano e separarlo dai residui superflui – metafora e simbolo dunque della capacità umana di distinguere valore e disvalore, trasmessa dall’esperienza della coltura della terra, radice di una cultura che con tutti i suoi limiti riusciva a tradursi in una koinonia antropologica, non arresa alle folate distruttive del vento della storia. È una concezione nel solco dei maggiori poeti moderni – da Leopardi a Eliot –, alieni da purezze parnassiane e intimismi spirituali, che coltivano una forte connessione con l’interesse collettivo degli ultimi, da cui possono derivare tensione a mettere in comune entro, appunto, la visione di una funzione formatrice.
Il sottotitolo richiama Rocco Scotellaro, modello espressivo radicato nel territorio di cui si fa voce e pensiero critico tutt’affatto localistico. De Napoli ne trae magistero e linfa per aprirsi a una riaffermazione dei più alti valori antropologici, attraverso una lunga serie di Voci rimaste pressoché inascoltate, qui evocate e incastonate nei versi con cognome e nome – Fortunato Giustino, Martino Antonio, Levi Carlo, De Martino Ernesto, Silone Ignazio, e Popia Antonio, Sinisgalli Leonardo ecc., per citarne alcuni – a imitazione delle elencazioni burocratiche e della relativa lingua ingessata. Che però dal testo viene denegata e ribaltata in sensi opposti, rovesciandone i moduli come una clessidra.
È un filamento delle scelte di stile di questo testo, che punta il dito sul linguaggio formalistico di chi ha gestito in modi ignobili la vicenda storicosociale italiana negli ultimi decenni. E articola una trama che conduce alle devastazioni di cui il testo fa come un inventario-rendiconto di quella che opportunamente è stata qualificata una catastrofe antropologica. Uno sbocco che non è piovuto casualmente dal cielo, ma ha padri e madri terreni, eroi del trionfo ideologico e finanziario del modello globale neoliberista.
Riuscire a dare forma di canto a temi che abitano poli come quelli suddetti è la scommessa difficile, su cui si è misurato Francesco De Napoli con questo poemetto – ma anche, peraltro, in tutto il suo percorso espressivo, Estraiamone qui alcuni stralci esemplificativi:
“La terra noi consumiamo da protervia/ infame appagati, indegni e vili mietitori,// dissipatori incauti di memorie e valori/ senza espiazione né remissione”. Sono i primi quattro versi, che danno il là alla tessitura testuale, tutta in distici” (p.11).
“Difficile riconoscere/ / la mala pianta che ammorbati letarghi/ intacca d’innocenti votati alla mattanza/ … sui fianchi franosi del Vulture ferrigno”. “”Poesia inesauribile dei castighi e delle fughe,/ ogni traguardo pare inibito alla speranza” (pp.12-13).
Ma con “la mia brilla e languida lamentazione…/ Scoprii disfatte ma ostili le antiche radici” (p.15) a “le trame del potere e le spire della piovra” (p.22), “tra i pidocchi rumorosi/ del capitale,,, Rocco,/ prova tu a pronunciare il tuo nome” (p.23), in “rime/ d’un arcaico rivoluzionario sentire” (p.24).
Si dipana, insomma, e declama un cantico dei conti e del vento di un autunno avverso, che non può tacere e lancia appelli per una disperata ricerca di salvezza umana. Sia pure nella coscienza del proprio “inutile, pletorico e patetico…querelare gramo”, contro il “risolino ebete dei santocchi annoiati,/ l’ironia condita d’un perbenismo ricercato” (p.19).
Dunque, benché senza illusioni il poeta risponde, tra accenti di umiltà autoironica, alla necessità di testimoniare la propria resistenza e il suo rifiuto: “L’incoscienza del poeta non avanza né arretra” (p.23), alimentata anche dallo sguardo fascinato dalla sua terra di origine; “A strapiombo sul mondo sono i picchi e i dirupi/ del lucano Appennino: lassù davvero ti cinge// dell’universo il mistero. Avvinto fissi luna e stelle/ sinistre e confidenti, castigate e incombenti” (p.38).

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Cenacolo S. Eustorgio: Poeti ricordano Poeti

Pubblicato il 5 novembre 2019 su Eventi Suggeriti da Maurizio Baldini

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Anticipazioni – Alberto Figliolia

Pubblicato il 1 novembre 2019 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
Vedi a: https://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Alberto Figliolia
Inediti
Con una nota di Laura Cantelmo
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Nota dell’autore
Poetica? Che cos’è la poetica? E che dire della mia poesia? Per quanto mi riguarda mi accontento di fare poesia: scriverla e divulgarla. Che poeta sono? Sono un poeta? Preferisco che rispondano gli altri: coloro che mi leggono, odono o seguono. Per quanto mi riguarda mi accontento di sperimentare viaggiando nei giorni, esplorandone le arduità, le luminosità e gli oscuri anfratti.
Ecco, la poesia si annida dove meno te l’aspetti. Occorre scovarla, occorre scavare dentro di sé e osservare il mondo con eterno stupore e fiducia e amore. La poesia è nel cuore di ciascuno; la poesia è negli occhi degli ultimi. In questo io credo fermamente.

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