L. Falà

Rumore di fondo – Leila Falà

Pubblicato il 20 marzo 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Leila Falà Magnini, Rumore di fondo, puntoacapo, Pasturana (AL) 2023
Nota di lettura di Laura Cantelmo

Cos’è il rumore di fondo, se non un trambusto indistinto, un’interferenza nel nostro silenzio interiore, che vorremmo eliminare per cogliere i messaggi che ci vengono indirizzati e che ci sfuggono? In questa sua recente raccolta, Rumore di fondo, Leila Falà di quel rumore avverte il fastidio, ma allo stesso tempo lo ascolta, cercando di individuarne qualche suono positivo. Ed il rumore di fondo si può sentire solo se intorno vi è solitudine e silenzio. Un silenzio agognato, pur trovandosi in compagnia, perché la socialità, che dovrebbe farci sentire meno soli, in alcune circostanze è più fastidiosa del silenzio stesso e diventa percezione di un’assenza. A quel punto, benché in contraddizione con sé stessi, si desidera stare soli. (“Raddoppia”)
Attraversa questa raccolta, di ispirazione profondamente umana e al contempo filosofica, l’intento di rappresentare una realtà straniante vissuta come gravosa e allo stesso tempo di alleggerirne il peso con uno spirito giocoso, che sa acutamente parlare di seri problemi del linguaggio, inteso come specchio della civiltà attuale. Traspare dai versi una percezione di solitudine e di sconcerto che a sua volta si fa rumore di fondo, quasi eco di una moltitudine di cui l’Autrice si sente parte, ma con la quale la relazione non è facile. Tanto che la tendenza al divertito uso delle parole, al suo prendersi gioco di certe posture intellettuali che coinvolgono ormai tutti, non funge da antidoto, ma suona come cambio di registro di fronte ai temi di profonda natura che vengono trattati.
Partendo dall’analisi della comunicazione sulla base della linguistica saussuriana, l’Autrice fa del messaggio, inteso come lettura dei diversi segni della comunicazione, lo strumento per analizzare sé stessa e il proprio modo di porsi rispetto ad esso, nella consapevolezza che la parola e le altre modalità comunicative sono messe in discussione allorché ci si rende conto che, invece di favorire lo scambio, esse provocano l’isolamento.
Non a caso, nell’epoca dominata dalla comunicazione, che dovrebbe prevedere l’interazione delle idee e delle esperienze tramite strumenti che vengono definiti social, si assiste al risultato opposto, all’affacciarsi sul vuoto. Quel vuoto che, mutuando la definizione data dalla fisica, con una metafora chiameremo pneumatico, entro cui c’è il nulla assoluto.
Nell’intera raccolta la composizione dei singoli testi ruota intorno a termini semanticamente affini – vuoto, solitudine, silenzio. Sotto la forma di un diario personale con l’abile utilizzo delle parole, per il quale l’Autrice trova spunto nella sua attività di attrice, oltre che di poeta, si avverte lo smarrimento di essere coinvolta nel meccanismo della modernità, del consumismo, dell’alienazione, oltre che della techne. Diabolicamente trascinati in una connessione che paradossalmente nega il proprio ruolo – cum /nectere – ci ritroviamo nell’isolamento. A tal punto che la parola, termine derivante dal latino medievale – parabula – si svuota della propria originale ricchezza polisemica per mutarsi in elemento stereotipato, quindi sterile.
Per l’Autrice accade il contrario quando scrive poesia, dove la parola è strumento da “trascinare di qua e di là/ per un significato così al di là/…/ lei esisteva già/ a prescindere. / Mio, quindi.” (Sintetica lezione di metapoetica intorno allo scrivere versi, quello che tecnicamente si chiama “slittamento semantico” mediante cui il poeta attinge alla lingua comune e al proprio inconscio, individuando e connotando la sua personale parola.) (“Certo”).
La poesia, pur consentendo discorsi profondi sul rapporto tra arte e realtà, può dunque divenire anche campo da gioco. Con un provocatorio guizzo surrealista ispirato al famoso quadro di Magritte, Falà si lancia in una divertente parodia: “Questa non è una poesia./ Non ne possiede il ritmo/ l’afflato di immenso/…/ non è che fumo di finzione/ eppure non è del tutto un gioco/ …/ E non è/ neanche una pipa.” (“Non una poesia”): un piccolo gioiello di umoristica riflessione sull’arte, questo colto richiamo sottolinea la propensione dell’Autrice ad alleggerire una discussione teorica con il ricorso all’ironia. Contrapposto a quel testo, un altro sembra affermare il contrario: “Questa invece è una poesia “ed è, in fondo, l’espressione di un dubbio che nella sostanza non si discosta molto dal testo precedente.
Può anche capitare che la lingua poetica si coaguli in una girandola di lemmi tratti dal linguaggio comune – la langue saussuriana – trasformandosi in una sequenza di calembours: “L’oca langue/ langue d’oc/ lingua d’oca/ batte qua e qua/ sguazza e gioca//…/ Lingua di piuma/ che O-de Saussur-ra/ e si fa fioca/” (“Langue”). Per ritornare poi nei ranghi del racconto di sé, dei difetti personali dell’Autrice, della società e delle sue storture, tra le quali il linguaggio vacuo e amorfo dell’informazione, che non sa usare il tono e la violenza adeguati alla gravità delle situazioni. “Sull’orlo di questo precipizio”, indica che quel linguaggio asettico è sintomo e conseguenza dell’ignavia politica intorno al dramma del cambiamento climatico e alle tragedie ambientali e umane che ne derivano con i suoi “venti di tragedia” (“Sull’orlo”).
Tuttavia, “a sopire il vuoto” e la solitudine aiutano gli oggetti che acquistiamo, con cui stipiamo le nostre case – “i nostri resti” – nei quali “sento il tuo tepore”. Si svela così il doppio ruolo del consumismo, la sua funzione ambigua e consolatoria al tempo stesso: la critica sociale si muta in confessione intorno al nostro bulimico rapporto con gli oggetti. (“Oggetti”). Traspare qui l’atteggiamento ambivalente nell’Autrice che viene riproposto più volte – l’accettazione, obtorto collo, di alcuni aspetti positivi di una realtà che razionalmente si disapprova.
Infatti, pur nella lucida consapevolezza della degenerazione civile e culturale, perfino i luoghi comuni triti e inconsistenti – “pensieri quotidiani stesi ad asciugare”– a volte finiscono per essere rassicuranti. Affermazioni come “il cielo è sempre azzurro/ l’amore resta blu”, nella loro banalità, non sembrano porre questioni che pretendono risposte. (“Banale”)
Ma permane, insistente, la percezione del vuoto nel quale l’Autrice si sente immersa, facendone parte a sua volta – “Io e il mio vuoto siamo un tutt’uno/ solidali/ e ci facciamo compagnia// O forse dovrei dire che ci facciamo assenza”. In questo caso, coerentemente con l’ambivalenza dei suoi giudizi, se ne avverte il lato doloroso: “pur essendo vuota, sono sovrappeso. // Eppure, ai più risulto trasparente” (“L’involucro”). Benché, perfino nella ricerca di persone affini, capiti di incontrare “abissi differenti” (“Similitudini”), nel rumore di fondo è possibile individuare un suono amico – il battito del cuore – che melanconicamente e dolcemente ci tiene compagnia. Un battito la cui eco pare raggiungere anche noi, avvolti dalla stessa solitudine.
Perfino la Storia, come passato e memoria, quando affidiamo i nostri commenti a laconici post sui social, perde la sua ragion d’essere nell’eterno presente in cui sprofondiamo, Eppure nella Storia Falà si è trovata a vivere felicemente, come dice un ricordo di rivolte giovanili e femministe “dentro gli zoccoli/ nella ruota rivoluzionaria delle gonne/ respiravamo nella lingua degli abbracci/…/…nei discorsi dei nostri maschi antichi/ a cui non avremmo più concesso il potere/ di nominare solo loro il mondo con le parole giuste.” (“Anni delle rivolte”). Un ricordo che sa di gioiosa libertà e di amara disillusione, poiché i maschi “Ancora risiedono, forti e in parte misteriosi”, proprio come dopo una rivoluzione “mutilata”.
In tanta parte della poesia che in questi tempi viene scritta si rintracciano i segni di una lacerazione, della crisi di una civiltà che coincide con la crisi del singolo e la determina. Esiste qualcosa di indicibile, qualcosa che ci è stato per sempre strappato e che ci fa sentire monchi. Lo ritroviamo in passaggi estremamente toccanti – non a caso – anche in una poeta profonda come Falà: “Permane al fondo di ogni cosa/ non detta. Appare. Scompare. / Manca. Come fondo di caffè. /Che sia una parte di te? /…/Manchi tu a te stessa, mentre/ manca lo sguardo dell’altro/ senza giudizio./…/ Mancava sempre, anche quando c’era./…/ ti porta altrove, forse anche / a un aperitivo dove lei non c’è. / Tu, neanche.” (“Manca”). Avere il coraggio di affermare apertamente l’esistenza di quell’ignoto non detto che manca, mentre cerchiamo in noi stessi la quadratura del cerchio – noi che, insieme all’Autrice, siamo ben lontani dall’Uomo Vitruviano di Leonardo e dalla sua fiducia umanistica – significa che abbiamo perso il nostro cerchio.
Ci si ritrova messi a nudo davanti al mondo nel sentirsi strettamente vicini a chiunque, come Leila Falà, si riconosce inerme di fronte a quella indefinibile ferita e a quell’oscura afasia. Non possiamo fare a meno di commuoverci davanti a tanta schietta umiltà, alla sincerità nel confessare le proprie piaghe e le proprie contraddizioni, che permeano questa raccolta poetica.

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Anticipazioni – Leila Falà

Pubblicato il 15 gennaio 2021 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
Vedi a: https://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa

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Leila Falà

Poesie inedite
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Nota di lettura di Laura Cantelmo
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Nota poetica

Seguendo un consiglio di von Hofmannsthal, nel mio lavoro tendo a voler nascondere la profondità nella superficie. È la possibilità di parlare un linguaggio quotidiano, leggibile, che possa suggerire una profondità senza apparentemente volerla dichiarare. Sarebbe bello saper parlare a tutti e che la poesia potesse essere letta negli stadi. Ma la poesia che noi conosciamo e che sappiamo fare non è per tutti, è complicata, complessa, è ricercata. Ma di certo non ricerca un nesso con il grande pubblico. Forse spesso non è neanche interessata ad averlo. È dedicata in genere ad altri, molto simili a noi, a nicchie di ascoltatori che ci costruiamo.
Ha lasciato quel terreno di gioco ad altre forme, alla canzone, per esempio. O forse alla pubblicità.
La stessa cosa è successa col teatro, il teatro di ricerca e forse anche con altre Arti. Mi accontento quindi per ora di dire ciò che posso, di farmi spazio con la leggerezza che riesco a trovare, rimanendo tra le parole in uso. Cerco magari lo scarto, l’ironia che serve a stare nella doppiezza della realtà. E suggerire il resto, il profondo, a volte ineffabile, come la vertigine che ci assale quando osserviamo piu attentamente l’umanità e le cose.
E quanto accade loro.

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