Il sogno e l’utopia al vaglio del tempo
Laura Cantelmo
Mariapia Quintavalla, Estranea canzone, puntoacapo Ed. , Pasturana 2022
Torna a parlarci la poesia di Mariapia Quintavalla, grazie alla nuova edizione di Estranea canzone, poemetto dato alle stampe per la prima volta nel 2000. L’apprendistato poetico di questa Autrice registrava già allora un numero considerevole di opere ricche di giovanile freschezza e di interesse innovativo, caratterizzate da “perlustrazioni e rammentazioni di un’area cubofuturista e surrealista con connesioni nell’area della poesia italiana degli anni settanta” (A. Zanzotto, “Per una poetica di Mariapia Quintavalla”, in Nuovi Argomenti, 1994, nota critica che, successivamente integrata, ritroviamo nella prima edizione e anche nella presente).
Dopo un tempo che appare remoto dalla prima edizione, tanto da poter rendere brucianti le ferite della storia fino a stravolgere il volto di un’opera di invenzione di singolare novità, alla prova dei fatti la rilettura di un testo pubblicato una ventina di anni fa e oggi rivisto, afferma il proprio valore permanente nel percorso diacronico della ricerca di una nuova lingua poetica in quanto voce e sogno di un nuovo mondo.
A conclusione del romanzo in versi Le Moradas” (1996) che precede Estranea canzone, un canto intitolato “Prologo”, in cui ritroviamo lo stesso tessuto linguistico dell’opera in cui è inserito quasi a volere introdurre Estranea canzone, comprende una significativa dedica ”agli invisibili, fratelli e sorelle/ di generazione che non presero la parola”. La parola è dunque compito etico di chi quella parola è riuscito ad avere, potendola usare in nome di fratelli e sorelle. Un abbraccio fraterno ai senza voce che è di per sé elemento illuminante – respiro umano che connota l’opera. Il Canzoniere intitolato Le Moradas, intreccio di storia personale e di riferimenti ad Autori importanti per l’Autrice, come Antonio Porta e Franco Fortini, è momento significativo nella poetica di Mariapia Quintavalla in quanto anticipa e consolida il progetto di Estranea canzone, quello di costruire una visione del mondo e di dar voce ai sogni con una strana lingua inventata, antica e inedita.
Estranea canzone costituisce un passaggio più maturo, in cui il lettore non può che abbandonarsi all’invenzione linguistica evitando di decodificare il testo, mentre poco alla volta ne individua il racconto autobiografico che ha inizio nel luogo natio, Parma, l’Emilia del suo cuore, per procedere seguendo “il filo più forte ….quello del destino della poesia.” (Marisa Bulgheroni. Dialogo con Francesca Pasini, Circolo della Rosa e Libreria Tikkun, Milano, 2000). Ancora oggi esso sfida il lettore in ogni singolo testo, in ogni verso, quasi appartenesse a un codice linguistico a noi affine, sia pure rimodellato a sua volta in totale libertà. Tornano alla mente le dicotomie saussuriane, quali langue e parole, secondo le quali la Poeta, partendo dalla lingua nativa (langue), crea la propria personalissima e intima parole. Di cui, oltre a Bulgheroni, Pasini e Andrea Zanzotto, che ne hanno discusso dettagliatamente e con passione, anche Adam Vaccaro, in Le tracce e il luogo di Alice (Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, 2000) ci ha offerto illuminanti osservazioni.
Ci viene riconsegnato ora un poemetto in sestine avvolto in una atmosfera “agli albori del tempo”, che offre molti piani di lettura e intende proporre una lingua poetica attraversata dall’esperienza delle avanguardie del secondo Novecento senza averne subito interventi di carattere freddamente intellettualistico.
Ci si trova a navigare un fiume che sgorga dall’interno, la cui onda tiepida e contenta plasma un discorso franto e cadenzato, ispirato dall’irrefrenabile impulso creativo dell’inconscio – quello foco – che operando sul lessico, stravolge fonemi, inventa neologismi grazie all’uso di morfemi – prefissi e suffissi – fino a renderli radiante materia polisemica. Una ricerca che rifiuta l’inerzia del modello “significante/significato” della linguistica saussuriana, inventando in modo spiazzante un vocabolario del tutto personale. L’intento è di approdare alla forma canzone, composizione epico-narrativa consegnata alla storia dalla tradizione fiorita in Francia nel Medio Evo. “Chansons de gestes” che allora davano vita a un racconto in versi di gesta guerresche, in seguito acquisita dalla lirica italiana.
La canzone di Quintavalla è una autobiografia “tutto fratture e crampi” (Zanzotto) intrecciata con le vicende del proprio percorso letterario in un quadro storico che è il dato antropologico e politico di riferimento. Una dinamica elaborazione dei fatti dell’esistenza individuale che si identificano, contrastano o si fondono grazie a una passione poetica che mediante una nuova lingua intende rappresentare/prefigurare un nuovo mondo, non solo la poesia, cui offrire uno “statuto simbolico” inedito e universale: “la voce nuova non era scherzo, era cambiato/ il fulcro – nella vita e morte”. Il che avviene all’uscita di una giovinezza eternatura nella raggiunta consapevolezza della maturità, “nel mezzo del cammino”.
Diviso formalmente in X Canti, il poemetto procede per stazioni, come una via crucis, sottolineando in tal modo l’asperità del percorso. Allusioni letterarie attuali o lontane ne affermano con forza il sostanziale legame alla tradizione letteraria e in particolare ai poemi epici. In una delle citazioni ariostesche, che definirei creativa “le donne, i cavalier, l’armi, gli odori” il tono ironico o forsanche sarcastico svela l’intento innovativo rispetto a quella illustre tradizione. Nella parole di Quintavalla è proprio il termine canzone a dare avvio a ogni vicenda legata al destino della donna nella sua interezza e complessità intellettuale e biologica. Gli esergo stessi sono tratti da modelli di donne – Linspector, Zambrano – che hanno elaborato un discorso di liberazione di genere.
I versi iniziali, introdotti da puntini di sospensione, aprono a un’atmosfera atemporale, indefinita: “…è nello spirito…nell’onda/ tiepida e veloce ma contenta, nel/ tempo del risveglio che continua” – gioioso inno all’ispirazione che sgorga dalla raggiunta maturità. Per valutarne la densità di senso basterà, come premessa, analizzare il titolo. Il termine canzone implica una componente essenziale della poesia – il ritmo, la musicalità, il canto che saranno qui “nuovi”, mentre l’aggettivo estranea (da ex trahere, tenersi al di fuori da una tensione drammaticamente alienante e insieme liberatoria) nella poetica di Quintavalla va inteso nella sua duplice natura di aggettivo e di sostantivo. Se ne deduce che Lei, soggetto in terza persona della narrazione e del canto, si pone al di fuori dalle consuetudini letterarie e linguistiche formali e da un punto di vista esterno persino rispetto alla narrazione autobiografica. Infatti quel foco/quella incantevole scintilla la infiammano al punto da inducerla a elaborare il passato superando e rimodellando la lingua poetica nella morfologia e nella sintassi al fine di narrare, in una sintesi linguistica estrema, il passato e poter divinare il futuro (v. Marisa Bulgheroni, “Quali parole ci salveranno”, in Leggendaria 2001).
Sappiamo che la lingua si rimodula nel percorso storico ed ecco Lei, donna di un nuovo tempo, farsi voce/gola della nuova storia e affrontare con l’energia di una più sicura coscienza il compito di fornire la lingua per un nuovo futuro mondo nel quale la donna ha finalmente diritto di parola e di poesia.
E dove troviamo a un certo punto solo plurali femminili invece che maschili, è la Poeta stessa a liberare la lingua/canzone/poesia (i termini si fondono e si confondono) dai vincoli di una pesante tradizione patriarcale. Mano a mano si agglomerano i termini che rappresentano metonimie/sineddochi/ossimori, tant’è che la lingua diviene sempre più affermazione e profezia di un’era dove la donna in un tempo/zolla non più colonizzato può uscire dalla notte e cantare, arare improvvise tenere canzoni da balconate, (che altrove saranno finestre o balaustrate).
Lei
La seconda parte, più autobiografica, porta alla ribalta Lei, bambina agghindata e connotata dalle scarpette rosse nella nativa Parma e il suo successivo trasferimento a Milano l’elettrica, dove, dismesse le danzanti scarpette, la donna adulta incontra tutta una lucciolata di amiche vecchie e nuove – sorelle/canzoni (l’identificazione è chiara e ripetendosi spesso, sempre più rappresentativa della poetica) che allacciano relazioni, favoriscono un convito, mentre invece altri – fottuti – esprimono ostilità: “le ingiungevano tacere o meglio andarsene”. Sempre più estranea di fronte ai malevoli inviti della perduta gente ad abbandonare il nuovo percorso già segnato “là il moderno e qui il sicuro ridacchiavano”, con la ripetizione di termini come sola/solitudine, Lei manifesta eloquentemente il suo stato d’animo.
Le ardite invenzioni linguistiche si succedono con frequenti evocazioni dei poemi epici e con richiami ai poeti contemporanei più amati, come Sereni, Fortini, Bertolucci. Insieme all’ardore della creazione del nuovo, sofferenza e resistenza suggeriscono parole che hanno la solennità di storie sapienziali incise nella pietra, alla ricerca di un posto altura/intimo e transustanziato per abbandonare le fole e sedersi al convito quasi ignoto delle amiche dove si dicono parole astanti (da ad stare, essere vicino) per sognare un altro mondo privo di colonizzazione. Il termine astante è una delle misteriose parole chiave che attraversando il poemetto denota un’atmosfera di rispettoso ascolto e contiguità delle astanti, con una sottile venatura di deferente rispetto.
Il tema del materno, introdotto dall’esergo di Maria Zambrano sull’origine filiale della madre chiama in scena le Madri di riferimento (tra le quali la presenza non del tutto rasserenante della madre naturale). Il congedo che ne segue apre a nuove progettualità e utopie con l’irrompere improvviso della figura luminosa della figlia, agile Ippogrifo, un fascio di luce che rischiara il presente e lo rasserena, sfocando momentaneamente le inquietudini del passato. Dopo una fase di drammatica afasia e il timore di non potere più scrivere, Lei non avverte più la sua estraneità nella modalità che conosciamo.
Verso il finale una notevole rarefazione della sintassi, l’uso di agglutinazioni, di allegorie, sineddochi, metonimie, paronomasie accresce la funzione di strumenti retorici evocativi di una forte densità di senso.
L’excipit vede la Poeta, “arricchita” dalla nascita di una canzone il figlio, trovare, dopo quel foco che si accese, un seguito di intente giovani, rifacere la storia, eredi e testimoni del suo percorso umano e poetico.
Un’opera “aperta”, avrebbe detto Umberto Eco, che con raffinato sortilegio sollecita il lettore ad “atti di libertà cosciente” in prima persona. Un impegno attivo, creativo e interpretativo autonomo (Umberto Eco, L’opera aperta).
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