L. Cantelmo

Se ben ricordo – M;ariella Parravicini

Pubblicato il 30 gennaio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Mariella Parravicini, Se ben ricordo, puntoacapo ed., Pasturana (AL) 2024

Nota di lettura di Laura Cantelmo

Nell’abbandonarsi a Mnemosine – alla memoria – come si addice a una grecista, Mariella Parravicini ci dona questo poetico testo nel quale vibrano i toni sommessi e le sfumature di una voce narrante. Una vera phoné, piena di delicati sussulti, con le modulazioni di un racconto serale, prima di abbandonarsi al riposo, popolato da inconsapevoli sogni infantili e da comprensibili incubi, per gli adulti. Un tempo, durante il quale ci si scambiava pensieri e ricordi attorno ai camini o alle stufe, nelle terribili notti di quegli inverni di guerra, noti come i più freddi del secolo scorso. C’è la nostalgia di un’intimità ormai rara, che non vuole distruggere il presente, ma trova la forza di vederne i semi in quel passato, che certamente non fu rose e fiori. Di conseguenza la narrazione oscilla tra un passato felice e un presente malinconico, tra sogno e realtà.
Se ben ricordo è il memoir di una ragazza perbene (mi si consenta la citazione da Simone de Beauvoir). Un’esistenza normale, non propriamente banale, se consideriamo che i primi anni di vita attraversano la Seconda Guerra Mondiale, vissuti da lei, milanese, in campagna come sfollata, in fuga dalle bombe che radevano al suolo le città. Benché neppure lì fosse garantita la pace, la campagna diveniva uno spazio mitico per bambini, lasciati alla felicità di scorrazzare a perdifiato per aie e campi, alla ricerca di luoghi che la fantasia arricchiva e rendeva fiabeschi, mentre la corte – l’aia- era, per Mariella, “scenario delle mie emozioni e passioni”, il suo palcoscenico.
Un paese di pianura, nella Lomellina, al confine tra Lombardia e Piemonte, dove Mariella assaporava una felicità pura, lontana dagli orrori, possibile solo nella mente infantile, che si prolungò nel dopoguerra, per il periodo estivo. Lo sguardo di allora trova delle affinità con l’oggi, rivivendo intensamente il mito dell’infanzia, con arcane venature di sacro. Figure di nonne, di zie e zii che consentivano libertà impensabili in famiglia, a Milano: la Zia Rita “gemella eterozigota” della madre, dolcissima e ricca di una sua tranquilla filosofia, a differenza della sorella, più rigida e formale, “el Ziu Gasparin”, figura tipica delle campagne, ma non per questo scialba, emigrato in Sud America e al ritorno, silenzioso, nel suo mantello nero, frequentatore dell’osteria fino a ora tarda. Dominante, inavvicinabile e pieno di mistero, l’Autrice, turbata da quei silenzi, lo definisce “spirito divino della casa”.
E poi le campane, che oggi inducono alla malinconia perché segnale di lutti e perdite, invitavano al Vespro, celebrato con la grandiosità del canto gregoriano. La presenza dei Tedeschi, visti inizialmente come numi tutelari – le donne che li frequentavano alla fine del conflitto scontarono quella consuetudine con le teste rasate a zero, punizione riservata ai collaborazionisti., La proiezione in miniatura dei grandi drammi del nostro paese, dentro un paesino di campagna. Infine, la piazza, che di sera, nel dopoguerra, si popolava di crocchi di donne, a chiacchera, sotto nuvole di falene che danzavano intorno ai lampioni.
Persino la morte, inesistente per una mente infantile, era vista senza drammi. Nel dopoguerra, finanche i funerali di Gasparin offrirono una ammaliante spettacolarità, con le bandiere rosse sventolanti nel corteo funebre – perché lui era comunista- definizione a quel tempo incomprensibile per i bambini. Immagini ed impressioni che Mariella si porterà dentro, fino a quando, da adulta, individuerà nel teatro la passione della sua vita. Infine, il divertimento delle balere, dove si apprendevano i “codici intriganti delle danze”, avendo presente il monito della Zia Rita, secondo il quale “i omen” erano soggetti con cui giocare alla provocazione, ma inaffidabili e tutti uguali. Una scuola di vita per imparare a difendersi dalle trappole della seduzione, in una sorta di malizioso brio mozartiano o rossiniano, tra il serio e il faceto – “Vorrei e non vorrei”, oppure “Ma se mi toccano dov’è il mio debole…”.
Forse fu quell’alata riserva di spirito mitico che, al rientro in città, diede a Mariella, elegantemente vestita dagli abiti di sartoria della Zia Rita, la capacità di scovare la poesia un po’ dappertutto, trasferendo sulla pagina versi leggeri e spontanei, ora in italiano, ora in dialetto milanese, frutto di brevi, impressionistiche emozioni che ritroviamo qua e là, nel racconto.
Quei momenti di felicità dell’infanzia ricompariranno talvolta anche a Milano, in uno degli angoli più suggestivi, dove si trova la sua casa attuale, di fronte alla facciata della storica Basilica di S.Eustorgio, con le sue severe linee romaniche, che svettano tra gli alberi e i voli dei piccioni, dietro a cui, anche lì, nelle notti serene, occhieggia la luna.
Milano, via Stendhal, residenza dei suoi genitori. Un palazzo con scale di marmo bianche, mai viste, dove “il Parravicini”, suo padre, fine cesellatore, viveva con la madre, divenne il luogo del dovere scolastico, dei freni imposti dalla madre, che si alternavano alla gioiosa libertà delle estati in campagna, dove la luna splendeva più bella che mai. Milano, ancora dolente, devastata dalla guerra, al tempo in cui un’adolescente come Mariella, sognando la felicità, andava da casa a scuola e ritorno, intrecciando amicizie e sognando l’amore. Scale di marmo, che un giorno lei scese, vestita da sposa.
La vita ha sedimentato in Mariella – ormai non più la bimba campagnola dalle guance rubizze – un quoziente di felicità e di sguardo sull’Altro, che l’ha sempre soccorsa nel superare il dolore, la perdita e l’assenza, aprendola a quel po’ di bellezza riservato dalla vita, come riflesso di quel vissuto lontano.
Anche il teatro, attraverso il quale Mariella avvicinava al mito greco gli studenti del Liceo classico dove insegnava, la faceva sentire adiacente alla felicità nel suo appassionato lavoro di regista, di fronte al sorprendente livello dei risultati raggiunti dai ragazzi.
E sta proprio in quel far parlare Mnemosine – i ricordi- il filtro magico grazie al quale la felicità trascorsa riesce ad attenuare la malinconia del tempo che fugge. Se letto silenziosamente, quel vissuto può apparire “normale”, ma grazie alla potente intensità della memoria, la voce che giace muta sulla pagina diventa racconto confidenziale tra intimi, phoné, colonna sonora di una intera vita, a cui riuscirà persino a dare maggior senso.

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Apprendistato alla salvezza – Pasquale Vitagliano

Pubblicato il 28 gennaio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Pasquale Vitagliano, Apprendistato alla salvezza, Interno Libri Ed., Latiano (BR), 2022, pagg.66
Nota di lettura di Laura Cantelmo

La intensa qualità visionaria della silloge Apprendistato alla salvezza di Pasquale Vitagliano contiene un’unità tematica – la speranza di salvezza dal caos – che lo rende a pieno titolo un poema e, allo stesso tempo, una ricchezza simbolica e immaginifica che fa pensare a un’esposizione di arte figurativa.
Questa sua interessante singolarità, attribuibile a una predilezione culturale dell’Autore, si presta anche a una sperimentazione del linguaggio poetico affine a quello di alcuni importanti movimenti artistici del secolo scorso, come il Cubismo o la Metafisica, nei quali la sovrapposizione di oggetti di epoche storiche differenti o di provenienze contrastanti, ottenevano un sincretismo dove l’immagine aveva una fondamentale funzione evocativa. Qui il Poeta ottiene lo stesso effetto, attribuendo all’immagine un’importanza prevalente rispetto alla parola e alle sue potenzialità semantiche.
In poesia la giustapposizione di immagini su cui viene costruita l’architettura del discorso poetico vanta illustri esempi – il Surrealismo, Ezra Pound e il suo Movimento Imagista, oltre a T.S. Eliot, citazioni che si limitano ad alcuni tra i più celebri. Inoltre, la freudiana Interpretazione dei sogni ci insegna che la funzione dell’inconscio si esplica attraverso le immagini ed è intuibile grazie ad esse nell’esprimere uno stato dell’anima. Grazie all’atmosfera onirica nella quale questo poema è immerso, percepiamo qui uno stretto collegamento con l’Es. Ma va anche sottolineato che l’incalzante successione mediante la quale esse intendono rappresentare una terra desolata mira ad ottenere l’effetto di una sequenza cinematografica, fedele alle astuzie dello specifico filmico – il montaggio – a testimonianza della passione a tutto sesto dell’Autore anche per la settima arte.
Nella scelta di presentare i testi senza titolo, quasi fossero anonimi e nell’iniziare ogni verso con la lettera maiuscola, a sottolineare l’indipendenza di ciascuno di essi da quello successivo, non si può non ravvisare le atmosfere atemporali della pittura metafisica, oppure quelle della apparente casualità cubista, nella scomposizione spaziale di oggetti e immagini, ciascuno portatore di una sua verità. E ancora, il semplice atto di citare con la lettera minuscola, in una funzione grammaticalmente appositiva, lo scultore Rodin e il pittore astrattista Rothko, fa parte della ricerca stilistica di questo non semplice poema. Ma la citazione non è certamente a caso: il richiamo a Rodin, lo scultore francese amante sia delle forme possenti che delle figure sbozzate, simili ad alcune opere di Michelangelo (vedi I Prigioni, o la Pietà Rondanini), oppure al pittore Rothko, autore di vaste e nude campiture di colore, immerse in un inquietante silenzio nell’immensità del deserto, confermano il profondo impatto dell’arte figurativa sulla scrittura di Pasquale Vitagliano e sono azioni automatiche che paiono emergere direttamente dall’Es.
Nel titolo, il termine Apprendistato allude a un lavoro di apprendimento, umilmente teso a qualcosa di sacro – la salvezza – e di necessario alla sopravvivenza di fronte a un grave pericolo. Un impegno mirante a preservare quella nobiltà dell’essere umano, ormai persa, che l’Ulisse dantesco ci ha tramandato e scolpito nella mente, come monito: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” Come in molta poesia contemporanea, qui sembra evidente essere la perdita il tema principale, quella stessa perdita a cui alludeva Dante nel Canto XXVI dell’Inferno.
La tematica, di evidente ispirazione nichilista, viene inquadrata entro una scena in una sospensione delle categorie spazio/temporali annunciate dall’esergo di Clemente Rebora: “Dall’immagine tesa/ vigilo l’istante/ con imminenza di attesa/ – e non aspetto nessuno:” Versi da tenere presenti per l’interpretazione della silloge stessa: l’importanza dell’immagine, la funzione del tempo – concentrata sull’istante, senza passato né futuro – l’attesa come stato d’animo, nell’ amara consapevolezza che nessun Godot comparirà. Anche nelle correnti di arte figurativa cui si accennava, la categoria del tempo viene “sacrificata” a favore dell’indefinitezza spaziale. Il tempo è memoria, organizzazione, sequenza – tutto quanto è escluso nella condizione che Vitagliano descrive.
Un paesaggio distopico, dunque. Nel vuoto derivante da una catastrofe non ben definita, la cui causa sembra essere la perdita del sogno – “un sogno che non ci appartiene più”. Ne viene coinvolto l’Io scrivente in quanto everyman, l’essere umano in generale:” Ho bussato a tutte le porte/ Qui non c’è più nessuno/ Salvo i fantasmi dietro le porte”. Il linguaggio (la parola) è ormai sterile: “Dopo la prova che la parola non cura”, il Poeta è espropriato dello strumento essenziale della poesia. Un barlume di speranza pare emergere dall’invocazione “la luce la luce è la luce”, (p.9), per la sua capacità di manifestare” la reale sostanza delle cose”. Sarà la luce illuminista della ragione? Braccato, sotto assedio, il Poeta si muove lacero, i sensi narcotizzati in un “corpo smemorato” (p. 21). Poiché “Tutto è stato detto prima” si è smarrita ogni certezza, tanto che “Non mi sembra vero/ Di essere riuscito a fare delle parole/ Copie” (p.25). Ne deduciamo che la scena del mondo estenuato fa riferimento alla realtà attuale: una eliotiana terra desolata, asfittica e disperatamente sterile, priva persino di quei lillà primaverili, sorprendentemente privi di speranza. “Pensare senza il pensiero/ Scrivere ciò che è illeggibile”: la sospensione della razionalità provoca azioni antitetiche il cui effetto è una “dolce aponia” – la mancanza di dolore fisico – che la nostra memoria, evocando Epicuro, associa ad atarassia, la serenità mentale, condizioni necessarie per il filosofo greco al raggiungimento della felicità come scopo della vita (p.19). Ci viene detto che sulla via di una possibile salvezza la dolce aponia non rappresenta l’oblio, ma unicamente uno stato di assenza del dolore, in un silenzio che è il silenzio del mondo. Qualsiasi coinvolgimento emotivo viene evitato: i sensi narcotizzati inducono quella aponia e, coerentemente col clima descritto, acuiscono il senso di totale disumanizzazione.
Il duro apprendistato verso la salvezza richiede anche l’affrancamento da sentimenti e da pratiche del passato, come l’esperienza del dolore o la scrittura poetica. Ed emanciparsi dal dolore è già di per sé una sorta di liberazione. Eppure, l’idea di una dissociazione della mente dal proprio corpo vive una contraddizione, una rivendicazione di proprietà della parola: “Benché pronunciate continuano/ Le parole ad essere le tue anche/ Se col corpo non c’entrano più”. Immerso in una realtà straniante, nella disumanità della tecnologia, che “vede inutile pensare”, il Poeta si rende ormai conto di aver perduto “virtute e canoscenza”, ovvero la sostanza della natura umana.
Le due sezioni finali introducono un vero e proprio cambio di stile e di atmosfera- vi troviamo dei testi che indicano in termini realistici la dimostrazione tangibile della devastazione, fornendo la chiave di lettura dell’intera silloge:” Taranto per noi” descrive lo sfregio subito dalla fulgida bellezza di un’antica e storica città, attraversata da una dolorosa ferita, un ponte che non unisce come dovrebbe, ma separa i due mari e due settori dell’abitato, testimoniando inettitudine e cecità politica.
Ora il clima non è più astratto, il tono è di denuncia, pur essendo il paesaggio simile alla distopia descritta in precedenza:” Ė accaduto anche alle loro case di essere lasciate sole/ Insidiate dalle piattaforme che affollano svuotandole/ Asfissiate dalle ghiere che le disabitano…”. Il danno è stato compiuto e adesso, nella sua cruda realtà, l’atmosfera del disastro si ammanta nuovamente di una desolante cupezza: “Nella nostra notte terrestre il silenzio è così grande che le luci si sono spente/ Ė come guardare una tenebra ed invece è una nottata calma in cui tutto è sistemato.” (p.48) “Tutto è sistemato” sono parole di fuoco, cariche di inquietudine. l
Dopo accenni ad altre catastrofi – la pandemia e l’incombenza della fine, il Poeta sembra avere raggiunto un traguardo: “Porto dentro di me ogni riparo” (p.46) benché dominato da un insopprimibile senso di perdita:” La luce non serve la speranza non smuove/ Alzati ascolta prova a spostarti cammina/ La luce non serve per salvarsi”. (p.47). Ma neppure la luce ha più un senso:” L’oscurità ti viene dentro/ Mentre la notte non ti lascia” (p.47). La vanità di ogni sforzo induce a una disperazione senza grida né lacrime, anche quelle ormai inutili. Moderno Lazzaro, il Poeta è costretto a muoversi attraverso l’oscurità e la desolazione universale, pur restando pronto alla lotta.
Il tono nichilista ritorna nell’ultima sezione, “Dopo la battaglia”, anche se “La guerra privata è finita” (p.53). Le storture e l’effimero di una società consumistica, le sue drammatiche guerre, le minacce nucleari, sono ora trattate duramente, con tono beffardo: “Il cibo inghiottito non ci nutre” e “Non c’è l’arsenico in questa torta/ c’è solo che siamo a dieta…potremmo morire tutti all’istante/ Tutto è diventato possibile/ Prima o dopo il bollettino ufficiale/ Anche che qualcuno alla fine si salva.” (p.56). Implicita denuncia dell’incapacità di reazione degli esseri umani di fronte allo sfacelo, che li destina all’autodistruzione.
Dopo tanto cammino, il ritorno alla realtà odierna dà nuovamente spazio al sogno:”. Finalmente ho fatto un sogno/ Che non era un presagio era/ […] promessa che la tavola è una terra/ Sulla quale nessuno chiede permesso.” (p.59) Un mondo di eguali, senza confini, civilmente aperto all’accoglienza, senza distinzione alcuna, ecco l’utopia mai rivelata. Significa forse che il sogno, quello supremo, con la S maiuscola consente finalmente la speranza?
Ma la conclusione è significativa: “Non mi aspettavo una guerra/ Per cui non devo combattere/ Eppure sono in trincea/ Con un solo colpo in canna/ Così devo difendere la chiave da passare al prigioniero”. (p.62) Possiamo dedurre dunque che l’apprendistato non avrà fine? Pur se la perdita, cocente, resta. E con un inquietante colpo in canna.
Privo di finale consolatorio, il dramma è raccontato con grande maestria e con fredda passione da un Poeta che pratica l’impegno politico dal basso, muovendosi con consapevolezza nel marasma in cui tutti viviamo. Sognando, però, come chimera, un mondo migliore.
Milano, settembre 2024

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Anticipazioni – Lorenzo Fava

Pubblicato il 26 gennaio 2025 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
Vedi a: https://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Lorenzo Fava
Inediti
Con nota di lettura di Laura Cantelmo

Nota di poetica
Tentando in poche righe di dire del mio fare poetico, penso di poter dire di aver vinto la malattia psichica che mi abita come la stragrande maggioranza dei creativi con studio e dedizione. Non c’è giorno in cui non scrivo. È per questo che accennando a quanto mi trovi in difficoltà a dover dichiarare esplicitamente la mia poetica, più che rifarmi ai teorici, preferirei rimandare ai versi, ai miei appunti sparsi, di cui le poesie qui presentate spero possano essere un campione. La poesia per me è stata sempre una sintesi della crisi, una maniera di scendere nell’agone col dolore, di strappare l’ascia dalle mani del boia nel gioco del mondo. Prima che finisca il mio massacro spero di aver fatto sentire qualcuno meno solo.

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Polifema – Gabriella Cinti

Pubblicato il 2 dicembre 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Gabriella Cinti, Polifema, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2024. € 16
Nota critica di Laura Cantelmo

Vi sono forme di scrittura che suscitano un’immediata vicinanza, una condivisione con il pensiero e il sentire dell’Autrice/Autore, sia che si tratti di poesia, di narrativa o di filosofia. Nella contaminazione dei generi si inserisce questo libro bellissimo e singolare di Gabriella Cinti, Polifema, che, nella sua complessità e nella sua verità trova risonanza nel cuore di ogni donna e può essere di monito per ogni uomo. Non solo un romanzo d’amore, ma un vero e proprio trattato sull’amore, quel sentimento che, pur nei suoi aspetti dolorosi e spesso crudeli, induce alla scoperta di luoghi magici e di “regioni disabitate” e sconosciute, in quanto manifestazione sub specie aeternitatis dell’essere umano nella sua totalità. L’Autrice è scrittrice di profonda cultura classica e grande sensibilità, nota principalmente per il suo valore di Poeta e di studiosa, per la cura che dedica alla parola, di cui, come grecista, nello scandaglio delle origini più lontane (come nella sua più recente raccolta poetica, Prima, puntoacapo ed. 2023) porta alla luce la ricchezza e la complessità del linguaggio.
Punteggiato di lemmi in greco antico, che ne indicano le raffinate sfumature di significato, Polifema palesa delicatezza di sentimenti e profondità del pensiero, segno di una sensibilità di donna che ha “intelletto d’amore”, giustamente definibile come “cuore pensante”. Quella della protagonista, Marzia Volo, è il racconto del suo rapporto con Giorgio, suo primo e unico grande amore: “All’amore primo” è il titolo eloquente del capitolo iniziale. Una vicenda che si protrae per decenni, in un’alternanza di notti appassionate – al termine delle quali l’estasi vede il suo tracollo con il sorgere del sole – e lunghi periodi solitari. Muovendosi con lieve luminosità attraverso piani temporali diversi, tra il ricordo dei primi approcci e gli incontri in età matura, la storia procede tra passato e presente focalizzando sempre più i limiti della figura di lui, dovuti a una maturità mai raggiunta e a una palese forma di egoismo. Una realtà che Marzia, intelletto e corpo vibrante, mirando nella sua limpida nudità a una completa fusione con l’amato, non riesce a vedere, perché accecata, come il mitico Polifemo.
L’unità perfetta come massima aspirazione nell’esperienza d’amore è un tema trattato nel Simposio di Platone. Oltre a descrivere la duplice e natura di Eros, dio dell’Amore, il dialogo spiega come quella tensione rappresenti la nostalgia dell’unità primigenia originale, risalente al tempo in cui l’essere umano comprendeva in un unico corpo due entità, di sesso uguale od opposto, successivamente divise dall’ira di Zeus. Come sempre, sotto forma di simbolo, il mito svela verità a noi negate, quali l’inesausta ricerca, nella relazione amorosa, di quella metà che Zeus aveva violentemente separato. Eros, essendo figlio di Poro (“l’Espediente”) e di Penia (“la Povertà”), a quelle significative origini deve la sua inquietudine e l’ambiguità nel saper esaltare le potenzialità del corpo e dell’anima degli amanti, facendoli sognare nelle loro reciproche intime esplorazioni, per poi provocare ai loro cuori pene devastanti. Ben si accorda alla duplice natura di Eros il modernissimo Carme LXXXV di Catullo: “Odi et amo. Quare id/faciam, fortasse requiris./ Nescio, sed fieri sentio/ et excrucior.”(“Odio e amo. Forse/ chiederai come faccia/ Non so, ma sento che accade/ e mi tormento”). L’ossimoro iniziale, dalla eloquente forza assertiva e l’intera composizione, nella sua stringata semplicità, ne evidenziano l’indubbia attualità. Una contraddizione che lapidariamente illustra la natura complessa dell’amore, alludendo al dolore che esso comporta.
La narrazione è percorsa dalla storia degli incontri dei due amanti, oltre che da un conflitto interiore che tormenta Marzia, donna dal nome simbolicamente combattivo- una vera amazzone- sulla misteriosa ambiguità di Giorgio e sulla differenza nel loro sentire. Su come possa Giorgio riservare a lei pensieri sublimi senza accettare nella sua totalità un rapporto così profondamente radicato. Benché l’ossessione abbia assunto le forme di una dipendenza che non dà tregua a entrambi, la figura di Giorgio risulterebbe incomprensibile se non analizzata sulla base di usanze o di mentalità di antichissima origine, ancora vigenti nella società in cui viviamo. Inevitabilmente, in sintonia con la protagonista, il lettore si pone le stesse domande di lei. Appare evidente che Giorgio abbandona quella magica intimità, quel corpo palpitante e quel vivido intelletto per seguire il solo modello di vita nel quale ragione e sentimento, pensiero e natura sono stati forzatamente separati, per dedicarsi agli affari quotidiani, a causa di un infantilismo di fondo, coltivato nel rassicurante rifugio della famiglia. Poiché solo attraverso la separazione e la frantumazione dei compiti sociali lui trova l’unica possibilità che consente al suo equilibrio di realizzarsi, rendendolo uguale ai suoi simili: “una sorta di sindrome della palude, quel luogo stagnante, ma imbottito di sicurezze da cui molto uomini hanno letteralmente il terrore di allontanarsi, pur coscienti che la libertà sia altrove.”(p. 209) Seguono parole forti, che scolpiscono la miserabile inferiorità di Giorgio e di quelli come lui :”Una specie di brodosa placenta in cui l’egotismo infantile di certi uomini sembra trovare il proprio habitat ideale e nessuna virilità ostentata può occultare questa verità di fondo.” (p. 209).
A tal proposito troviamo ne La Gaia scienza di Nietzsche una riflessione illuminante, riportata da Simone de Beauvoir: “Ciò che la donna intende per amore […]è un dono totale del corpo e dell’anima […] Ė questa condizione che fa del suo amore una fede, la sola che abbia. Quanto all’uomo, se ama una donna è quest’amore che vuole da lei, perciò è ben lungi dal postulare per sé lo stesso sentimento che per la donna; se si trovassero uomini che provassero anche loro questo desiderio di abbandono totale, in fede mia, non sarebbero uomini.”. (in: Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 231). Non stupirà il punto di vista di un uomo di tal levatura, benché di epoca a noi lontana, perché purtroppo crediamo sia invalso ancor oggi considerare la differente postura della donna e del compagno, nei riguardi dell’amore, “come legge di natura”.
Le figure dei due amanti assumono di volta in volta dimensioni diverse: lei, allontanatasi dalla famiglia, vive quell’amore come un bene assoluto, totalizzante, che dà senso alla vita. La sua passione per l’assoluto, nel corso della narrazione, la eleva sempre più a figura mitica, mentre lui, “uomo senza qualità”, come lei ben lo definisce, ricorre al sotterfugio, alla menzogna, affronta le scenate della moglie, si mostra straziato, finendo per ripetere il rituale di sempre, perdendosi tra le braccia di Marzia. Tra le due figure è evidente il contrasto tra banale ed elevato, che avvicina il racconto a livelli drammatici. Giorgio incarna uno stereotipo maschile che ancora sopravvive, secondo il quale, in un tempo non molto lontano, avere l’amante era una consuetudine diffusa, mentre le donne, “angeli del focolare”, erano relegate alla cura della famiglia e della casa. Le eccezioni rappresentavano situazioni rare e scandalose, le cui spese ricadevano pesantemente sulla donna. Si pensi alla storia di Sibilla Aleramo.
In concordanza col suo cognome, Marzia Volo sa volare alto, vive la pienezza delle emozioni, diversamente da lui, che, pur soffrendo, ha relegato l’amore a una immersione temporanea in quel mare di felicità, per fare ritorno, ogni volta, alla palude del quotidiano. E l’alternanza di notte e giorno assume un valore simbolico, richiamando alla mente Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, nel quale le ardite e ardenti trasgressioni notturne si dileguano all’alba, riportando ogni vicenda individuale all’ordine prescritto dalla ragione della polis. La fiaba narrata in quella commedia è una forma di mito – cioè, di “racconto” – nella quale ritroviamo lo stesso meccanismo sperimentato da Marzia. Poiché è nelle tenebre che si manifesta la verità del loro amore, mentre alla luce del giorno quella stessa verità viene respinta da lui per tornare alle consuetudini, al “Mulino grigio” della quotidianità – alla falsa felicità sbandierata da una nota pubblicità. Quasi una visione satirica del diverso vissuto dei sentimenti nell’ Uomo e nella Donna, sgorgata dalla geniale intuizione di Shakespeare, della quale non tutti i registi hanno saputo – o voluto- cogliere il senso profondo, scegliendo di privilegiare di quel capolavoro l’aspetto fantasioso e fiabesco. Incarnando i due amanti due differenti archetipi, sarebbe quindi più corretto parlare di un Uomo e di una Donna: lei, posseduta da un bisogno di globalità, vive gli incontri in un’estasi mistica, da cui viene dolorosamente distolta al momento del distacco, mentre lui si dimostra incapace di amare.
Tuttavia, lentamente prende forma in Marzia la consapevolezza di una autolesionistica disposizione ad accettare la situazione a cui inevitabilmente conseguirà un lacerante senso di perdita di sé: “dolore di spreco di amore-vita”.
La presa di coscienza richiede un tempo lungo: “il femminile possiede virtù di eroismo sacrificale cui solo il mito ha dato il giusto risalto” (p.208), ma l’elaborazione di quel lutto ripetuto apre la via al riscatto della propria dignità, alla consapevolezza del grande divario che la divide da Giorgio, fino al raggiungimento della libertà dal legame con quell’ “uomo senza qualità”. Tuttavia, il percorso non è facile, a tal punto è saldo in lei, Penelope inesausta, il vincolo che per decenni le ha letteralmente condizionato la vita, fino a indurla a rifiutare altri rapporti. Scavando nella natura di quell’ossessione, nel percepire quella esperienza radicata e dunque incancellabile, al ritrovarsi sola, nel vuoto e al gelo di fronte all’abbandono, il bisogno di assoluto diviene la sua arma, il sostegno al suo intelletto, per aprire gli occhi che, in quanto Polifema, erano rimasti accecati dalla passione. E nel “riprendere i lineamenti della sua persona”, ricostruendo “le sue diverse sembianze”, Marzia vede finalmente che “le si stava scolorendo nella mente anche l’immagine di lui.” (p. 209).
Il ritrovato senso della vita per chi, come lei, è sempre stata dedita alla parola, allo studio e alla creatività, la induce a diffondere la sua esperienza, affinché altre donne non cadano nella trappola in cui lei stessa è rimasta impigliata. “L’amore è strumento di verità anche se passa attraverso inganni […] ma, quando viene interrogato al termine di una storia si rivela il più diamantino dei tribunali “(p.205). Nonostante il tracollo fisico e psicologico che ne segue, “per aver inglobato il dolore come elemento malato con cui coabitare” – poiché un amore così assoluto non si può cancellare – nella “nuova donna” sarà la parola come pensiero, come ragione di vita, a farle ritrovare il senso dell’esistenza in una maternità: “un figlio di carta, nato dal ventre della sua anima, figlio partenogenetico di sola madre, vestito esclusivamente di parole” (p.211). “Non una gravidanza isterica” ci viene precisato, bensì un generoso dono di sé dedicato alle altre donne. Tornando ad essere voce autonoma, in uno sforzo creativo e pedagogico, teso alla rinascita: “Così si rinasce, come solo il femminile che partorisce il due sa fare” (p.211).

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Madri e Figlie – Anna O. Ferraris

Pubblicato il 22 novembre 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Anna Oliverio Ferraris, Madri e figlie, Gallucci Ed, Roma 2024
Lettura di Laura Cantelmo

Del materno, del complesso legame tra madri e figlie, si parla molto in psicoanalisi: ambivalenza, simbiosi, tutte le fasi attraversate nel tempo, mentre in letteratura quel rapporto che interessa principalmente il femminile, non è sempre stato indagato con attenzione. Possiamo forse ricordare, come esempio, opere come Menzogna e sortilegio della Morante, oppure La Ciociara di Moravia e molte altre, anche in altre lingue, nelle quali quel rapporto è posto al centro, ma non sufficientemente approfondito, per quanto ciò sia possibile. Non dimentichiamo, però, come emblematica, la dolorosa vicenda di Virginia Wolf – l’impronta della madre nella ricerca dell’identità, la perdita di lei, l’assenza devastante. Assenza e perdita mai medicate, mai guarite …
Non è un caso che il nuovo romanzo di Anna Oliverio Ferraris, Madri e figlie, colpisca le fibre più nascoste delle donne. La competenza in campo psicologico dell’Autrice, già Ordinaria di Psicologia dello sviluppo e di Psicologia sociale all’Università La Sapienza di Roma si fonde con una sicura abilità narrativa, che si è andata affinando negli ultimi anni attraverso la scrittura di romanzi, quali Tacchi a spillo e Tutti per uno. Già ampiamente nota al pubblico come saggista, questo ultimo lavoro ne conferma il valore letterario, la capacità di operare sull’intreccio più che sulla fabula, come direbbero i letterati. La tematica annunciata dal titolo viene sviluppata ed analizzata nel corso di cinque storie, nelle quali si dipanano situazioni che propongono ora stereotipi della figura materna che ancora faticano ad essere superati, ora si immergono nell’enigma. Lo scopo è di sollevare il velo sul nucleo segreto di un legame complesso che attraversa fasi diverse, per poi affermare sempre il vincolo imprescindibile e indefinibile di una relazione, nella quale il ruolo materno non è solo quello biologico, ma diviene anche amore e fiducia al di là e fuori dal vincolo parentale, come ha sovente sperimentato lo stesso Movimento delle donne. Ciò che risalta con maggiore evidenza in questo lavoro è la focalizzazione dell’aspetto umano, accogliente e tenero, delle protagoniste dei racconti, frutto di informazioni casuali o di esperienze personali dell’Autrice, che su questo aspetto comportamentale ha indagato con occhio esperto e con attenta partecipazione.
In alcuni racconti in particolare l’io narrante fa riferimento a un’impostazione patriarcale non ancora superata dalla nostra società, concentrata sul potere del paterfamilias, per poi svelare ciò che avviene nella sfera privata, dove sul piano affettivo quel ruolo appare sfocato, se confrontato con quello della madre, responsabile della cura, della salute e dei sentimenti. Uno stereotipo che ancora oggi in qualche forma sopravvive, benché negli ultimi tempi se ne riscontri una certa crisi in senso positivo. Spesso lontano da casa per ragioni lavorative o professionali, il padre ha sempre potuto permettersi libertà inusuali per le donne, storie sentimentali o brevi avventure che lo distraggono, godendo di una vita sociale sconosciuta alla madre. Per questo, in ogni racconto quella del padre è una figura debole, di secondo piano, poco collaborativa e spesso deludente. Sappiamo, inoltre, che il fascismo aveva inquadrato la figura femminile entro un rigido schema di “sposa e madre esemplare”, negandole ogni spazio di libertà e di espressione al di fuori dell’ambito familiare.
Il primo racconto, “Smarrimenti”, ha l’intensità e il palpito di una testimonianza diretta, conferitagli principalmente dalla narrazione in prima persona. L’immagine della famiglia, qui, non si discosta da quella convenzionale, apparentemente stabile e serena, con un padre quasi assente e una madre “santa”. Nell’atmosfera desolata del funerale della madre, una perturbante epifania – l’improvvisa comparsa di un estraneo – induce forzatamente la figlia a scoprire un segreto insospettato. Con un abile colpo di scena l’Autrice mostra come la vita, nelle sue inevitabili incognite, sappia rendere umana quell’immagine angelicata, impigliata in regole sociali da cui solitamente derivano paradossali ipocrisie.
Anche in “Sintonie” il quadro familiare mostra una madre insoddisfatta della situazione coniugale, per l’inadeguatezza del consorte nel rapporto di coppia e per la consapevolezza del suo legame con un’altra donna. La storia si concentra sulla relazione di lei con una figlia adolescente, con i turbamenti e le ribellioni scatenati da una doppia delusione, l’essere stata lasciata dal ragazzo, che si è legato proprio alla sua amica più cara. Un doppio abbandono che rende ancor più lacerante la ferita. Lo sguardo dell’Autrice, molto attento alle reazioni della ragazza, lo è anche verso la madre, insofferente di fronte ad alcuni atteggiamenti della figlia e tuttavia, per distoglierla dai suoi pensieri, ha scelto di invitarla a fare una gita a Venezia. Le vicende che ne seguono vedono il confronto di due situazioni quasi speculari – un padre divorziato, accompagnato da un figlio adolescente e una madre sull’orlo della separazione, con una figlia in crisi. Benché breve, il viaggio con dei compagni occasionali diventa un momento di formazione, dal quale, in uno scambio quasi alla pari, i rapporti tra le due donne acquistano maggiore confidenza e fiducia reciproca. In fondo, ambedue soffrono le conseguenze di un tradimento che non può far altro che accresce la loro complicità, lo scambio di segreti ed emozioni come tra due amiche. E sarà proprio questo ad avvicinarle.
Ciò che maggiormente colpisce in “Amnesie” è il disvelarsi dello spirito materno in una figura femminile che si è costruita una corazza di difesa dalla vita e dagli affetti a seguito di un trauma devastante. Economicamente autonoma, avversa a qualsiasi tipo di legame, benché passeggero, la sua sensibilità finisce per emergere non solo dal sopito spirito materno, ma come solidarietà tra donne. “C’è molta fisicità in questo genere di cose…. difficile tenerla sotto controllo […] questione di ormoni, immagino, ma non solo.” Frase cardine di tutto il libro, che ribadisce più nel dettaglio il tema principale. Il racconto, come gli altri, molto accurato nella scelta delle sequenze temporali, riesce a solleticare la curiosità del lettore a voler conoscere la conclusione.
Storia struggente e crudele, quella di “Presenze”. Nell’angosciosa ricerca di una bambina di soli quattro anni misteriosamente scomparsa, l’Autrice coinvolge il lettore nello stesso dubbio della madre circa un presunto ritrovamento, senza però risolverlo, non essendo quello il problema centrale, bensì la perseveranza della commovente convinzione che la bambina sia ancora viva. Guidata dall’istinto materno, combattuta tra l’identificazione di una figura fantasmatica e l’accettazione della perdita a cui la donna non si rassegnerà mai, il lettore realizza che quella ricerca è ormai la sua unica ragione di vita. Notiamo, en passant, che diversamente dalla incrollabile decisione di lei, sarà il padre a cedere, stroncato dalla disperazione.
Ogni vicenda aggiunge un tassello emotivo al mosaico dell’istinto materno nei suoi diversi volti, fino a che troviamo la sintesi del tema principale. Il racconto conclusivo – “Alleanze” – merita un apprezzamento particolare anche per la dovizia di particolari nell’ambientazione fastosa e decadente della villa che è stata teatro della vicenda. Dominata dalla cupezza dell’ombra e dalla diversa luce che emana dalla personalità di ciascuna delle due donne che vi agiscono – la elegante e misteriosa bellezza della madre e la rara magnanimità della governante – il tema centrale giunge a una sintesi del complesso enigma che è al centro del libro: lo spirito materno che si espleta non solo all’interno della famiglia nell’accudimento e nell’amore dei figli, ma nella solidarietà tra donne e nel sacrificio totale di sé.
Dettato dalla sensibilità umana di donna e di madre dell’Autrice, oltre che da una profonda consapevolezza professionale, il libro ha uno stile fluido e mai ricercato, che non risparmia la commozione ed è avvincente, perché ricco di suspence.

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Anticipazioni – Cristina Polli

Pubblicato il 12 novembre 2024 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
Vedi a: https://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Cristina Polli
Inediti

Con nota di lettura di Laura Cantelmo

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Nota di poetica
La mia poesia origina da uno scarto, un movimento a lato, una visione sfalsata, che parte dal reale ma non vi aderisce. È uno stato di distrazione che mi permette di scorgere altro: un riflesso, una via. Spesso il fulcro è un’immagine che colgo dal quotidiano; altre volte un lampo che mi attraversa e su cui indago a lungo. È nata come caduta di un velo che avevo sugli occhi ed è diventata consapevolezza costante di mancanze e attese, luce sulle ferite e necessità di purificazione. Il nutrimento della mia poesia è l’attenzione a ciò che vedo e a ciò che sento e il dialogo con la parola scritta e la parola detta, l’immersione nel dettato poetico altrui, è per me fondamentale.
Recentemente ho iniziato una sperimentazione nell’ambito della found poetry in cui la composizione poetica nasce dalle parole di una pagina stampata, selezionate e riunite tramite un processo di ascolto interiore, e dialogo con la pagina, appreso tramite il Metodo Caviardage di Tina Festa per il quale sono certificata per la didattica scolastica. Il processo compositivo è associato a una parte visiva che nella mia ricerca deriva sempre più dal gesto e forma un tutto unico con le parole.

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Bookcity 2024 – Evento Milanocosa

Pubblicato il 30 ottobre 2024 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro
Giacomo Guidetti e Maurizio Baldini hanno registrato e immesso il video della manifestazione nella pagina Youtube di Milanocsa. Segue il link: https://youtu.be/xU7Hycpiqpo Presidenza Milanocosa

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XIII Edizione BookCity Milano
Fond. Cult. San Fedele – Sala Loyola
Piazza San Fedele 4 – Milano
17 novembre 2024 – H 14,30-16,00

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Progetto di Milanocosa
A cura di Adam Vaccaro

La vita è un paese straniero
Kerouac in Italia 1966

Alessandro Manca
El Doctor Sax, Beat & Books, 2023

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Giacomo Guidetti e Maurizio Baldini hanno registrato e immesso nella pagina Youtube di Milanocosa il relativo video della bella manifestazione, di cui segue il link 

https://youtu.be/xU7Hycpiqpo ***

Un libro di approfondita ricerca socio-culturale, stimolato anche dalla iniziativa di Milanocosa realizzata nel 2019 col titolo, all’interno della serie Attraverso Milano,
Jack Kerouac e i poeti della Beat Generation italiana.
Fu un incontro a cura di Luigi Cannillo e la partecipazione di Alessandro Manca, che divenne una sorta di radice da cui si è poi sviluppata la ricerca del libro che presentiamo.
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Il volume La vita è un paese straniero è la ricostruzione del viaggio che Jack Kerouac fece in Italia nel 1966, quando fu invitato da Mondadori per presentare il suo romanzo Big Sur, scelto come 500° della collana Medusa. Più che un semplice resoconto di un viaggio è il racconto dello scontro titanico, ricco di provocazioni e caustiche recensioni, fra Kerouac, insofferente e ubriaco, e un establishment culturale che in Italia, ancor più che in America, non lo comprende, ne sminuisce il valore letterario e lo riconduce a uno stereotipo.

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Luoghi sospesi – A. Ferramosca

Pubblicato il 23 ottobre 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Annamaria Ferramosca, Luoghi sospesi, Premio Città di Roma 2021, puntoacapo Editrice 2023

Nota di lettura di Margherita Parrelli

Luoghi sospesi di Annamaria Ferramosca è un flusso di coscienza, non ha un inizio né una fine e a indicarlo non è solo l’assenza di maiuscole, o le domande bambine che lo aprono e quella che lo chiude e ne svela l’anelito che lo percorre e ne è ragione: “forse è nel sentire il senso?”.

A svelarne la sua natura di flusso di coscienza, che si mostra e si disperde, è il senso di tempo unitamente molecolare e magmatico che lo attraversa e quello di spazio definito solo dall’essere dietro il vetro (“bambina/ isola d’occhi indagatrice (…)/ per ore a guardare/ di là dal vetro/ fuori dalla finestra”, p.9) o fuori il vetro (“fuori dalla finestra/ dove si mostra il mondo/ guardo (…)/ e riconosco e imparo/ il duro limite della parola”, p.45).
Separata o unita, nell’introspezione o nell’esposizione al mondo, Annamaria apprende che stare oltre il vetro non comporta alcuno svelamento, ma piuttosto l’incontro-scontro con il limite (“oh sapevo eccome lo sapevo/ fin da bambina/ che sarebbe finita così/ che la parentesi vissuta/ – o mai vissuta – si sarebbe chiusa/ con un arcano flop” p. 90) e che ciò che certo è unicamente l’impossibilità del ritorno allo stato precedente l’entrata nel modo, al momento prima della cacciata dal paradiso, alla gioia dell’inconsapevolezza, poiché una volta intrapresa la strada della conoscenza ha inizio anche la strada dell’estraneamento: “matta voglia di rompere questi vetri (…)/ farmi estranea a me stessa (…)/ lo so poi sarà impossibile/ ritornare nella stanza” (p.36).

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Novembre – Serena Rossi

Pubblicato il 20 ottobre 2024 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Serena Rossi, Novembre, Nulla die, Piazza Armerina (EN), 2024, Pagg. 83, € 15.

Laura Cantelmo

I brevi versi di Serena Rossi sono la sua cifra stilistica, la fulmineità telegrafica di un discorso che allude, che lancia il messaggio per serrare i sigilli poco dopo, con una sorta di pudore, quasi si trattasse di una confessione o di uno sfogo improvviso. Non è difficile attribuire tanta stringatezza all’altra faccia della creatività di Serena, che sono le arti visive. Ė il titolo stesso di questa silloge, Novembre, ad anticipare lo stato d’animo dominante – la melanconia di una stagione che offre una sua compunta bellezza, pur se il mese di Novembre, con la commemorazione dei defunti, resti pervaso da inevitabile tristezza.
Solitarie, sul foglio bianco le parole sono immerse in un vuoto echeggiante risonanze misteriose, ma sempre nell’attesa di qualcosa che resta fatalmente incompiuto: l’amore, il sesso, il mondo avaro di felicità, la sorte dei diseredati, i sogni che non si avverano. E sullo sfondo, il mare. Il tutto esposto con compostezza, senza rabbia, tanto da farlo sembrare un taccuino d’appunti, che trovano nel finale del testo uno sviluppo minimo, in una forma aforismatica esplicativa. Vediamo un testo poetico: “Volo di rondine nera/ Corsa senza respiro. / Limite// Goccia a goccia. //Dal vetro trasparente rotto/Per il troppo riso. / /”. Ed ecco apparire la chiusa:” Sete avara del rimpianto. / / Terra senza pace.” (pag.36).
Nel comporre il discorso, la sinteticità di ogni verso crea un metafisico senso di sospensione e di solitudine: “Un appoggio, un grido/ Latrato di cane selvatico /Allupato assurdo sincopato destino/ Siamo quella roba. / La nave che non fai entrare, l’acqua che ti assorbe/ Il sale che brucia la pelle/ E il sole che ustiona.“. E poi il finale:” /Siamo acqua e terra/ Nuova.” (pag.64).
Il vissuto di chi scrive si fonde con la condizione degli ultimi della società, seppure nella convinzione di essere “nuovi”, nonostante. Non a caso, come è già stato rilevato in altre note di lettura, una ricorrente parola tematica, soglia, denota un senso di esclusione, di insoddisfazione, di incompiutezza. Nulla di nuovo, di questi tempi, in cui tutto viene rimesso in discussione generando nell’Io stesso disagio e smarrimento.
La riflessione dell’Autrice sulla sua microstoria personale viene influenzata o, meglio, inserita nella Storia che impatta sul nostro vivere, sui sentimenti, sugli eventi stessi: “Voglio il foglio pesante per segnare in/ Nero il tratto della fine. / […] / Un anno di guerra genera spavento/ E scompiglio. Mondo oppresso.” Oppure, descrivendo – non a caso – un’opera visiva: “Omini neri appoggiati a terra/ […] Affumicati sul foglio in mezzo/ A macchie ocra e paglia. / / Sorte appesa gestita fuori dalle acque/ Internazionali. Fuori dalla ONG che chiedono compassione. Fuori dalla pietà/ Fuori dalla memoria. Dentro la storia.” (pag.31). Poiché l’isolamento e l’emarginazione allignano profondamente nella Storia attuale, la proposizione/avverbio fuori, iterata più volte, rafforza il significato di soglia, accrescendo un inquietante sentimento di esclusione. A tal punto che, coerentemente, un testo parla di fuga: “Voglio prendere il treno e perdermi/ […] / Voglio sparire.”
Va rilevato che l’uso della maiuscola in apertura di ogni verso, secondo noi, ha un’importanza strutturale, quasi a voler conferire nobiltà ai temi esposti in ogni “riga”, al fine di una successiva argomentazione.
Un intenso spleen novembrino percorre tutta la silloge – lo spleen di Milano…- presente anche nel testo eponimo – “Novembre in Milano” – figurativamente sintetizzato dall’aforisma: “Siamo ombra e soglia.” (pag.31), che avrebbe anche potuto essere il titolo dell’intera raccolta. Smorzando ogni possibile entusiasmo, lo spleen si riverbera in ogni immagine e grazie ad esso neppure l’amore conosce la passione: “I cocci, come cenere/ stanno in basso/ […]/ Stanno sotto il mio sguardo/ […]Che lento ti guarda che ti vesti e/ Non è curioso// Non si appassiona al tuo seno/ All’incavo del tuo braccio al monte del tuo pube/ ”(pag.81). Tuttavia, una venatura affettuosa: “Io voglio il tuo bene” – può essere letta come un’implicita richiesta d’amore.
Spleen o vuoto? Quello che l’Autrice vuole comunicarci di preciso è rinchiuso nei suoi sintetici versi, nel loro mistero. Ma noi percepiamo che il suo sguardo sul mondo ben si adatta all’air du temps che tutti ci avvolge e ci accomuna: la realtà oggettiva è specchio di un “dismesso sogno”, del deserto che è in noi e fuori di noi. Ovvero, per una pittrice come lei, nei “Tableaux vivants” della periferia “accecata”.

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Anticipazioni – Valentina Murrocu

Pubblicato il 3 luglio 2024 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
Vedi a: https://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Valentina Murrocu
Inediti

Con nota di lettura di Laura Cantelmo

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Nota di poetica
La mia scrittura nasce dalla priorità del momento percettivo su quello nominativo, muovendo da una sovraesposizione alla realtà: oggetti, corpi, sensazioni, pensieri, proiezioni mentali fanno parte dello stesso orizzonte di senso, non ci sono momenti privilegiati di accensione o una gerarchia. L’esistenza si rivela pertanto come orizzontale. Da questa priorità della percezione deriva la volontà di lasciar vedere o intravedere le contraddizioni della realtà per come si manifesta. Il restituire la complessità del mondo nella scrittura e con essa un’idea di mondo è ciò che muove e anima la mia scrittura. Da questo orizzonte di senso non è esclusa la realtà cruda e la violenza delle immagini, anzi, si potrebbe dire che la mancata edulcorazione di scene ripetute di violenza rappresenta il momento estetico per eccellenza.

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