Poesia contemporanea: Letizia Leone
Letizia Leone, Carte sanitarie, 2008 e La disgrazia elementare, Perrone, Roma, 2011
Giorgio Linguaglossa
Quanto meno il testo è letteralmente marcato (voglio dire situato quale dirimpettaio del referente), tanto più la forma avrà la funzione di indicarlo. Assodato che per forma si intenda tanto la composizione testuale quanto lo stile, chiediamoci: è necessario che il testo realizzi la differenza problemato-logica in quanto logos? Meno il problema della letterarizzazione del «reale» è letteralmente detto e più dovrà dirsi figurativamente, più la problematicità sarà il testo stesso come forma discorsiva. Più il testo si de-letteralizza, più il rapporto col reale diventa problematico, e più la problematicità, che è dunque un fatto formale, sarà il testo stesso a fornirlo come prova della sua sopravvivenza. Più il problema è formalizzato, più si scava il fossato tra il letterale e il figurato; voglio dire che meno il testo sarà risolutorio, meno esso sarà consolatorio, più conterrà sempre qualcosa di non-definitivo, di non-ultimato, di infermo, di infirmato, di scoria che eccede, di scabro che sopravvive alla combustione in quanto non c’è più una stazione ultima della formalizzazione. In sostanza, più si scava il fossato tra il letterale e il figurato più la formalizzazione tenderà ad essere provvisoria, ad assumere la veste dell’abnorme, dell’indistinto, dell’inconsueto, insomma, del problematologico.
Nella poesia di Letizia Leone l’esoterismo va di pari passo con lo psicologismo e con il de-realismo (e, perché no, anche con una nuova forma di realismo!) e con le zattere significazioniste della Storia, ma come divelte, scisse dal tutto (e dal lutto del tutto), come tessere schizzate via dal mosaico da una forza eruttiva (interiore-esteriore). Leggiamo la scena dello scorticamento di Marsia ad opera di Apollo in La disgrazia elementare:
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