Gallo

SERGIO GALLO: PERCHE’ LA POESIA?

Pubblicato il 31 marzo 2015 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

SERGIO GALLO: PERCHE’ LA POESIA?

Pharmakon, l’ultima raccolta del cuneense Sergio Gallo, uscita nel 2014 per Puntoacapo editrice, raduna il lavoro di quattro intensi anni di poesia, essendo il precedente libro del 2010. Chi ha seguito l’autore dai suoi esordi riconosce in quest’opera il nuovo e l’antico – la maturità della voce e l’indiscutibile continuum rispetto al precedente Canti dell’amore perduto.

Il continuum è la voce assolutamente originale di Gallo, unica e stabile nel cangiante trafelato panorama  della contemporaneità poetica. Il suo coraggio sta nel proporre poesia didascalica, cioè indistinguibile per natura da una dichiarazione forte e chiara di poetica. Una poesia come quella di Gallo, in altri termini, deve allontanare dal proprio mondo ogni forma di intimismo, di minimalismo e di egocentrica banalità sentimentale. Impresa di per sé non facile, dai risultati sempre incerti, che in Sergio Gallo appare compiutamente riuscita, senza pesantezze né sbavature: prima di tutto per le tematiche scelte, che sono quanto di più apparentemente arido possa esistere – la pesca, gli appellativi tecnici e i comportamenti biologici delle piante tagliate nel bosco, i “pharmaka” che intitolano il libro, voces mediae sempre in bilico fra bene e male, fra medicina e veleno, fra accadimenti e rinunce; poi bestiari, migrazioni umane e non, persino prose di un diario alpinistico di stupefatta esattezza, in cui «il corpo e l’anima, soave musica/ viaggiano all’unisono». Una poesia dura, difficile, che nel “cainismo” della natura vede, più che la metafora, l’allegoria di una denuncia sociale impietosa, mai retorica e mai calcata. Eppure l’autore riesce ovunque a intessere i propri versi di immagini ad alta definizione lirica: orgogliosamente assente, egli è  presente nel testo come soggetto corale e mimetico, appartenente a luoghi e tempi diversi e portatore di inquiete domande. Come nell’amplesso delle aquile di Walt Whitman, come negli erbari di Marianne Moore, il poeta è il voyeur di una verità scabrosa, che la natura esprime senza fare promesse umane, troppo umane.

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