Filippo Ravizza
Nel Tremore degli anni, puntoacapo Editrice, Dicembre 2020
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Adam Vaccaro
Avevo ricevuto e inserito quattro testi di questo ultimo libro di Filippo Ravizza, nella serie di Anticipazioni (https://www.milanocosa.it/anticipazioni/anticipazioni-filippo-ravizza). Leggendolo ora nella sua interezza, ritrovo validi i rilievi fatti allora, per cui li ripropongo con alcune integrazioni, in particolare sulla tematica del Tempo, filo rosso della sua ricerca espressiva.
Nella poesia contemporanea è spesso difficile enucleare una visione e un pensiero critico, alimento per me fondante un poièin capace di dire e darci contributi di conoscenza della complessità della vita, di cui il Tempo è tematica primaria. Sono premesse scontate entro la visione metodologica della mia Adiacenza, per la quale l’Atteggiamento generale o quella che Elio Franzini (Rettore Statale di Milano e prefatore di Ricerche e forme di Adiacenza) chiama Intenzionalità fungente, fonda e connota il punto di partenza. Seppure, per una adeguata analisi testuale, è decisivo il punto di arrivo.
Nel percorso poetico di Ravizza c’è un pensiero forte quale fonte epifanica di espressione, di ri-creazione di realtà e dei suoi infiniti piani, visibili e invisibili. Un piede-anima, come detto, non molto rintracciabile nel panorama poetico odierno, rispetto a quello innervato in esperienze affettive.
Nei testi di Ravizza c’è un Io che ribolle nella caldera vulcanica costituita dal complesso sistema concettuale di Hegel, di tesi-antitesi-sintesi tra Natura e Ragione, in cui, in ultima analisi, è lo Spirito che crea la Storia. Fondamenti della hegeliana Fenomenologia dello Spirito, che consentì a Marx di costruire il suo Materialismo dialettico, per il quale, in ultima istanza, è decisiva la struttura socioeconomica e storica e non lo spirito. Sono sistemi imprescindibili negli sviluppi del pensiero delle “teste occidentali” (p.18), che ricomprendono etica, arte, religione e ogni altra area della totalità antropologica.
Se dunque l’Io e le sue Modalità di controllo del linguaggio (Mod-Io), sono forze primarie nelle forme di cui ci stiamo occupando, come agiscono le altre modalità (Es e SuperIo)? La matassa espressiva dell’Autore conferma in primo luogo i detti fondamenti di pensiero e cultura, con la domanda sul “vero” della scrittura poetica, distinto da ogni altro vero. Talché ne consegue che la Verità (assoluta) è mito ideologico e falso.
Da questo tronco portante, si dipartono rami tesi ai mille ansimi, attimi e forme della vita, con i loro terminali sensitivi di gemme e foglie, sciolte al vento come capelli: immagini e flussi che trovano ritmi consonanti e danzanti, capaci di far sentire ”la carezza del mondo”, di cui però la ruvidezza del tronco smaschera subito la dolcezza, necessaria quanto precaria “maschera impossibile”, che “abbraccia questi capelli/ bianchi questi occhiali queste teste/ occidentali…” (p.18); “La vita la matita del tenere/ intatta e lieve l’ondulante/ carezza la carezza del tempo! (p.38).
Sono qui tracciate linee che sanno far librare e vibrare il poièin, in una musica che congiunge spazio-tempo quali nomi diversi della stessa Cosa. Ed è la forma a dirlo, ribattendo come chiodi aggettivazioni dimostrative, che intrecciano ritmi ripetizioni e significati (tra Mod-Io ed Es), grumi verbali di più aree mentali che chiamo gatti di Schroedinger. E che tra carezze e lucori dell’occhio, superfetano il qui e ora. In cui il tronco trema insieme ai rami, conscio che l’invisibile è più forte del visibile, in una tensione adiacente tra radici ed emozioni-pensiero che in-forma versi e flussi che paiono promettere punti di arrivo, anche se ansimi di enjambementes annunciano significati che lo negano: “arriveremo, arriveremo senza/ mai pensarci, senza mai pensare,/ la fine inaspettata coglierà/ mentre staremo cantando mentre/ staremo stringendo nelle braccia/ il nulla”.
Ma non è disegno né pianto nichilista; “qui a Milano/ qui sulla terra intera tra/ un giorno tra un mese/ tra un milione di anni/…/ verrà finalmente l’uguaglianza/ …una comune/ dimensione umana.” (ultimi versi del libro, p. 47). È una punta che incide la pietra del tempo, e insieme un puntello per proseguire nella lucida coscienza del destino naturale: “se verrai vita mia a bussare/ alla mia porta in un giorno di sole/…/…oh sì oh sì qui/ qui dove ora io ti guardo/ vita mia quando mai ti amerò/…carezza…della pagina bianca nella/ tua illusione che chiamasti ‘amore’”. (p.20). L’Io, dalla sua torre di avviso e resistenza di coscienza critica, non smette di misurarsi col Tempo, pur sapendo che il proprio decadrà come uno yogurt; “In questo abito chiamato tempo/ della mia Milano Novecento/…/ con Vladimir e Natascia la Storia/ già era con me ma io non lo sapevo.” (p.24); “crudele cecità oh viltà viltà/ del tempo mio tempo tuo tempo/ tempo nostro povero e breve”, “superficie/ falsa…/ verità che in realtà non esiste” (p.39). Coscienza critica che si riafferma con forza rispetto alle sirene della “allucinazione: tutto ci/ sarà finché ci sarò io, poi/ il niente che non ha parole”. (p.40).
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