F. De Napoli

Evgenij A. Evtušenko, Se tutti i danesi fossero ebrei

Pubblicato il 3 settembre 2022 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

In nome di una Cultura del coraggio

Evgenij A. Evtušenko, Se tutti i danesi fossero ebrei, a cura di Lorenzo Gafforini, con un saggio di Francesco De Napoli, Prima traduzione italiana di Evelina Pascucci. Lamantica Edizioni, Brescia 2022, p. 243.

 Va segnalato il rilievo culturale di questa edizione di Evgenij A. Evtušenko, Se tutti i danesi fossero ebrei, opera teatrale curata da Lorenzo Gafforini e arricchita da un saggio di Francesco De Napoli, che con passione e un magistero derivante da decenni di studio dedicati al poeta russo, ne mette in rilievo i nuclei fondanti della sua poetica: la funzione di impronta pasoliniana, secondo la comune matrice gramsciana, di “una cultura coraggiosa, libera e controcorrente”.

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Google – Il nome di Dio – Letture-9

Pubblicato il 9 agosto 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

IL SORRISO MASCHERATO DI
GOOGLE – IL NOME DI DIO

Francesco De Napoli

Adam Vaccaro, Google – Il nome di Dio. In quattro quarti di cuore. Prefazione di Massimo Pamio. Postfazione di John Picchione. Con una Nota dell’Autore. Ed. puntoacapo, Collana Intersezioni n. 54, Pasturana (Al), 2021, p. 104.

Impedimenti personali mi hanno, finora, costretto a rinviare una recensione dedicata con dovuta cura e attenzione a questo Google – Il nome di Dio. In quattro quarti di cuore. Ciò mi ha consentito, tuttavia, di leggere e rileggere più volte il volume, al punto da recepire in pieno con quanta forza, passione e verità Adam Vaccaro abbia portato a termine questo disperato capolavoro.
Illuminato da luciferini bagliori infernali, il mondo appare oggi come uno sterminato e virtuale luna park, una miserabile bancarella a cielo aperto che Vaccaro ritrae con tinte drammaticamente realistiche. Una visione del genere potrebbe trarre in inganno, qualora ci limitassimo a sin troppo banali considerazioni di tipo mediatico, riallacciandoci, ad esempio, al dittatore Grande Fratello del sin troppo abusato romanzo 1984 di George Orwell.
In questo poema, perché di un poema si tratta, certamente c’è anche questo, ma l’aspetto fondamentale capace di elevarne enormemente il valore poetico-culturale consiste nel volutamente sottaciuto, onde dare maggior risalto alla denuncia politico-sociale, timbro esistenziale che, per quanto devastato, rinvia alle allucinate intuizioni di Pier Paolo Pasolini, il quale, venuto a mancare nella metà degli anni Settanta, mai avrebbe potuto immaginare l’incontrovertibile imperium dell’omologazione dei cervelli che sarebbe scattato di lì a poco a livello planetario. Di questo fenomeno Pasolini, pur non potendone delineare le cause, tentò comunque, a suo modo, di tratteggiarne gli effetti salienti.
È quanto Adam Vaccaro riesce invece a rappresentare appieno, con assoluta fedeltà chirurgica e quasi fotografica – sviluppando, in un certo senso, il discorso già iniziato da anni e proseguito nella precedente silloge Tra Lampi e Corti (2019).
In Google – Il nome di Dio l’autore molisano, da molti anni stabilitosi a Milano, tocca sempre più le corde di una umanità avvolta e dilaniata dalle spire della sua stessa demenza ed emarginazione. È il caso della lirica Im/potenze, dove Vaccaro rinnova sapientemente quel clima pasoliniano di perversione e degrado un tempo tipico delle periferie e che ormai ha invaso anche i centri urbani:

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Il Ventilabro di Francesco De Napoli

Pubblicato il 12 novembre 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Francesco De Napoli, VENTILABRO-Scotellariana

Graphisoft Edizioni, Roma 2019

Questo libro di Francesco De Napoli è un denso poemetto che prova a tradurre in versi la terra desolata, esteriore e interiore, focalizzata da un punto di sguardo posto nel Sud. Ne deriva una forma di lucida dolorosa denuncia civile interconnessa a una mancata paideia – nome e stella polare della Rivista e del Centro Culturale di Cassino, che l’Autore dirige da decenni – che purtuttavia è valore di una funzione formativa imprescindibile, assegnato all’esercizio letterario in genere, e al poiein in particolare. È il valore centrale che diventa fonte di forma, esplicitata da titolo e sottotitolo.
Ventilabro era la pala di legno usata dai contadini per ventilare il grano e separarlo dai residui superflui – metafora e simbolo dunque della capacità umana di distinguere valore e disvalore, trasmessa dall’esperienza della coltura della terra, radice di una cultura che con tutti i suoi limiti riusciva a tradursi in una koinonia antropologica, non arresa alle folate distruttive del vento della storia. È una concezione nel solco dei maggiori poeti moderni – da Leopardi a Eliot –, alieni da purezze parnassiane e intimismi spirituali, che coltivano una forte connessione con l’interesse collettivo degli ultimi, da cui possono derivare tensione a mettere in comune entro, appunto, la visione di una funzione formatrice.
Il sottotitolo richiama Rocco Scotellaro, modello espressivo radicato nel territorio di cui si fa voce e pensiero critico tutt’affatto localistico. De Napoli ne trae magistero e linfa per aprirsi a una riaffermazione dei più alti valori antropologici, attraverso una lunga serie di Voci rimaste pressoché inascoltate, qui evocate e incastonate nei versi con cognome e nome – Fortunato Giustino, Martino Antonio, Levi Carlo, De Martino Ernesto, Silone Ignazio, e Popia Antonio, Sinisgalli Leonardo ecc., per citarne alcuni – a imitazione delle elencazioni burocratiche e della relativa lingua ingessata. Che però dal testo viene denegata e ribaltata in sensi opposti, rovesciandone i moduli come una clessidra.
È un filamento delle scelte di stile di questo testo, che punta il dito sul linguaggio formalistico di chi ha gestito in modi ignobili la vicenda storicosociale italiana negli ultimi decenni. E articola una trama che conduce alle devastazioni di cui il testo fa come un inventario-rendiconto di quella che opportunamente è stata qualificata una catastrofe antropologica. Uno sbocco che non è piovuto casualmente dal cielo, ma ha padri e madri terreni, eroi del trionfo ideologico e finanziario del modello globale neoliberista.
Riuscire a dare forma di canto a temi che abitano poli come quelli suddetti è la scommessa difficile, su cui si è misurato Francesco De Napoli con questo poemetto – ma anche, peraltro, in tutto il suo percorso espressivo, Estraiamone qui alcuni stralci esemplificativi:
“La terra noi consumiamo da protervia/ infame appagati, indegni e vili mietitori,// dissipatori incauti di memorie e valori/ senza espiazione né remissione”. Sono i primi quattro versi, che danno il là alla tessitura testuale, tutta in distici” (p.11).
“Difficile riconoscere/ / la mala pianta che ammorbati letarghi/ intacca d’innocenti votati alla mattanza/ … sui fianchi franosi del Vulture ferrigno”. “”Poesia inesauribile dei castighi e delle fughe,/ ogni traguardo pare inibito alla speranza” (pp.12-13).
Ma con “la mia brilla e languida lamentazione…/ Scoprii disfatte ma ostili le antiche radici” (p.15) a “le trame del potere e le spire della piovra” (p.22), “tra i pidocchi rumorosi/ del capitale,,, Rocco,/ prova tu a pronunciare il tuo nome” (p.23), in “rime/ d’un arcaico rivoluzionario sentire” (p.24).
Si dipana, insomma, e declama un cantico dei conti e del vento di un autunno avverso, che non può tacere e lancia appelli per una disperata ricerca di salvezza umana. Sia pure nella coscienza del proprio “inutile, pletorico e patetico…querelare gramo”, contro il “risolino ebete dei santocchi annoiati,/ l’ironia condita d’un perbenismo ricercato” (p.19).
Dunque, benché senza illusioni il poeta risponde, tra accenti di umiltà autoironica, alla necessità di testimoniare la propria resistenza e il suo rifiuto: “L’incoscienza del poeta non avanza né arretra” (p.23), alimentata anche dallo sguardo fascinato dalla sua terra di origine; “A strapiombo sul mondo sono i picchi e i dirupi/ del lucano Appennino: lassù davvero ti cinge// dell’universo il mistero. Avvinto fissi luna e stelle/ sinistre e confidenti, castigate e incombenti” (p.38).

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