Di Corcis

Laura di Corcia – Epica dello spreco

Pubblicato il 7 febbraio 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Laura Di Corcia
EPICA DELLO SPRECO
Dot.Com Press, Milano 2016
pp.55, 10,00 euro

“Frontale”, ne definisce l’esordio Viola Amarelli, che evidenzia altresì la sua “capacità di utilizzare quasi magrittianamente” figurazioni e metafore; Laura Garavaglia, nella prefazione, non si limita a rilevare soltanto che la sua è un’opera già matura a dispetto della giovane età (essendo nata a Mendrisio nel 1982) ma aggiunge anche che possiede qualità e potenza “visionarie” e Anna Lamberti-Bocconi le riconosce una “voce” ben forte e autorevole nel proclamare, “a colpi di pensiero e di immagini”, una voglia di capire non comune, la decisione di esserci, a dispetto del “tempo” e del suo “enigma” indecifrabile.
Sto parlando della giovane Laura Di Corcia, che si propone all’attenzione (e all’ammirazione) dei lettori italiani e ticinesi con la sua raccolta Epica dello spreco meritandosi pienamente gli elogi che le stanno elargendo critici ed estimatori. Tra questi, oltre i già citati, vanno annoverati, innanzi tutto, il suo mentore, Giuseppe Langella, accademico ma anche poeta e critico, promotore assieme a Guido Oldani del Movimento del Realismo terminale, tenuto a battesimo nell’antologia Luci di posizione, poesie per il nuovo millennio (2017), poi il poeta Giancarlo Majorino, Maestro e già fatto oggetto di un suo pregevole profilo biografico-critico (Vita quasi vera di Giancarlo Majorino, 2014), e infine l’auctor per antonomasia, il ticinese Gilberto Isella, poeta verso la cui raccolta più recente, L’occhio piegato (2015), la giovane autrice ha sicuramente qualche debito, se non altro per certe tangenze tematiche e stilistiche.
Cosa c’è di notevole in questo suo libro? Due cose principalmente: il suo linguaggio poetico, innanzi tutto, e poi la capacità di orchestrazione delle sue tematiche intorno a un fulcro già ben evidente nel titolo.
Partiamo dal primo, dal suo disporsi e distendersi in maniera direi poematica, attraverso 25 lasse di diversa estensione, in una scrittura che si protende, molto sperimentalisticamente, in un flusso discorsivo dai molteplici livelli semantici per ritmi e toni, in un ductus espressivo molto marezzato e cangiante che, tra strutture ora brevi ora stroficamente più ampie e distese, si modella sull’andamento del pensiero e della riflessione (nel senso più letterale del termine di un soggetto che si ripiega e rispecchia su se stesso, sul paesaggio che lo circonda, e con esso si identifica, penso al testo 4), sul ritmo si direbbe del pensiero (diastole-sistole), per approdare progressivamente a un prosciugamento quale è quello che si constata negli ultimi testi.
Per quanto riguarda il secondo, la trama cioè dei contenuti, colpisce che tutto parta da una constatazione, che leggiamo nel primo testo, “Viviamo appesi a un dramma, / un’idea fissa ci perseguita” e che questo “dramma” angosciosamente consista, stando all’autrice, nel vivere tra la palude (nel testo 2) e il lago (nel testo 4), tra stagnazione e impotenza (ma anche pacificazione e rasserenamento), non senza però una forte tensione verso un “sogno” di cieli finalmente sgombri, verso un brillio di “stelle” da lasciare “a bocca aperta”, dopo essere scampati a una palude che, più che sanguinetiana (la “palus putredinis” di Laborintus) e manganelliana (penso alla Palude definitiva del ’92), somiglia a quella del poemetto Mundus Niger di Emilio Villa dallo spessore molto metafisico: come dire nell’attesa di un’essenziale “salvezza” di là da venire, che nel testo 35, il definitivo, è paradossalmente identificata nello “spreco” (“È nel più piccolo dei microcosmi / che puoi trovare la salvezza. / Non sai vivere se non sai sprecare”).
È un termine ambiguo, “spreco”: significa insieme dissipazione e inutilità ma anche investimento di energie, tanto più se coniugato al termine “epica”, che mette in scena un gioco di rapporti, generoso e fertile ma al tempo stesso fallimentare, una sorta di “hypnerotomachia”, di teatro ideologico e visionario nutrito di fantasmi e memorie, di speranze e illusioni, e che rapportato all’ambito della scrittura chiama in causa un’idea di espropriazioni e assimilazioni di modelli e stili diversi ben centrifugati (come non sentirci esplicitamente in questi testi Milo De Angelis, coniugato a certe soluzioni anche espressive dell’ultimo Majorino?).
Un’”epica” che è poi un’etica, un modo di essere, a considerare quel che si dice in un testo molto interessante, il 30, dove vengono evocate due figure letterarie e umane di particolare spessore, ossia Tasso e Ariosto. “Di unicità abbiamo bisogno, di Tasso e non di Ariosto”, dice, dopo aver precisato con enfasi ottativa “oh come gli atomi già formano una specie di strada / che sbrana i molti sentieri, accorpa le inutilità”: questo per dire che, nella coscienza dei limiti (“il confine fra chi sono e chi non sono”, testo 2), si privilegia un’attitudine seria e compresa della drammaticità delle cose, piuttosto che la leggerezza della fiaba.

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