Quattro quarti con Resto
Tiziana Antonilli, Le stanze interiori, Progetto cultura, 2019
Adam Vaccaro
Questo libro di Tiziana Antonilli, attraverso le sue quattro sezioni, sembra disegnare un percorso da fermo o circolare. Che parte dal mondo intrasoggettivo e dall’oscurità della solitudine, e somma approcci, aperture e colori diversi, interpolando, osservando, dando nomi all’Altro: persone, orizzonti, territori. Se il bilancio non risulta esaltante, e il moto tende a ripiegare al punto di partenza, la cesura non è a somma zero o lunare. C’è un resto, di un disegno più spiraliforme che di cerchio. Perché le domande, o la domanda di fondo, riguardano la mancanza di senso, che non può placarsi con una passeggiata chiusa che narra da casa a casa.
“Celebra lo schermo/ la breve vita di un pomeriggio:/ corto d’autore con lama rossa finale./ Per dare un filo al narrare/ e ai lividi senso/ si punta alla cima più alta/ ma si ingolfa presto la notte/ la penultima dell’inverno/ e bitume ricopre in fretta/ i titoli di coda.! (p.50). È una poesia che in-forma il nucleo-cuore della ricerca, delusa ma non arresa, dell’Autrice: “Non è cammino per piedi scalzi/ o con scarpe di bassa lega”, davanti al “pianto di chi vive a valle/…/ mentre l’inverno stringe allo stesso modo/ becero i polmoni! (p.51). Il percorso procede per immagini accese, non tanto su frammenti, quanto su ri-evocati squarci di vita. La tecnica è quella di uno spot mobile che illumina scorci, tranci, riportati dal Soggetto Scrivente nella propria stanza, che in tal modo assume un senso sia interiore che materico, di casa del Soggetto Storicoreale.
Diventa insomma, questo, il luogo adiacente che congiunge un piano e l’altro della molteplicità identitaria. Diventa esercizio di resistenza (senso sottolineato anche nella prefazione di G. Linguaglossa) e di ripresa di vita, per cui siamo ben oltre un senso intimistico del titolo. La stanza non è chiusa ma aperta, per non farne loculo, davanti al quale non ci resta che piangere. Il Resto, seppure deludente, è fonte di arricchimento di pareti illusoriamente sicure. Ché gli apporti dall’esterno all’interno non sono solo di arredo, per rendere meno triste e spoglia la dimora intima, ma testimoni e costruttori per tutti i livelli dell’identità soggettiva di una visione per la quale Senso e Altro sono due nomi della stessa Cosa, l’uno specchio dell’altro. Talché non può essere perseguito il bisogno vitale del primo, senza abbracciare, dibattere e combattere la terribile, violenta, affascinante complessità del secondo. Sostanza e materia, oggi, di realtà metropolitana, globalizzazione ecc..
Moto, Altro e (ricerca di) Senso sono i pilastri su cui si regge la struttura del libro, tutti nomi di apertura e interminabilità fenomenologica, che non trae alimento da un Essere – dio o altra ideologica fissità – ma da esseri, non solo antropologici, costituenti la poiesi della totalità: “com’è lungo il pomeriggio/ quanta festa ha in serbo/…/ Si rivoltano i vermi/ la luce avanza”, mentre “rantolano l’ultimo freddo gli stracci/ agli angoli delle strade” (p.24); “ombretto rosso sole/ inanellava il blu/ inarreso dello sguardo/…/ allora sembra di nuovo possibile/ che uno schiocco di dita/ ci inabissi all’istante”. Il verso suggerisce una torsione: nell’istante. Ma quale istante? Un infimo insignificante frammento, o quello che per un attimo ci inabissa nel nulla?
Il che comporta un’altra domanda: quale nulla? Del nichilistico pensiero unico dominante l’orizzonte neoliberista della postmodernità, o quel punto zero della oscillazione esistenziale – esplosione orgasmatica, biologica e mentale – da cui può ripartire la rinascita e la “Pienezza dell’esserci” (p. 34)? Punto su cui (ricordo Seamus Heaney), i versi offrono una ulteriore chiosa alla complessità relazionale tra identità singole/collettive.
Né chiusure psicotiche, né aperture inermi. Né casa chiusa, né fiducia acritica. Il brillìo e il dono di ogni tipo di relazione, non deve annullare la ricchezza delle duplicità, cadendo nell’illusione fusionale – di coppia o collettiva. La fonte vitale è molteplice, la sola “ricca d’acqua” che può “irrigare la vigna” (p.29) comune.
Il senso è dunque di percorrere l’inverno, per rinnovare dalla sua “pancia ruvida e nera…gli anni sottratti” (p.26) alle rinascite; e se il bilancio è in rosso e “Briciole hai ricevuto” (p.81), “nel mondo sconquassato/ …/ nella notte del senso” (p.87), se anche “fluttuavi/ da una malinconia all’altra” (p.92), perché “da noi l’alba è prematura” (p.51) e “l’estate è votata al fallimento” (p.95), il compito e il senso non arreso dell’amore antropologico, comanda: “va’ dissoda semina/ non altro t’affolli le ore” (p.41). È il moto vitale dalla notte al giorno, dall’inverno a possibili stagioni luminose della memoria, sempre presenti e sempre passate, in cui “la luce inventava il mare…Durata l’attimo che ci conquistò la meta/ la speranza” (p.43); tra “i germogli notturni…nel ciclo dei gesti, /quelli che aprono e restano/ lasciando dischiuso/ dei finiti il cerchio” (p.44).
Chiudo questa lettura con i bellissimi versi di p. 63: “certi che il Vuoto si sarebbe cibato di noi/ sgorga/ dal lago immobile che si piega sui larici/ duplicandoli in nascite infinite” (p.63). Versi che ci parlano dello spaziotempo furente, liquido e statico in cui siamo, dicono di quel noi e di quel Resto che rimane, che ci chiama e non può essere ridotto a zero: è solo da lì che può essere continuata la rincorsa vitale del Senso.
Febbraio 2020
Continua a leggere »
Commenti recenti