Pubblicato il 22 marzo 2021 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro
Lucia Mangili
Sul mare c’è un ponte di carne viva che ho rotto, Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., 2020
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Adam Vaccaro
Poesia e/è memoria. È il nucleo e il cardine su cui ruotano le quinte affettive di questa raccolta di poesie di Lucia Mangili. Che è arricchita da opere pittoriche della stessa Autrice, e che riafferma il valore della relazione, quale bisogno di lasciti e scie memoriali di una libertà che non sia belato su alberi di solipsismo, coltivato da una “arida distesa di filosofi moderni” (p. 21): poesia “Sensi”, parola polisemica e tipico gatto di Schroedinger, famosa ipotesi quantistica di bilocazione. Nella mia ricerca dell’Adiacenza, ho traslato e applicato tale possibilità all’analisi di un testo, focalizzando microtesti quali ponti e nodi bi o trilocati in più livelli, speculativi e sensitivi, della nostra mente. Ovviamente, se questa è concepita come funzione di quello che Rita Levi Montalcini chiama cervello bagnato, cioè non delimitato dalla sola scatola cranica.
Ecco, trovo innervato nel percorso di questo libro la tensione (per me fondamento di poesia) alla totalità molteplice della vita, che nel singolo è unità indivisa di corpo e anima, con implicito pensiero critico delle doppietà teologico-filosofiche dei platonismus perennis. La ricerca poetica, se va oltre i recinti dell’Io, si apre a pendici e sprofondi del Sé, alle visioni utopiche del Superìo e ai mai raggiunti domini dell’Es. Senza di che rimaniamo sterili monadi, incapaci di perdersi e ritrovarsi nelle relazioni che alimentano il processo interminabile di autopoiesi (Maturana e Varela) della nostra identità.
Tutto nasce dalla relazione, che si fa musica, immagine e parola, pensiero, cosa e mondo. E se la poesia si fa forma e voce di tale processo complesso, tenderà ad andare oltre i limiti segnati dall’Io, incarnando tensioni alimentate e alimentanti sensi dell’eros e del sacro. Due nomi e cose che nei mistici trovano particolari e inestricabili esaltazioni, e che (ir)rompono oltre gli argini del sacer, in cui diventiamo attori e spettatori del caleidoscopio dei fragili splendori della vita, che incanta e impaura, ci appartiene e ci sfugge.
L’acqua è l’immagine simbolo dello stato amniotico che rimane impresso per sempre nelle nostre cellule, fonte metamorfica della nostra carne, che muore se non si intreccia e mischia “fino al midollo” in platoniani attimi di infinito con l’Altro. Quegli attimi in cui celebriamo la stazione di una petit mort, senza la quale non sapremo mai la magia della rinascita d’amore. Per cui “se tu ti incrini/ anche io rotolo e affondo” (p. 9). Ma è il rischio ineliminabile del gioco della vita, che denuncia ogni strumentalizzazione ideologica di promesse di sicurità assolute – in contesti pandemici o meno.
È la pedagogia senza cattedre della poesia adiacente alla fenomenologia della vita: rompere limiti è rompersi, ed è porsi nella cesura tra sacro e profano, tra morte e vita, nel paradosso della morte partoriente (Gabriella Galzio), con sguardo e canto che pare di una hybris idiota che declama “la morte non esiste/ assiste” (nel mio Strappi e frazioni, 1997). È un oltre sensi consueti, che questo libro riafferma altrimenti: “Oltre (da) te – Dopo di te perduti” (p. 60), occorre saper ritrovare “La carne nelle ceneri/ di qualunque Altro” (p. 61).
21 marzo 2021
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