LA TRAGICOMMEDIA DELLA (RI)ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Prima, durante e dopo: Autori invisibili e Guitti in cerca d’Autore (*)
ADAM VACCARO
L’indecoroso spettacolo cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, e non il primo negli ultimi decenni, nel corso dei quali grandi elettori sono rimasti impantanati nel rito della elezione del Presidente della Repubblica, ha fatto risaltare la crisi del sistema rappresentativo italiano, nella forma attuale di leaderismo personalistico, che fa ricordare derive oligarchiche. Deduzioni che possono apparire improprie, se non si considera che il popolo non elegge più i propri rappresentanti, e che quelli attualmente eletti sono stati scelti tra fedelissimi e non tra i migliori. Sono frutti marci di leggi elettorali illusoriamente furbe di tale leaderismo, prima col c.d porcellum (o mattarellum) e poi col rosatellum, che avevano il preciso obiettivo di una democrazia priva di sostanza e linfa vitali, ridotta a una ritualità esangue, di un sovranismo autoreplicante e autoelettivo.
Il risultato ovvio è che quasi il 50 % degli italiani, nauseato, non sia più andato a votare, non riconoscendosi nei nomi proposti da comitati ristrettissimi di fantasmi-partito rispetto a quelli di circa 50 anni fa. I quali erano corpi politici con strutture, visioni e interessi – pur contrapposti – radicati nel corpo sociale, attraverso circoli e altre sedi di discussione tra rappresentati e rappresentanti.
A che cosa è dovuto il passaggio dal partitismo a questo leaderismo antidemocratico? Penso che occorra capire le cause di fondo che hanno determinato il degrado e lo sgretolamento delle strutture precedenti, avvenuto per ragioni tutt’altro che misteriose e incomprensibili. Sono ragioni e logici risultati connessi, per me, alla affermazione della visione neoliberista del capitalismo globalizzato, per il quale le furiose innovazioni tecnologiche sono state e sono armi fondamentali di potere finanziario e di controllo delle masse.
I partiti degli anni ’40-70 sono stati spezzati e spazzati via più che da azioni giudiziarie, da una erosione e cooptazione crescenti di tale turbocapitalismo, che è riuscito a smontare come tasselli di un domino il precedente assetto. Per il pensiero unico neoliberista, lo Stato sociale, che esercita controllo e redistribuzione della ricchezza prodotta, è un residuo retrivo, fonte di “lacci e lacciuoli” nemici di sviluppo e progresso – termini-coperchio di profitto privato vs interesse pubblico, cardine della nostra Costituzione.
Il primo decisivo colpo è stato assestato nel 1982, quando – grazie ad Andreatta e Ciampi, e nel silenzio assenso di tutti i partiti, compreso il PCI – venne decisa, con un atto amministrativo e senza discussione parlamentare, la privatizzazione della gestione del debito pubblico e della Banca d’Italia. Quanti Italiani sono stati coinvolti dai loro partiti nella discussione su tale grave mutamento d’indirizzo, deciso da una decina di architetti finanziari, tra cui Mario Draghi, in una riunione sul panfilo della Regina Elisabetta al largo di Ostia?
L’esproprio dell’interesse pubblico, col contemporaneo svuotamento di potere di rappresentanza e controllo dei partiti, era avviato. La diga era rotta e ciò che seguì fu una piena di privatizzazioni, con risultati che non potevano che essere quelli che abbiamo sotto gli occhi (per chi li vuole vedere), in primo luogo disparità socioeconomiche crescenti – cause di fondo della crisi della sinistra.
Ma proprio per questo, la strategia della globalizzazione neoliberista scelse di avere come interlocutori privilegiati i gruppi dirigenti dei partiti della sinistra storica, in primo luogo il vecchio PCI. I processi contro la diffusa corruzione politica, messi in atto da Mani pulite, sono stati certamente utili alla strategia di tale rinnovato capitalismo, liberato da ogni freno. Ma se il PCI fu l’unico tra i vecchi partiti a non essere travolto dall’azione giudiziaria, per il suo smembramento e la sua cooptazione nel nuovo orizzonte, bastò l’azione diretta e vincente dei capitali coraggiosi.
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