Scrittura e Letture

Elisabetta Sancino – Collezione privata

Pubblicato il 17 luglio 2021 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Elisabetta Sancino, Collezione privata
Puntoacapo Editrice, 2021

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Adam Vaccaro

Il viaggio offerto da questo libro si svolge attraverso sale espositive in cui l’Autrice ha accumulato memorie culturali ed emotive (anche) con la sua attività di “promozione della cultura e dell’arte”, come cita la notizia biografica. Ne è derivata una collezione privata di opere, che costituiscono il pre-testo e una sequenza lungo secoli e temi, da cui è nato il testo.
Chi è il primo beneficiario/destinatario di questa operazione di scambi creativi tra verbale e visivo? Sono certo operazioni con lunga tradizione, come ricorda nella prefazione Cinzia Demi, che opportunamente rileva l’intento, altro dal “descrivere le opere”. È infatti evidente la sollecitazione primaria della propria interiorità – in primo luogo della parte inconscia, normalmente muta e come sappiamo, la più sedotta da colori e immagini.
Ne derivano forme di un tamburo visivo, teso a far dire all’Altro in sé “parole che vedo nella mente e non riesco a scrivere” (p.20). È l’approccio ri-creativo e il programma di ricerca espressiva, che opere informali (come quelle di Giulio Turcato o di Piero Dorazio), con flussi di colori al limite di carte da parati, sono ovviamente pungoli e spilli metamorfici di gambi e steli “lungo l’argine/…dentro me stessa…nella traversata per raggiungere casa”, “amori tornati in vita” (p.18) “lungo la curva odorosa della terra/ la sua pazzia” (p.19). Argini lungo “canali irrigui/ come Ofelia, ma senza l’argento delle sue vesti/ la sua dolce follia”, “con quello strappo necessario/ per trapiantarsi altrove” (p.21).
Parlare dunque con l’Altro è il fine primario, per andare oltre l’hortus conclusus della propria casa, se intesa come reggia dell’Io. Dov’è allora la casa cercata, quella con stanze inconcluse, dove si nasconde “la mia anima…la sua traboccante dolcezza”? Che, se rincorsa “con un ferro arrugginito”, della ragione supponente, nessuno potrà “mai raggiungerla” senza “La dilatazione del corpo/…una luce viva/ oltraggiosa quanto può esserlo una mano/ quando scava nell’intimo delle cose/ che non hanno parole” (p.45), Di qui il progetto di generarle da immagini e colori, facendo di questi un tam tam para-sciamanico scenografico, su cui attaccare come post-it, fiori e chiodi emersi dal sogno e dalla memoria.
Le sei sale del libro si snodano in tempi e forme, da aure mistiche riviste in echi laici, fino ad aloni di eros e d’amore, denudati e innervati in una visionarietà necessaria agli inesausti sensi complessi cercati. I quali rilucono, come in un taglio di Fontana, nella chiusura aperta dell’ultimo testo, “Il poeta che dorme (Marc Chagall, 1933)”, col suo invito a svegliare il poeta che “non scrive dorme/ non urla sogna”, mentre “la parola/ non scritta vola” (p.84), tra i cento piani e colori del suo universo. E nemmeno Ulisse-nessuno sa se troverà un punto, una punta, di esserci, di pace.

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Claudia Azzola – Tutte le forme di vita

Pubblicato il 14 luglio 2021 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Claudia Azzola

Tutte le forme di Vita, La Vita Felice, Milano, 2020

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Questo libro risponde, a partire dal titolo, alla visione – per me fondante – della Poesia. Che nomino con la maiuscola, a indicare la sua totalità, nello spazio e nel tempo. Totalità che è qui dichiarata e cercata “legge di verità”, che deve misurarsi sempre “tra lo stantio e il rinnovarsi” (p.9), senza mai poter sperare di chiudere il cerchio tra sogno e realtà, quale splendidamente sintetizzato dalle due mani di Michelangelo nella Cappella Sistina, che stanno per toccarsi, ma mai ci riusciranno.
Il tutto, promesso dal titolo e rincorso dal testo, non è qui dunque – conoscendo il percorso dell’Autrice – supponenza di una hybris espressiva, ma tensione formale che pur sapendo i suoi limiti, è lievito e linfa irrinunciabili di vita e ricerca incessante (termine costitutivo, in versi e in prosa, di Claudia). Tensione che si pone all’ascolto dei rintocchi “del metronomo” che “alle porte di verità e del bello/ attendono il bardo che canti.”, e con “il suo clamore”, annunci e solleciti, se “hai una forma, falla sbocciare,/ come la rosa mundi…speranza fior del verde” (p.9)
Sono i versi d’abbrivio del libro, tessi a spazzare via ombre notturne che la casa e chi la abita hanno dovuto sopportare fin troppo. Ombre che a caccia di congiunzione adiacente tra gioco verbale e senso critico della “neolingua, ipertrofia globale” (p. 44) diventa “Oombra mercuriale Oombra di ferro” (p.46), onomatopeia dell’avviso, “si prepara un buio mai visto”, cui il testo contrappone, “Ricorda la forza dei padri che hanno/ seme del centauro”, benché “parte del/ disordine del cosmo” (p. 36), E allora occorre scollarsi di dosso questo assurdo peso pagato a dazieri che pretendono di essere tutto, e aprire porte e finestre a un altro senso del tutto, che scende come pioggia sotto un nuovo sole, lungo versi che sanno di rugiada, di mattinata che si apre alla luce: “’apri le ali’/ disse parlando dell’anima/ Socrate a Fedro” (Ibid.).
“Il gallo ha beccato nella rosa/ il miele giallo, ha disgiunto il cosmo”, e in tanto “L’ape congiunge all’universo il fiore” (p.10), suoni e immagini di vita che si ricrea, all’unisono con la gioia e il moto immessi e trasmessi da questi versi. Una gioia che scorre su sensi e suoni quali ad esempio una divertita serie di bombi (insetti), bombarde, strumenti musicali e di guerra, fino a bombicino (tessuto serico), che non sono gratuiti joeux de mot ma ricerca di musica e lingua che attraversino e abbraccino storia e natura. Continuando a domandarsi, “dove/ si deve andare?”, “dove si nasce?”. E mentre “Il raggiare degli insetti dotati/ di un organo una punta di cervello/ scuote il fondale del silenzio” (p.11), “possa il dio del campo insegnare/…/ pensanti insetti velari bruciati”, fin dove “C,est tout. C’est fini”, fin dove “colà nessun senso vi scorre.” (p.12).
Mi interessa qui dunque sollecitare la lettura di un libro che sin dalle sue prime pagine trasmette una carica di amore per la vita, che si traduce da subito in pensiero critico della visione imperiale globalizzata degli attuali responsabili della governance umana. Senso del sacro e biologia sono congiunti in “Un discorso che stiamo facendo”, “un profondo respiro nella vita/ (è ancora così?)…coperti di fango…resettati nelle abitudini…spettri di un mondo, ombre” (p. 18), di “Una genia di fast food e slow-food” (p.19). “Spuntano neologismi già putridi…insozzano la parola di spot” (p. 44), su cui la luce di chi non rinuncia punta l’indice: “che sarà della bellezza?/ Della vita civile? Dell’inconscio?”, mentre conta “la voce del mercato” (p. 45). Una pretesa di essere tutto, cui il libro oppone un’altra voce, gioiosa e impietosa, intrecciata nei versi e in una postfazione, necessaria quanto imposta dal pensiero furente, fonte di queste forme.

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Gabriella Galzio – Voglia di partire

Pubblicato il 9 luglio 2021 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Gabriella Galzio, Voglia di partire
Moretti & Vitali, Milano, 2021

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Adam Vaccaro

Questo libro di Gabriella Galzio è raro e prezioso, per il suo risalire alle fonti del proprio dire. Un ritorno sotto il segno del nostos, per me radice originaria del poièin, che non è liquore nostalgico o viaggio a testa indietro, ma necessaria ripresa del proprio nucleo costitutivo, al fine di rinnovare il bisogno di partire per ridare slancio all’incessante autopoiesi e capacità di rinascita, lungo il percorso vitale nell’ignoto, interiore ed esteriore.

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Alberto Bertoni – L’isola dei topi

Pubblicato il 5 luglio 2021 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Alberto Bertoni

L’isola dei topi, Einaudi 2021

Quello che ho scritto di recente – https://www.milanocosa.it/anticipazioni/anticipazioni-alberto-bertoni – su alcuni inediti di Alberto Bertoni, lo ritrovo confermato nella più ampia macchina emozionale di questo libro, dal percorso che diventa nel lettore eco fraterna del proprio. È il risultato di una scrittura che sa donarci con ormai matura cifra stilistica, stazioni di un viaggio – attraverso memorie collettive e personali, territori familiari e orizzonti altri, splendori vitali e orrori, abissi di piccole-grandi menzogne dell’io-tu – della ansimante ma inarresa ricerca di Senso nel caos incessante di “questa sarabanda di teatro”. Che scova, “a giocare col fango”, non si sa come e da dove, il lampo che illumina: “E in principio fu il Verbo” (p.104), Improvviso e (quasi) inatteso brillio di quell’attimo che placa un po’ la sete di virtude e conoscenza delle formiche nere sulla carta, la loro fame di energia per proseguire.
È una cifra che apre ed entra in noi, in un intreccio di ironia, sapienza e umiltà, oggi quanto mai necessarie perdute stelle nella nebbia storica della crisi socio-economica e culturale in cui ci dibattiamo. È l’atteggiamento generale che genera uno stile riconoscibile, col quale Bertoni ricorda e rielabora insegnamenti antichi e recenti (Montale, Sereni, Giudici, Sanguineti, Antonio Porta, e americani come Simic e Wright) in moti auspicabili tra stanza e strada – qui immessi in una coniugazione adiacente di basso e alto, di un ossimorico sguardo che incarna transitività terragna, fortemente innervata nelle radici emiliano-romagnole.
Pongo perciò l’accento, prima che sul respiro ritmico, su questo taglio di occhi sul crinale tra il Sé, l’Altro e l’Oltre. Su cui l’Autore riesce a far fiorire ironia e attimi capaci di appiattire le montagne russe dei patemi del quotidiano: “Tieni conto che nel giro di un secolo/ avremo il mare a Modena” (p.6). Una sorta di saggezza che aiuta ad acquisire distanza, intesa come messa a fuoco e misura delle cose. È questo sguardo che riduce l’io: ”quali e quanti stabilimenti balneari/ sorgeranno nei quartieri eleganti/ di Sant’Agnese e Buon Pastore/…/ che vivrò solo da morto/ non importa se nel Duemilacento/ o poco dopo…(ibid.), cui seguono parole rivolte a un tu “fra le piegoline bianche/ dell’Adriatico che ami// Io molto meno, lo confesso/ in balia delle onde del Tirreno/…/Stavo immobile al sole/…/ nell’ultima moribonda luce” (p.7).
Tutte le ansie dell’Io sembrano (sembrano!) placate, ma intanto lo sguardo apre spazi agli altri sensi (e relative lingue) e regala se fragili attimi di respiro di vita. Ed è qui che agisce il ritmo dei versi, moltiplicando alimenti per chi scrive e per i lettori: “le sistoli e le diastole del mare/ che si tende o si apre/ di sei ore in sei ore/ …/ avanza e si ritira/…/Io e te con le facce come/ cortecce di rughe/ …/ E così, rimanendo tali e quali,/ fruste di salici, ali/ potremo all’infinito ricordarci” (p.5).
Crinali di versi che sanno coniugare condivisioni e distanze, transitività e complessità dell’infinito processo fenomenologico della nostra vita. Che chiede, quanto più ci è cara, di “esserci” (Seamus Heaney), con un verbo-verità coagulato qui nell’immagine dei topi, metafora multipla di inconscio, repulsione etica e poteri nascosti/visibili, che ribollono sotto i nostri piedi e sotto un cielo chiuso a sogni di umano, topos centrale di senso del libro: “Viene da lì il pericolo/…il mostro…con passo furtivo/ nel sottosuolo” (p.108), con-fuso ora a “rischio di un contagio…a tutt’oggi misterioso e ancora privo di orizzonte e di utopia.” (p128).
Milano, 28/05/2021

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Lucia Mangili – L’Acqua e L’Altro

Pubblicato il 22 marzo 2021 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Lucia Mangili
Sul mare c’è un ponte di carne viva che ho rotto, Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., 2020

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Adam Vaccaro

Poesia e/è memoria. È il nucleo e il cardine su cui ruotano le quinte affettive di questa raccolta di poesie di Lucia Mangili. Che è arricchita da opere pittoriche della stessa Autrice, e che riafferma il valore della relazione, quale bisogno di lasciti e scie memoriali di una libertà che non sia belato su alberi di solipsismo, coltivato da una “arida distesa di filosofi moderni” (p. 21): poesia “Sensi”, parola polisemica e tipico gatto di Schroedinger, famosa ipotesi quantistica di bilocazione. Nella mia ricerca dell’Adiacenza, ho traslato e applicato tale possibilità all’analisi di un testo, focalizzando microtesti quali ponti e nodi bi o trilocati in più livelli, speculativi e sensitivi, della nostra mente. Ovviamente, se questa è concepita come funzione di quello che Rita Levi Montalcini chiama cervello bagnato, cioè non delimitato dalla sola scatola cranica.
Ecco, trovo innervato nel percorso di questo libro la tensione (per me fondamento di poesia) alla totalità molteplice della vita, che nel singolo è unità indivisa di corpo e anima, con implicito pensiero critico delle doppietà teologico-filosofiche dei platonismus perennis. La ricerca poetica, se va oltre i recinti dell’Io, si apre a pendici e sprofondi del Sé, alle visioni utopiche del Superìo e ai mai raggiunti domini dell’Es. Senza di che rimaniamo sterili monadi, incapaci di perdersi e ritrovarsi nelle relazioni che alimentano il processo interminabile di autopoiesi (Maturana e Varela) della nostra identità.
Tutto nasce dalla relazione, che si fa musica, immagine e parola, pensiero, cosa e mondo. E se la poesia si fa forma e voce di tale processo complesso, tenderà ad andare oltre i limiti segnati dall’Io, incarnando tensioni alimentate e alimentanti sensi dell’eros e del sacro. Due nomi e cose che nei mistici trovano particolari e inestricabili esaltazioni, e che (ir)rompono oltre gli argini del sacer, in cui diventiamo attori e spettatori del caleidoscopio dei fragili splendori della vita, che incanta e impaura, ci appartiene e ci sfugge.
L’acqua è l’immagine simbolo dello stato amniotico che rimane impresso per sempre nelle nostre cellule, fonte metamorfica della nostra carne, che muore se non si intreccia e mischia “fino al midollo” in platoniani attimi di infinito con l’Altro. Quegli attimi in cui celebriamo la stazione di una petit mort, senza la quale non sapremo mai la magia della rinascita d’amore. Per cui “se tu ti incrini/ anche io rotolo e affondo” (p. 9). Ma è il rischio ineliminabile del gioco della vita, che denuncia ogni strumentalizzazione ideologica di promesse di sicurità assolute – in contesti pandemici o meno.
È la pedagogia senza cattedre della poesia adiacente alla fenomenologia della vita: rompere limiti è rompersi, ed è porsi nella cesura tra sacro e profano, tra morte e vita, nel paradosso della morte partoriente (Gabriella Galzio), con sguardo e canto che pare di una hybris idiota che declama “la morte non esiste/ assiste” (nel mio Strappi e frazioni, 1997). È un oltre sensi consueti, che questo libro riafferma altrimenti: “Oltre (da) te – Dopo di te perduti” (p. 60), occorre saper ritrovare “La carne nelle ceneri/ di qualunque Altro” (p. 61).
21 marzo 2021

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SALOTTO CARACCI CON ADAM VACCARO

Pubblicato il 2 marzo 2021 su Eventi Suggeriti da Maurizio Baldini

SALOTTO CARACCI CON ADAM VACCARO

Con un pensiero speciale ai cari Annamaria De Pietro e Marcello Montedoro!

E anticipo il link Zoom ai tanti amici… si parlerà anche di voi!

Adam

ROBERTO CARACCI ti sta invitando a una riunione pianificata in Zoom.

Argomento: SALOTTO CARACCI CON ADAM VACCARO
Ora: 4 mar 2021 06:00 PM Roma

Entra nella riunione in Zoom 

ID riunione: 940 7018 6026
Passcode: RsRC1A

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Claudio Zanini – Carrozza n°7

Pubblicato il 24 febbraio 2021 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Un treno verso il nulla

Carrozza n°7, Claudio Zanini, Edizioni Bietti, Milano 2017

 Adam Vaccaro

(Vedi anche a: Vaccaro (“Odissea” lunedì 1° marzo 28 2021) 

https://libertariam.blogspot.com/2021/03/un-treno-verso-il-nulla-di-adam-vaccaro.html)

Cercare di uscire beneficamente dal fiume prevalente di narratività perimetrate da vicende solo personali, per ritrovare esperienze emozionali e conoscitive, entro scenari collettivi e storici. Sono orizzonti che implicano misure con la complessità del contesto storicosociale, con visione e pensiero critico, capaci di dare corpo a realtà e immaginazione, come ad esempio nella realtà parallela de L’Uomo senza qualità di Musil.

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Echi di Identità Bonefrana a Milano

Pubblicato il 20 dicembre 2020 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Echi di Identità Bonefrana a Milano
Segnalo una approfondita analisi dei vari temi e linguaggi del mio libro Identità Bonefrana, proposta nel corso dell’incontro del 15 dicembre scorso al Salotto Galzio – ovviamente con Zoom -, vedi link al video video , e basterà cliccare sui tempi (in azzurro) per accedere alle singole parti. Ora, il testo dell’Autrice è stato pubblicato sulla Rivista Online Odissea, vedi a

https://libertariam.blogspot.com/2020/12/il-destino-di-esse-re-di-gabriella.html

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Donato Di Poce – Il limpido e il sommerso

Pubblicato il 8 dicembre 2020 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Donato Di Poce, Il limpido e il sommerso

Riflessioni su Lampi di verità, I Quaderni del Bardo ed., Lecce 2017
L’altro dire, Edizioni Helicon, Fano 2020

Laura Cantelmo

Di Donato Di Poce colpisce prima di tutto l’indipendenza nel rivendicare, con toni di pacata polemica, la propria “normalità” di uomo e di artista. La “normalità” di chi scrive versi, in generale, è in realtà un ossimoro, sia per chi osserva dall’esterno del mondo letterario, sia per chi si trova ad affrontare quotidianamente la sfida della parola, della musica, del mistero che in parte costituiscono la sostanza della poesia. Infatti insita nella natura stessa di quest’ultima – come dissero i formalisti russi più di un secolo fa – è la ricerca dello slittamento semantico del linguaggio al fine di rendere nuova e sorprendente l’immagine rispetto agli stilemi della consuetudine quotidiana. Il bello (o forse anche il brutto) di questo nostro tempo che ci vede scrivere nonostante tutto, è dato, a partire dal secolo XIX, dalla scomparsa quasi totale di codici linguistici all’interno dei quali poeti e versificatori si trovavano ad operare entro forme prefissate, rispettando regole ineludibili che costituivano lo statuto della Poesia in termini di linguaggio, di tessitura di immagini oltre che di suoni e di rime, e quindi di musica. Una sorta di gabbia dorata, concessa ad esseri ispirati da Muse che, pur nella faticosa adesione alle norme, li tutelava e li metteva al riparo, almeno in parte, da critiche feroci, nella consapevolezza che la poesia che affascina e conquista è comunque una rara e misteriosa fusione di pensiero e di intima armonia. C’è chi plaude alla scomparsa di quel sistema di norme e chi ne sente la mancanza. E c’è chi si muove con disinvoltura all’interno di questo mare magnum di conquistata libertà, senza però dimenticare il passato. Ed è a quest’ultima categoria che Di Poce appartiene. Parliamo di un Autore al quale sta principalmente a cuore esprimere il proprio Io senza torsioni semantiche e sintattiche, ma in modo limpido, privilegiando il livello pittorico delle immagini che scaturisce dalla sua attività di artista visivo.
E che non rifugge da strumenti retorici di carattere morfologico, quali assonanze e allitterazioni (“Cercheremo…Scaveremo…Sveleremo…Cancelleremo…) o da anafore, nell’intento di rafforzare concetti il cui significato viene dilatato dalla ripetizione e dalla concatenazione di unità linguistiche, facendo trapelare, con piccole sfumature semantiche, la parte sommersa e più vera del Sé. “Lampi di verità/In un’Italia piccola e impura,/Un’Italia che stava già smarrendo/ I bozzoli dell’utopia e della ragione.” Così recita il testo di apertura di Lampi di verità (che raccoglie poesie a partire dall’anno 2000), dedicato a Pierpaolo Pasolini e ad Enrico Mattei, introducendo il tema alla crisi morale, politica ed economica del nostro paese. Ed ecco il progetto che si manifesta in una poesia di intento civile:”Noi cercheremo/ Quella verità che sgorga dal vero/ E quella poesia che fa sognare/ Un nuovo mondo e un nuovo futuro”. Toni accesi e quasi messianici, dettati da una speranza che stentava a svanire (questo testo è ascrivibile al 2012) a cui succedono strofe che formano acrostici, attraversando vite di scrittori, di amici e luoghi della memoria come “Binario 21”, riferito alla tragedia della Shoah. Una scrittura che con varie modulazioni narra la solitudine dell’uomo (“voce del silenzio”), il desiderio d’amore, la scelta di uno stile privo di orfismi e di compiaciuti giochi linguistici: “Bisogna uscire da Sé/ Dal proprio buio/ Dalla propria assenza/…/Dire basta ai luoghi comuni/ Ai ricami delle parole innamorate…” (“L’Altro dire”).
Nella silloge omonima questi versi costituiscono una bella dichiarazione di poetica, con una dedica non casuale alla figura di Carmelo Bene, artista che volle “uscire dalle trappole del proprio genio” (pag.11), facendo della sua pervicace diversità attoriale un vanto che lo espose sia a critiche pesanti che ad entusiastici successi. L’uso metapoetico dei propri versi serve a Di Poce per manifestare in modo diretto la propria poetica, sempre all’interno di una vena polemica, ora esplicita, ora più velata. Una affermazione della propria identità di scrittore, della propria scelta stilistica, della propria libertà linguistica e di pensiero. Una poesia che sottolineando il valore della chiarezza e dell’autenticità si inerpica per ripidi sentieri in cima ai quali stanno il mistero, l’indefinito, il visibile e l’invisibile, evitando l’effetto straniante dovuto alla trasgressione dal linguaggio comune: “Grafèmi, fonemi, lessemi/ Lasciavi tracce ovunque/…./ Cercatore di armonie e polisemie/ …./ Donaci la grazia di un raptus CreAttivo/…/ L’Eco selvaggio del dolore/ Di un mondo che muore ogni giorno/ Inondaci di grafèmi, ma di poesia sazziaci”. (“Grafèmi”). Quello che un mondo ottuso “senza dignità” non vuole vedere, quelle “bare d’acqua” sommerse in un mare di indifferenza, sono la scena reale, la tragedia dei migranti, le vite inghiottite dal mare che solo il ”poeta immenso” vede. Il dolore, sempre sotteso, è insito come destino ineluttabile dell’umanità, persino nella scrittura, che può ridursi a “macchie d’inchiostro”. Così pure l’amore, rappresentato da indecifrabili figure femminili, riconducibili a personificazioni allegoriche della ispirazione poetica . In fondo ciò che Di Poce vuole è affermare la propria essenza di Uomo nel senso più autentico, aperto alla realtà del mondo e al dolore dell’Altro. “Ombre dal fondo”, seconda sezione della silloge L’altro dire, sviluppa il tema della la personalità dell’Artista demiurgo, creatore e distruttore delle proprie opere, consapevole della indipendenza della propria arte tra muri di separazione e ponti di condivisione. E poi, nella terza sezione, “Conseguito silenzio”, l’Autore approda alla sintesi del discorso che è andato dipanando: “Elogio dell’imperfezione” e “Conseguito silenzio” raccolgono segni di consapevolezza dell’umano limite, che conducono il poeta Di Poce a una catartica leggerezza, degna di un finale sfumato di contenuta ironia e demiurgica teatralità: “…In un silenzio creativo/ Ho posato la penna e non ho scritto più nulla/ Finalmente vivevo come avevo sempre sognato/ Conseguito silenzio!”
Milano, Novembre 2020

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Il Breviario di Gabriella Galzio

Pubblicato il 17 ottobre 2019 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Il velo la veste e le risposte di Gabriella Galzio
In Breviario delle stagioni, Agorà &Co Ed, 2019
Adam Vaccaro

Viene detto abitualmente, nel circuito ristretto degli addetti e appassionati di poesia, che ad essa non compete dare risposte ma solo, o soprattutto, fare domande. Col suo ultimo libro Gabriella Galzio conferma invece anche su questo la sua specificità anomala, perché offre con testi poetici e notazioni collaterali, sia domande aperte, che personali stimolanti risposte.
È un atteggiamento generale di responsabilità della scrittura, che va oltre la propria soggettività, e ricerca forme che riescano a mettere in comune (caro non solo ad Antonio Porta) riflessioni e percezioni, disagi e gioie del nostro vivere qui e ora. È ricerca di una poesia che non sia gesto appartato e appagato di sé, ma lingua condivisa “che finalmente possa parlare a un comune lettore…insperato dono della poesia, che pure mantiene i suoi segreti di tèchne” (p.117). È dunque un esercizio tutt’altro che naif, ma di elevata coscienza della complessità costitutiva del poièin e del suo farsi:
“Oggi ho mangiato pane e neve/ viola e violino…/ nella bianca fontana…nella madia di Vesta, nel quieto velo” (p.12); sogno una poesia/…candore di pane” (p.13); sono i primi versi del libro, in forme di lampi e musica lenta, frammenti e briciole, di un Pollicino che vuole ritrovarsi e farsi ritrovare in un velo che qui è forma e sostanza di poesia. È un candore-tensione di apertura e ricerca di calore e nutrimento, con immagini di neve congiunte a pane (ricordiamo la sentenza contadina, sotto la neve pane), primo alimento che sa beffarsi della morte mentre muore in bocca, perché sa che solo morendo può (ri)farsi corpo vivo.
È dunque l’innesco di un piano di complessità metamorfica, interminabile, di clessidra che continua a rovesciarsi. Di un tempo fuori da ogni delirio di tempo lineare. E il biancore donato da neve-pane non è qui immagine retorica, tantomeno maschera, ma velo adiacente, distinto ma non distante, dalla carne e dall’anima di chi scrive.
Sono sequenze strettamente connesse tra corpo operante (relazioni, emozioni, gesti della prassi vitale) e gesto scrivente, che pur sapendo di elaborare altro dal corpo, fa cantare e vincere la gioia di farne corpo ulteriore del proprio corpo. La poetica adiacente di Gabriella è lucidamente esposta e concentrata in luminose sintesi: “stai nella forma, stai nel grande velo”, “nel cuore il velo”, quindi è poesia in cui carne e carta tendono a essere con-fuse, perché sa che solo così ricrea gioia e conoscenza, meglio, gioia della conoscenza: “sii al velo grato, sii beato” (p.16).

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