Scrittura e Letture

Stefano Vitale – L’oltre e l’altrove della Poesia

Pubblicato il 29 gennaio 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Stefano Vitale, Si resta sempre altrove, puntoacapo, 2022

Domande aperte oltre l’eclissi del senso
Adam Vaccaro

Questo libro di Stefano Vitale è profondamente innervato nel terreno della crisi del senso in cui si dibatte il soggetto occidentale nella fase storica, sociale, economica e culturale, definita spesso con un termine sommario quale postmoderno. Da parte mia preferisco riferirmi altrimenti a questa fase di cambiamenti epocali o capitali – e uso questo termine non a caso –, in quanto tali mutamenti hanno radici nella nuova struttura che ha assunto il capitalismo a livello globale nel corso degli ultimi cinquant’anni.
Sono mutamenti che hanno accentuato il processo di finanziarizzazione e globalizzazione, corredato da innovazioni tecnologiche digitali e da una trionfale ideologia di pensiero unico, che pretende di azzerare ogni precedente ideologia. È un contesto che accentua crescita esponenziale di disparità tra una èlite ridottissima e masse planetarie sempre più povere, e controlli digitali che giustificano definizioni quali capitalismo della sorveglianza. Ma l’ideologia della fine di tutte le ideologie, che ne è il portato sovrastrutturale, è la geniale elaborazione che rende invisibile come l’aria il dominio in essere, che riduce la possibilità di vedere un oltre l’orizzonte percepito, e tende a cancellare diversità e profili, fonti necessarie di costruzione di quel crinale costituito da senso del sacro e del senso.
Testi e forme di questo libro si misurano con la crisi antropologica generata da tale processo complesso, che coinvolge, prima che strutture socio-economiche, capacità di elaborazioni critiche e di visioni altre di idee.
“Si nascondono le cose in piena luce/ misteriosa eclissi nell’evidenza di sé/ scolpita nel fulgore dei contorni// eppure tesa è la volontà del dire/ ribelle presenza che si oppone/ al grumo malefico della natura// volgendo lo sguardo verso la sera/ è sangue che lava il segno del fuoco/ e scalda la terra con la mia cenere”.
Il respiro dei versi qui si distende in ritmi alessandrini, più o meno lunghi, ma sempre in ritmi connessi a un andamento ieratico, di solennità e sacralità, che declina uno smarrimento entro un orizzonte che pur “in piena luce” non fa vedere le cose: una “misteriosa eclisse” domina e abbaglia col suo fulgore, accecando e insieme togliendo la capacità di parole che danno nome a tali cose – il che fa sottolineare ad Alfredo Rienzi in Postfazione che “luce” e “parola” sono tra i vocaboli più usati del libro.
Sono versi di cui il contesto è co-autore di sensi complessi, che cantano il dolore del “sangue” nel fuoco in cui brucia un Soggetto Scrivente non arreso al silenzio di morte, resistente con la sua “volontà del dire”, anche se il fuoco in cui si dibatte la nega e fa di essa alla fine “cenere”. Il testo, di p. 63, Giochi di luce, è in due parti, in cui la II tende a chiudere il cerchio; “Nel crepuscolo la luce ora disegna/ sul muro l’ombra delle foglie.// Sarà questa la giusta prospettiva,/ il giusto compenso del mio viaggio?”
Anche se il titolo pare alleggerire, resta un canto funebre (di cui il Piccolo Requiem finale, dedicato al padre e richiamato anche nella prefazione da Alessandro Fo, ha valore simbolico dei sensi di tutto il libro) su mancanza e impossibilità di vedere, dire e articolare possibilità non contemplate dall’ordine totalizzante che disegna la fine della storia e rende folle ogni ipotesi di Altro e Oltre.
Sono corollari di tali postulati, sia una hybris che abbatte limiti tra mondano e sacro, sia un universo liquido cui non interessano identità specifiche. L’evidenza del sé del singolo resiste, ma senza un cambiamento radicale del contesto, il suo destino è di ridursi a un’ombra come quella di una foglia sul muro nella luce breve di un crepuscolo, con una domanda aperta che è una sorta di urlo attutito, della necessità di non smarrire ogni barlume di senso, per quanto difficile, oggi possibile.
Una domanda che fa riemergere in noi la chiosa shakespeariana, sulla condizione umana fatta della “stessa sostanza dei sogni”. Ma nel Bardo di Avon era l’amore ad accecare e a trasfigurare il mondo in sogno, qui è la banalità di un contesto mascherato che ci rende ombre di noi stessi. Tuttavia il libro non è un canto arreso e nichilistico. Come nel testo richiamato, (im)pone domande aperte e un eppure alla nostra responsabilità antropologica: “prima d’imboccare un’uscita,/ la via giusta o sbagliata che sia/ nessuno lo sa né mai lo saprà.” (p. 82); “Eppure son certo/ che nel riflesso improvviso del sole/ sul lucido dorso del mare/ ci ricorderemo d’essere stati/ un istante felici” (p.83). Felicità rubata, anche grazie all’esercizio ”pensante” della poesia, “in una dialettica “tra qui e altrove” (nella postfazione dell’Autore), che le arroganze e pretese della imperante totalizzazione non riescono ad azzerare.

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Google-Il nome di Dio – Letture3

Pubblicato il 18 gennaio 2022 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Adam Vaccaro, Google – Il nome di Dio, Pasturana (AL), puntoacapo, 2021

Nota di lettura di Alessandro Cabianca

Una poesia che va al cuore del falso, finto, fesso rapportarsi e raccontarsi dell’oggi portati da un mondo artificiale, il WEB, più vero del mondo reale a scardinare secoli di razionalità con attimi di irrealtà che si fanno filosofia spicciola e altrettanto spicciola etica dell’immorale quotidiano.
La poesia che, come molta del secondo novecento, finalmente si sporca con il reale, lascia secoli di idealismo, si confronta con problemi apparsi all’orizzonte della storia ieri, o appena l’altro ieri, ma che stanno in breve impadronendosi di ogni segmento di società e vengono contrabbandati come il nuovo umanesimo, la nuova liberazione, mentre già stanno diventando strumenti per una più sofisticata schiavizzazione degli individui.
Non è mai venuta meno la schiavitù e talvolta anche i poeti hanno evitato di accorgersene per assurgere a uno status di sacerdoti della cultura dominante, solo ad eccezione di alcuni, pochi, che hanno pagato perfino con la vita la loro scelta di libertà, e non sono solo gli assassinii, ma anche le non poche rinunce alla vita che dolorosamente segnano la storia letteraria e poetica del novecento.
Sempre meno ritroviamo chi ha un occhio critico nei confronti dei grandi rivolgimenti che stanno avvenendo nel mondo a vantaggio di pochi e a danno di tutti gli altri, e sarebbe davvero ingombrante l’elenco di quanti, scientemente, industriali, potilici, manager, nel secolo appena trascorso hanno operato apertamente per distruggere quanto faticosamente i due secoli precedenti si erano adoperati di raggiungere.
L’appiattimento delle coscienze, manipolabili con facilità, la perdita della autonomia del giudizio sono i sintomi principali di un degrado che, prima di essere morale, è un degrado sociale, generalizzato.
E allora un poeta fuori dai canoni e dalle gerarchie delle élites letterarie, compie una operaziona di verità, alla maniera di Ferlinghetti, di onestà, alla maniera di Saba, senza le paranoie del plurilinguismo alla Pound o dell’incomunicabilità alla Sanguineti, e fin dal titolo indica quale è il dio dei nostri anni: Google.
Strumento preziosissimo questo, ma perfido per chi ha scopi di dominio perché può mobilitare in un click milioni di persone verso una causa; e quando questa causa è sbagliata, chi ferma la valanga umana che si è messa in moto, inconsapevole o complice? Scrive Massimo Pamio nella Prefazione: “L’uomo diventerà un falso spogliato di ogni identità”. Ce l’hanno insegnato secoli di assolutismi che alla perfezione, pur se talvolta in maniera ancora grossolana, hanno utilizzato questi medesimi processi collettivi che, con una differente tecnologia, potrebbero perfino sembrare strumenti ugualitari e evolutivi e dei quali non si possa più fare a meno se non si vuole essere tagliati fuori dalla modernità.
Riprendendo la Prefazione: “Il poeta molisano riesce a fare ordine all’interno del caos che ci attornia e a far pronunciare ai nuovi topos del mondo la loro essenza; insomma il poeta fa dire il mondo a quelli che lo posseggono, alle trappole che i potenti hanno ben disegnato per riuscire a mantenere un ordine mondiale guadagnando su quelli che come in un incantesimo fanno quello che loro gli dicono di fare, mediante il desiderio, questa potenza che muove l’uomo più di ogni altra forza”. Poesia politica e poesia sociale al più alto grado dove un “sistema” anonimo, ma non per chi lo guida e ne raccoglie i risultati, sembra guidare le vite di uomini sempre più anonimi e disorientati
Siamo ad una “santa barbarie” o ad uno “scientifico macello”? (p.15) Credo che nel novecento abbiamo già sperimentato, e su vasta scala, sia l’una che l’altro, ma adesso possiamo goderci i like su facebook o salutarci con la manina in streaming o goderci messaggi e contatti con whatsapp in questa rimbambilandia collettiva dove ogni due parole spunta un prodotto in promozione (pp.17-18), “in questo contemporaneo, posmoderno inferno turbocapitalista voluto e programmato”. (Pamio)
Il senso del vivere per il poeta non sta qui, dove è già evidente la sconfitta dell’umano (dico già poiché questo sistema ha velocità impensabili fino a poco fa e capacità di rinnovarsi e riprodursi in continuazione, camaleonticamente, pur essendo giovane, ma con lo stesso scopo e i medesimi criteri degli antichi sistemi di controllo e dominio), il senso sta in ogni singola persona, nel riconoscere e trasmettere quei valori che hanno giustificato l’esistenza: sta nelle scelte di chi si oppone alla generale omologazione, anche per incoscienza, come quei “sereni ragazzi […] che continuano a fare/ inni alla vita incuranti/ inconsci e resistenti”, (p.43) sta nella vita da “straniero di Rho” di Piero come il senza patria Mohamed e il pensiero corre all’omonimo senza patria degli indimenticabili versi di Ungaretti: “Si chiamava Moammed Sceab// Discendente/ di emiri di nomadi/ suicida/ perché non aveva più/ Patria” (In memoria).
Vorrei invitarvi a leggere per intero Rosina e l’orchestra tv, dove trovate una forma moderna di accoglienza: Rosina, persa la casa, entra in un bar gestito da cinesi e la padrona non la caccia, ma con “il verso e l’occhio”… “dice di stale pelò nell’angolo in fondo!”, mentre la Tv invita gracchiante a donare per i bambini in Africa, per malattie rare, per la Protezione civile. (p.34)
Si può ancora resistere, sulle note di Ciao bella ciao, “attardati su la sovranità appartiene al popolo” (p.54) come ha saputo resistere Vilma Venturi, suocera del poeta, staffetta partigiane. (p.56)
Il mondo degli affetti apre a nuove speranze, Chris, “fiore d’autunno”, Claudio e Elena, “rami che crescono”, Chiara, “nuovo bocciolo”, Valeria, piccola poetante, e non sul filo del sentimentalismo, ma come nuovo sguardo sull’ignoto, infinita gioia presente e insieme trepidazione: “Invisibile era il ballo dei nostri cuori/ mentre ti vedevamo barcollare ai/ primi passi su un marciapiede di/ Arese e poi palloncino di gioia/ senza freni sul lungomare di Sestri” (p.69): instabile il presente e barcollante, dove cerca qualche punto di luce e di futuro un poeta turbato e inquieto per come va leggendo il reale.

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Alfredo Panetta – Ponti sdarrupatu – Il crollo del ponte

Pubblicato il 10 gennaio 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Alfredo Panetta, Ponti sdarrupatu – Il crollo del ponte
Passigli Poesia, Firenze, 2021

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La poesia e l’imperativo categorico
Adam Vaccaro

I libri di poesia sono fonti di mille domande esplose da una tensione che da un particolare punto di partenza muove verso un viaggio periglioso nella irraggiungibile complessità e totalità del mondo interiore ed esteriore del Soggetto Scrivente. Ma i migliori libri di poesia – Dante docet – non possono rinunciare a dare risposte e a esprimere giudizi, ovviamente entro le forme che la caratterizzano.

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Angelo Gaccione – Manhattan

Pubblicato il 9 gennaio 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Angelo Gaccione

Manhattan – Racconti minimi per il teatro

Ed. Atelier Onesti, 1995 – Pagg. 98 Lire 15.000

Pubblicato sulla prima pagina di “Odissea” sabato 8 gennaio 2022

https://libertariam.blogspot.com/2022/01/manhattan-diadam-vaccaro-adam-vaccaro-t.html

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MANHATTAN

di Adam Vaccaro

Tra i libri di Angelo Gaccione, questo Manhattan (scritto tra il 1990 e il 1991 e pubblicato nel 1995 da Atelier Onesti) mi era sfuggito, e a leggerlo dopo quasi 30 anni dalla sua stampa, è stato come aprire la porta per uscire ed essere investiti da una ventata impietosa che apre insieme al cappotto, solchi tra i capelli e le idee che ognuno di noi cerca di mettere in ordine, nel trambusto incessante di questi ultimi decenni.

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Laura Cantelmo, Cuore di nebbia

Pubblicato il 6 gennaio 2022 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Laura Cantelmo
Cuore di nebbia e altri paradisi
Puntoacapo Editrice, 2021

Con Laura Cantelmo si sono sviluppate, nel corso di alcuni decenni, dentro e fuori Milanocosa, un’amicizia e una conoscenza profonde, per cui posso parlare di fratellanza/sorellanza, ancor più esaltate nel corso del mio coinvolgimento nell’editing del suo libro precedente, Geometrie scalene. Una occasione che mi ha evidenziato la sua rara qualità, quella “saggezza dell’umiltà” sollecitata da Eliot.
È un punto che non è un corollario, ma un postulato costitutivo del teorema espressivo di Laura, plasticamente rappresentato dai tre vertici del triangolo evocato da Geometrie scalene – che sappiamo può essere ottusangolo o acutangolo, simbolo di ottusità o intelligenza –, e che risalta anche in Cuore di nebbia. La capacità di contatto con la propria fragilità è certamente uno di tali vertici, adiacente al polo di prima evidenza e senso: uno sguardo freddo e lucido sulle ignominie del mondo contemporaneo, alias dei poteri che incarnano la sua Gorgone-Medusa. Uno sguardo che traduce a tratti in secco sarcasmo il proprio pensiero critico, fino a far ricordare Marziale, come scrissi nella prefazione a Geometrie scalene.
Ma davanti a tale presa d’atto, non c’è ripiegamento piangente, perché scatta il secondo vertice innervato appunto, nella propria fragilità, fatta fonte e azione re-attiva, di una umiltà non recitata di chi sa spogliarsi e ridurre le supponenze dell’Io per farsi fonte di energie rinnovate, e che pochi sanno praticare. Credo che la capacità creativa non solo di Laura trova energie, quanto più l’Io è realmente depotenziato, e che in Cuore di nebbia e altri paradisi è accentuato anche per l’insorgenza della pandemia, svolto tra due polarità simboliche, cuore e nebbia.
Con “tra le mani libri, fonti di pensiero”, “l’uomo chiede aria alla notte insonne,/ si muove a tentoni lungo transenne/…/verso il delta folle dell’ignoto futuro”(P.9). “Eppure”, resiste il sogno “di una rosa sontuosa”(pp.13-15) di vita umana, incarnata in donne e uomini che resistono alle “potenti fauci della Gorgone”(p.23). E se la “Nebbia” rende “Venere irraggiungibile…tra vanità e macerie senza meta, senza pace…la nostra croce”, l’imperativo etico è non smettere di “Cercare il paradiso nella terra”(p.27), perché “anche le stelle dicono di uomini e di donne,/ della terra tradita, di nuvole e madonne.”(p.73)
Con queste poesie risalta il terzo vertice di senso antropologico. Che genera ricerca incessante di Guide e Appigli di Rinascita, articolata tra referenti di cultura alta, tempi di storia antica e recente, ma anche in persone comuni della propria esperienza di vita, comprese nodose mani contadine, e poi luoghi, che vanno da quelli quotidiani, luoghi del cuore del Ticinese e di Milano, o di Paesi amati come Grecia e Palestina, fino a orizzonti azzurri, in una insaziabile ricerca di alimenti della propria volontà di resistenza vitale, sintetizzata dalla ripetuta congiunzione avversativa, Eppure! Tra i termini ricorrenti del libro.
Quanto fin qui evidenziato mostra un intreccio adiacente, che è di pochi, tra Laura Persona e Laura Soggetto Scrivente. E i tre vertici enucleati sono una personale ricreazione di percorso dantesco, che sappiamo è nel segno del numero tre. E non è casuale la partecipazione di Laura al progetto di quest’anno di Milanocosa per Bookcity, A partire da Dante.

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Google-Il nome di Dio – Letture2

Pubblicato il 4 gennaio 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Sono onorato e ringrazio di questa nota di lettura dedicata da un decano della poesia contemporanea, quale Antonio Spagnuolo, al mio ultimo libro, e pubblicata oggi sul suo poetry.blogspot.com
A.V.

http://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.com/

martedì 4 gennaio 2022

SEGNALAZIONE VOLUMI = ADAM VACCARO

**Adam Vaccaro : “Google-Il nome di Dio” – Ed. puntoacapo – 2021 – pagg 104 – € 15,00

Siamo precipitati in uno spaccato di tempo in cui la storia che l’umanità va scrivendo è diventata frammentazione in/volontaria di futili ideali, schegge di morale, incrostazioni di illusioni, alienazione di cultura.
Orientamenti e frequentazioni vanno verso l’asservimento al dio danaro, fuori da ogni vincolo, trascurando inevitabilmente la ricomposizione del bagaglio che distingue il ritmo incalzante dei sentimenti.

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Google-Il nome di Dio – Lettura1

Pubblicato il 1 gennaio 2022 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Alfredo Panetta su

GOOGLE – IL NOME DI DIO

Adam Vaccaro, Puntoacapo Ed., 2021

Ogni epoca storica ha le divinità che merita, ci ammonisce Adam Vaccaro nella sua ultima, vibrante raccolta di versi dal titolo eloquente: Google- il nome di Dio. In una fase di acclarata decadenza del capitalismo non potevamo che guadagnarci un Dio apparentemente minore, quale la Rete-di-recinzione-Internet dalla quale nessun umano potrà più sottrarsi. Frutto di quella Tecnologia che secondo molti filosofi e artisti è diventata ormai padrona assoluta delle esistenze individuali. Adam Vaccaro, intellettuale e poeta che da decenni cerca di dare alla parola una significativa valenza etica, ci regala una bella raccolta che scoperchia le carte della fragile modernità nella quale siamo tutti artatamente immersi. E senza tanti giri di parole Vaccaro assume una forte posizione politica contro il potere costituito, laddove la massa si prostra in atteggiamento adulante (“Ruota ruota Drago tra i Monti/ prima di azzannare i nostri conti”). Massa che inconsapevolmente si fa ammansire dai fantastici like su facebook, strumento di un potere invisibile ai più ma non all’occhio allenato del poeta (Volano avvoltoi su di noi/ come fossimo carogne). Necessaria quindi la presenza dell’artista che dispone di quella che forse è l’ultima arma salvifica (Una lingua aliena che sappia dire ancora di te e di me).

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Laura Cantelmo – Cuore di nebbia

Pubblicato il 12 novembre 2021 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Arci Bellezza
Via Giovanni Bellezza 16/a – 20136 Milano
https://arcibellezza.it/

Lunedì 22 novembre ore 19,00

Associazione Culturale Milanocosa
In collaborazione con puntoacapo Editrice

Presenta
A cura di Adam Vaccaro

Cuore di nebbia
e altri paradisi
La nuova raccolta di
Laura Cantelmo

Intensa resistenza umana e ricerca di voce, identità e senso,
continuano anche in questo libro dell’Autrice,
in un contesto che tende a ridurli a ombre

***
Dialogano con l’Autrice
Mauro Ferrari e Adam Vaccaro

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Adam Vaccaro – Google, il nome di Dio

Pubblicato il 29 ottobre 2021 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

La nuova raccolta poetica

Adam VACCARO
GOOGLE – IL NOME DI DIO
In quattro quarti di cuore

Prefazione di Massimo Pamio
Postfazione di John Picchione

sta per essere pubblicata da puntoacapo Editrice. Con l’occasione, l’Editore sta già effettuando la Prenotazione delle copie con invio gratuito e due euro di sconto sul prezzo di copertina, VALIDA FINO AL 30 novembre 2021

Il libro, oltre ad analisi di Massimo Pamio e John Picchione, è corredato dalla nota in aletta del Direttore Editoriale, Mauro Ferrari, di cui segue un breve stralcio:

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Giuseppe Cinà – ‘A macchia e ‘U Jardinu

Pubblicato il 23 luglio 2021 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

TRA CUNTU E CANTU
Giuseppe Cinà, A MACCHIA E U JARDINU, Manni Editori, 2020

di Gabriella Galzio

Nello scandagliare i testi di questo libro mi sono avvalsa principalmente della traduzione, lasciando all’Autore di restituirci la voce della poesia e la poesia della lingua. Seguiamolo dunque nella sua nota conclusiva e addentriamoci nel suo mondo: “L’opera mette in scena una visione del mondo focalizzata su un ristretto territorio rurale denominato Sparauli, posto all’interno della Riserva naturale dello Zingaro, presso Castellammare del Golfo. Essa si sviluppa con riferimento a un luogo, un tempo e un nucleo valoriale osservati sul filo di una svolta epocale venuta a compimento nell’arco delle due ultime generazioni.” E “a queste due ultime generazioni che si sono avvicendate a Sparauli – prosegue l’Autore – corrispondono le due voci narranti delle due sezioni in cui è divisa l’opera. La prima è quella dell’Autore che tratteggia l’ammaliante spettacolo del mondo /_…_/ La seconda è quella di una vecchia contadina che, cresciuta all’interno di Sparauli, ne rievoca alcuni momenti memorabili e fondativi.” Bene, fin qui la nota dell’Autore.
All’interno di questa “architettura del racconto”, in parte ricercata, ma “emersa naturalmente”, rintracciamo due più intime polarità entro le quali il libro si tiene, ossia u cuntu e u cantu, il racconto e il canto – come la stessa poesia “Na vuci surgiva” ci dice – dove “i sentori di terra bagnata /_…_/ si perdono dentro il racconto (u cuntu)” ma anche risuona “una voce sorgiva – un canto di vento -”. Da questa poesia ho tratto alcuni versi, sospesi tra contemplazione ammaliata nel silenzio assoluto e sentimento panico di sentirsi “lapa supra n’alastra (ape su una ginestra)”: “Mmenzu a silenzi assoluti mi fermu/ ammaliatu. Ma a mmia mi piaci puru iri,/ si na vuci surgiva – un cantu ri ventu –/ ri ssutta a timpa m’assàia e mi carrìa/ pi fratta ri spina bianca a tiggnitè,/ a sintìrimi lapa supra n’alastra/ o ragnu ca nnuccenti sempri trama (Tra silenzi assoluti mi fermo/ ammaliato. Ma a me piace anche andare,/ se una voce sorgiva – un canto di vento -/ da sotto la falesia mi assale e mi porta/ per frasche di cardo bianco senza fine, / a sentirmi ape su una ginestra/ o ragno innocente che sempre trama…)”.
Sensibile in questi versi la dimensione lirica che si sprigiona da una macchia aspra e selvatica cui fa da controcanto la memoria sempre viva del padre come nella poesia “Uomini e alberi”: ”Ah, padre mio, se potessi rivederti una volta…/ come antica luce che tremola/ tra il fitto fogliame/ di questi alberi ancora vivi…” In questa poesia la scelta fin dai primi versi di un lessico sacro – parole come santuario, destino, oracoli – non è casuale, a significare il bisogno di eternare padre e giardino, che “sei sempre stato qui, nel giardino/ a vivere e morire insieme a lui …”. In questa narrazione dell’opera dell’uomo nel giardino-santuario di aranci e mandarini, la ciclicità di un continuo morire e rinascere azzera tempo lineare e distinzione di specie, e ci vuole tutti qui compresenti “vivi e morti, uomini e alberi”. In questa visione solare mediterranea la poesia di Cinà è carica di energia vitale poiché la natura, che sia macchia spontanea o giardino coltivato, è ancora intrisa di sacralità, dove spiriti oziosi – quasi tangibili – “mi talìanu (mi osservano)”….”e tutto si accorda, come semplici versi/ di un cantico pastorale, al mare/ e al cielo che lontano si abbracciano/_…_/ e mi raccontano un mondo/ dove tutti siamo re” …come u zu Ninu, “Re e pastore/ che valoroso torna a casa.” In questa armonia cosmica affiora così quasi un’epica pastorale dove gli umili “avanza[no] a testa alta” e si sentono Re. Rientra in questo inno alla natura solare mediterranea la visione ammaliata di creature vivide e animate – “Svirgolando vanno/ una barcata d’acciughe/ per fondali, scogli e a pelo d’acqua/ lanciando bagliori.” …”e scialano la vita così,/ nell’acqua impastata di sale e di sole.” Spesso in queste poesie si condensa nei due versi finali quella semplice saggezza popolare che ci viene dalla natura, come nel caso dei colombacci “[ch]e dal loro paradiso/ ci dicono l’arte di vivere” e infine “tornano” – nel distico finale – “storditi di blu,/ messaggeri di un infinito nostrano”: racchiusa così in questo ossimoro una finitezza nostrana che si apre all’infinito.
In un mondo in cui l’uomo crede di soggiogare la natura, la voce dell’Autore non ha dubbi da che parte stare. In “Lecci in viaggio” gli alberi quasi si ergono antropomorfi a sbaragliare gli uomini: “Ma sono già in viaggio, armati/ d’uno stendardo di poche foglie smeraldo,/ per vincere l’uomo e i suoi mali fantasmi/ e tornare arbusti/ al comando della macchia.” Per questo Autore la natura è un mistero che ancora desta stupore: “E si resta ammaliati a osservare/ in questo perfetto ingranaggio/ il mistero svelato della Natura.” Fin qui la I sezione dove la voce ru cuntu e ru cantu è quella dell’Autore.
Za Rosa è la voce narrante della seconda sezione più incline a u cuntu, al racconto realistico, alla rievocazione di un mondo di usi e costumi destinati ormai all’estinzione, uno spaccato di antropologia che ricapitola il rapporto tra macchia e giardino come è raccontato nella poesia “Era un giardino”: “Quando mio padre comprò la terra di Sparauli/ comprò montagna./ Non c’era niente, pietra e macchia,/ ma quando poi fui grandicella/ c’era l’uno di tutto. Era un giardino.” Un’antropologia contadina in cui la fatica dell’anno agricolo era ripagato da grandi feste – “c’erano tante angustie, sì,/ ma c’era anche tanta festa” -, in cui ogni raccolto veniva festeggiato con gioia, fino a quello delle specie tardive come i fichi che maturavano a novembre ed erano una delizia per la festa dei morti! Esemplare la rievocazione della festa processionale della Madonna del 21 agosto e del coinvolgimento dionisiaco fino alla stanchezza di adulti e bambini: “Ma intanto tra giochi, dolci e tamburini,/ con le luminarie che facevano brillare gli occhi,/ io ero eccitata e esagitata.// Alla fine, a mezzanotte o giù di lì,/ stanchi come eravamo, mulo, giumenta/ [e] scappavamo a Sparauli./ Con la luce a mezza luna e il fresco di agosto/ io mi addormentavo subito, attaccata/ con una corda al petto di mio padre.” E quella bimba attaccata al padre con una corda ritrae un legame d’amore rude essenziale ma carico di poesia.
Anche in queste rievocazioni il sentimento di festa è esteso all’intero cosmo contadino che non fa distinzioni tra umani, animali e acque che insieme scorrono in armonia: “Vicino al pozzo grande costruì/ un lavatoio di cemento/ per lavare i panni/ proprio sotto un albero di gelso/ e a una pergola/ che facevano frutto e ombra.// E là sotto si radunava/ il festino degli uccelli/ ed era una delizia/ tutto questo cantare e volare/ e l’acqua a terra che mormorava/ in mezzo alla verdura.” Ai tanti momenti estasiati non mancano però gli squarci di un mondo feroce che coniuga con la stessa naturalezza amore e morte: “E a sera /_…_/ maschi e femmine che si cercano nella notte./ Ogni tanto urla strazianti di animali scannati.” Anche in questa seconda sezione gli animali sono protagonisti e portatori di sapienza. “Gli animali per me sono stati scuola e compagnia – dice za Rosa e, riferendosi al padre, – /_…_/ lui mi portava ad esempio gli animali.” E così conclude: “…se uno capiva/ che animali e cristiani siamo un poco parenti /_…_/ pure con gli alberi di olivo avrei preso a parlare.”
Così questi versi della seconda sezione richiamano i versi della prima di “Uomini e alberi”, dando ragione all’Autore quando nella sua nota afferma che in riferimento alla prima e alla seconda sezione si pongono a confronto “due racconti della stessa realtà, quello dell’abitante nativa (della seconda sezione) che ne descrive i tesori con forma e contenuto popolare, e quello (nella prima sezione) del nuovo abitante, siciliano ma forestiero, che gli stessi tesori descrive con differente cifra interpretativa. Le due voci narranti s’incontrano in un comune innamoramento.” (p. 103) Che tra le due sezioni ci siano evidenti richiami interni è stato ravvisato anche da Luigi Cannillo (in una precedente presentazione) quando ha indicato nella poesia “La trattativa” un racconto che stilisticamente anticipa la seconda sezione. E a mio avviso l’anticipa anche nella visione non esattamente ottimistica che informa il finale amaro, tanto del racconto “La trattativa”, con un finale a bruciapelo – “ci spararu (gli spararono)” -, quanto dell’intera seconda sezione, che si conclude con un devastante incendio doloso. Nel testo conclusivo “Gente selvaggia”, infatti, è narrata la vicenda paradigmatica del padre che invano “S’ammazzò la vita a spietrare la montagna” perché “Poi il mondo cambiò…” vanificando d’un tratto decenni o secoli di sapienza del coltivare che il padre aveva inutilmente trasmesso ai figli: “questi li pianto per voi perché il loro frutto/ io non me lo potrò godere”. Za Rosa è l’ultima testimone indignata di un mondo che sta sparendo: “penso alle cose brutte/ che succedono oggi…Ma io dico, santo Dio perché incendiano/ la montagna, perché?/
Sono gente selvaggia, vigliacchi!” Così il termine selvaggio che attraverso tutto il libro connota positivamente la macchia, viene qui rovesciato nel suo negativo, nel senso della barbarie, antagonista di quella selvatichezza primigenia della natura, che Cinà intende “come comunità di viventi, nel continuo confronto tra selvaggio e domestico che ha ispirato il titolo, ossia tra l’originaria Macchia mediterranea e il Giardino dell’uliveto e dei mille frutti.” Cinà, architetto e urbanista, è consapevole del paradosso che “quelle divenute ‘protette’ sono diventate le aree più esposte alla calamità degli incendi dolosi” e ai vuoti lasciati da una società c.d. civilizzata. Il libro è infatti testimonianza di quanto, venuta meno l’economia contadina di sussistenza, sia venuto meno anche il presidio e il nutrimento quotidiano del territorio. “Dietro la storia di Sparauli – dichiara nella prefazione Giuseppe Traina – c’è la risentita, indignata percezione di come in Sicilia si sia affermato un modello di sviluppo senza progresso che gli intellettuali, da Pasolini in poi, continuano a denunciare.
Ma questo libro ha voluto salvare, consegnandolo alla memoria, un mondo condannato alla sparizione. E veniamo al dialetto, limitandoci a qualche cenno. Nella summenzionata presentazione del libro, Sebastiano Aglieco ha ricordato che la Sicilia consta di almeno tre aree linguistiche dialettali, laddove la lingua di Cinà rientra nell’area settentrionale dell’isola. In questo libro va detto inoltre che il dialetto di Cinà si diversifica ulteriormente a seconda delle sezioni: nella prima prende voce la parlata palermitana, usata dall’Autore sin da piccolo, nella seconda ricorre la parlata castellammarese più fedele alla sensibilità nativa di Za Rosa che l’Autore ha voluto fare oggetto di recupero; tale scarto ha così “permesso di meglio connotare la diversa coscienza esperienziale delle due voci narranti”. Ma comune a entrambe è la tensione a raggiungere una koinè siciliana che va studiata anche in rapporto all’uso del dialetto nella poesia siciliana dei secoli XX e XXI così come in relazione alle problematiche della neodialettalità nella dimensione sincronica del linguaggio.
È dunque una lingua dialettale permeabile, aperta a contaminazioni espressive della lingua colta e di quella popolare, così come alle influenze delle molteplici lingue e culture dei tanti popoli che hanno abitato la Sicilia. Una lingua che l’Autore in sintesi definisce ‘siciliano di koiné’. Cinà, consapevole della situazione residuale del dialetto nel parlato quotidiano, si avvale della lingua dialettale per “parlare per frammenti forse”, che tuttavia siano “pezzi di vita ancora portatori di un discorso corale e capaci di illuminare il nostro cammino”.
Un’ultima notazione vorrei riservarla al dialetto in quanto lingua madre per eccellenza, evidenziando che in questi versi ho colto come un’eco materna per es. nel doppio degli avverbi “modda modda” …”ruci ruci”… “araciu araciu”…fino al modo di dire “catàmmari catàmmari e a taci maci” che quasi sconfina nella cadenza ipnotica della formula magica…il ricorrente “ammaliare”, del resto, non viene anch’esso da più antica malìa?

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