Scrittura e Letture

Google a Roma alla Giornata Mondiale della Poesia

Pubblicato il 10 marzo 2023 su Eventi Milanocosa da Maurizio Baldini

Associazione Culturale “Lavatoio Contumaciale” di Roma

è lieta di presentare

 Google – il nome di Dio

In quattro quarti di cuore

Viaggio con la poesia di Adam Vaccaro

Alla ricerca di senso sotto il sole del pensiero unico

Adam Vaccaro

 Martedì 21 marzo 2023, ore 18

Nell’ambito della Giornata Mondiale della Poesia, l’Associazione Culturale “Lavatoio Contumaciale” di Roma è lieta di presentare il libro di poesie:

Google – il nome di Dio. In quattro quarti di cuore” di Adam Vaccaro, edito da “puntoacapo Editrice”, 2021

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La corteccia del mondo – Giacomo Graziani

Pubblicato il 2 marzo 2023 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

L’acuto squillare del sole sotto la corteccia del dominio
Adam Vaccaro

Giacomo A. Graziani, La corteccia del mondo, La Vita Felice, 2020

Giacomo Graziani incarna uno stile consonante a quella che Saba definiva poesia onesta, che qui si muove come un fiume carsico, dalle esondazioni disinteressate a zampilli spettacolari o a forme innamorate di sé, perché prevale l’interesse a un contributo di conoscenza, di sé e del Mondo. Un Senso complessivo interrogante che il Soggetto Scrivente trasmette e ci raggiunge, se non siamo seduti su qualche scranno idiota di Verità sussiegosa, come quella scodellata quotidianamente dall’ideologia e dalla propaganda dominanti, attraverso i mille canali della informazione accreditata.

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Guarracino, L’Angelo e il Tempo

Pubblicato il 30 gennaio 2023 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

L’Anima, la Rosa e la nostalgia del Padre
Adam Vaccaro

Vincenzo Guarracino, L’Angelo e il Tempo – e altri poemetti, Book Editore, 2022, pp.70

Un libro dal titolo che potrebbe essere tradotto in lo Spirito e la Storia, seppure ogni traduzione è sempre tradimento, e la storia è evocata nelle Note dell’Autore in fondo al libro, non solo nel richiamo del primo poemetto che dà titolo al libro e sintetizza la sua visione espressiva: “dar voce per scorci visionari a questa storia”. Ma sono due in ogni caso le polarità o colonne di senso della costruzione di questo splendido libro di Vincenzo Guarracino: il divino e il profano, l’invisibile e il visibile, della realtà totale e vitale che ci costituisce. E per uno studioso appassionato di Leopardi, quale è Guarracino, non stupirà se rilevo quale nervo della forma che unisce e restituisce la tensione alla totalità – per me timbro di poesia – la stella polare leopardiana sintetizzata nel sintagma di una parola materiale e lirica.
Certo, il tempo del titolo è anche quello che va dal 1978 al 2022, in cui sono gemmati e maturati i nove poemetti che costituiscono il libro. Ognuno dei quali è radicato in un Autore/Maestro, un Padre (cui è dedicato il poemetto in forma di raccolta preghiera, “NEL NOME DEL PADRE”) o di un tratto di rilievo del proprio percorso umano e culturale, oppure in entrambi: lieviti epifanici dei testi, di cui Guarracino offre nelle sue Note ampi richiami, che confermano come lo spirito e la forma siano con-fusi in quella parola, che guida la sua scrittura, saggistica o creativa che sia.
A una lettura superficiale tutti i poemetti possono risuonare come un concerto raffinato di parole, appagato della musica che intonano, ci culla e delizia. Ma gli echi e alimenti che sostanziano i testi risalgono sempre a quell’Oltre che chiamiamo Vita, tra squarci di Memorie, Incontri e Nomi, che vanno da Catullo a fari della poetica moderna, luci del percorso nel Tempo di chi è stato colto dal silente annuncio di quell’angelo chiamato Poesia.
Ognuno dei poemetti meriterebbe un’analisi specifica, per la loro dispiegata immersione rigenerante in quel Tutto di cui si fanno voce e forma. Ma – entro i limiti di una recensione – scelgo di soffermarmi in particolare sul secondo, UNA VISIONE ELEMENTARE, che ha in esergo versi e richiami di Roberto Sanesi, poeta e Maestro che ci ha trasmesso una visione di poesia interminabile, come linguaggio necessario nella misura col mistero inesauribile della Totalità.
Il poemetto è un oceano in XXV strofe, isole di una micro-macro nesia, rima poesia, con un Nettuno-Poseidone umanissimo, remigante e lampeggiante col suo sorriso denso di dolcezza e sapienza, ricondotto a noi da Guarracino, con memorie e versi nati sul crinale della nostra irriducibile dolorosa-gioiosa distanza. Che tuttavia si fa lievito di adiacenza, che risale come salmone alle fonti dell’incessante bisogno di rinascita:
“Non c’è più nella casa del poeta/…/il triste richiamo del telefono:// la voce scivola nel vortice/…/oscura tra il glicine la stanza:”, dove il poeta ci riappare con le sue indimenticabili reinvenzioni; “sorridesti; ‘M’affumico d’incenso’” e “’ti dirò chi c’è in cantina’ disse/ con la neve che scese su Milano” (XXIII, p.33).
Versi che si svolgono fino a una sorta di cantico della necessità del male, se “il pensiero col male esce dal sogno/ e la stanza è invasa d’improvviso/ da tutti forse i sensi della rosa/…/ le parole a te ormai più necessarie/ quelle che giorno dopo giorno danno/ corpo a una vita solo sognata// non fanno che riscrivere il destino/ nel vuoto di questo impenetrabile/ presente oltre l’opaco dello schermo:” (XIV, pp, 33-34).
Devo dire, versi che ricompongono una forte omofonia con i ritmi, i sensi e la musica di Sanesi, mentre interloquiscono, cercando di chiudere un cerchio che non può essere chiuso: “e qui forse potrebbe fatalmente/ padre fratello amico tu poeta/ qualcosa nel molteplice apparire:// l’ossimoro perfetto che è la vita” (XV, p.34).
Poesia immersa nell’indicibile, per spingerlo fuori dall’ombra di una caliginosa caverna platonica, quale orchestrata dagli schermi dell’”impenetrabile presente”, per strappargli alla fine quel lembo inarreso che sfugge, “ove ripensa la rosa la sua anima” (I,p. 21) e sa farne parola dicibile, senso e poesia.
26 gennaio 2023

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Google – Il Nome di Dio – Letture12

Pubblicato il 25 gennaio 2023 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Replichiamo su Milanocosa l’articolo pubblicato dalla Rivista “Odissea”:

Ravizza su Vaccaro “Odissea”, mercoledì 25 gennaio 2023- 

https://libertariam.blogspot.com/2023/01/libri-corpo-corpo-con-la-totalita-di.html

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Sono grato delle pregiate letture critiche dedicate al libro, con contributi e testimonianze che ne moltiplicano i sensi di resistenza umana e culturale.

A.V.

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Nel corpo a corpo con la totalità

Filippo Ravizza

Adam Vaccaro: “Google – Il nome di Dio. In quattro quarti di cuore”
Puntoacapo Editrice, Pasturana (Alessandria) 2021

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Luigi Cannillo – Between Windows and Skies

Pubblicato il 19 gennaio 2023 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Luigi Cannillo, Between Windows and Skies (Selected Poems 1985-2020), Gradiva Publications, New York 2022
Nota critica di Laura Cantelmo

L’antologia che Luigi Cannillo ci propone – con testo a fronte in lingua inglese – raccoglie, come dovuto, un excursus significativo della sua attività poetica a partire dal 1985, nella quale il trascorrere del tempo si avverte anche nello stile che si va plasmando, mano a mano che la storia letterari,a allontanandosi dagli sperimentalismi delle avanguardie, registra un cambiamento del linguaggio. La sensazione che immediatamente se ne trae è quella di una poesia colta, misurata e attenta nel disvelare l’Io senza roboanti affermazioni di verità, ma che si configura come narrazione di una storia personale, un sottaciuto Bildungsroman intrecciato alla Storia della realtà esterna, senza mai lasciarsene totalmente dominare.
Si percepisce tra i versi una certa ritrosia, quasi si trattasse di una vicenda elaborata nel profondo del corpo del Poeta- e va qui sottolineata l’importanza del corpo – che attraversa la persona stessa sia negli eventi esterni che in quelli privati: “Cerca il mio corpo sulla carta/” dice in modo esplicito il Poeta, “Tutto è assegnato al corpo/pronto alla fuga, alla sua lingua/inquieta…/”. Sono versi del 2014, che incontriamo in Galleria del vento (p.72), benché silenziosamente giacenti nell’Es fin dai primi componimenti. Quel corpo che pensava di essere al centro, di dominare il tempo e la memoria come entità compatte, senza contraddizioni, si ritrova a fare i conti con il ricordo proprio e altrui : ”Io che credevo il tempo/drappeggio intorno/a me eterno centro/…./Invece affiorano/ povere trame sparse/”(Cielo privato, 2005, p.42). Quel passato “di presunta gloria” i cui racconti nel dopoguerra venivano risparmiati ai figli: ”adunate, le corse nei rifugi…il cambio di uniformi” resta come monito contro le storture della storia :”Nessuno adesso si permetta il lusso della nostalgia/bruciano i documenti tra le mani”(p. 46) definisce la consapevolezza civile del cittadino immerso in “un campo di battaglia senza tregua”.
Il segno di una maturità ormai conquistata, se non molto vicina, si intravede già in un testo del 1993 (Sesto Senso, p. 22): “Dalla spiaggia avvistata/arrivare pareva onda difforme elevata restare/” che si sviluppa in: ”La battuta seguente/è già trincea in esplosione”…testo misterioso , che ci dice, però: “Dal cambio di visuale/ ci si vede su pedane mobili”. Nell’evidente simbolismo i movimenti del mare impongono una dinamica all’esistenza che scorre, tant’è che il movimento produce un mutamento inevitabile a quell’onda che prima avevamo visto “elevata restare”. Esempio, questo, di Poiein, cioè fare, plasmare, creare – così procede la poesia al passo con la vita, modellando a propria scelta il linguaggio e le immagini anche nell’intento di respingere quegli “angeli ostili” che ostacolano il viaggio verso la maturità, rifiutando la pacificazione dei conflitti: “Chiedevo a bassa voce padre/mostrami la cicatrice, la guerra/ma il panno non si è sollevato…”. Passaggio molto intenso, dal cui inevitabile smarrimento il Poeta riuscirà a trovare una via d’uscita: “La sostanza sopravvive alle creature/ nella visione/…/L’alleanza sta affiorando adesso/” (in Cielo privato, 2005, p. 48).
La musicalità accurata della versificazione e abilmente ricercata della lingua svela la volontà di dire, ma sempre con un certo pudore: ”Cambio sempre strada al ritorno/La mia natura è percorrere/la scala di servizio, accomodarmi/ a dormire sul gradino stretto” (p.90). Non a caso questi versi si trovano nel testo conclusivo della raccolta, quasi a fornirne una chiave di lettura. Ne traspare uno spirito consapevole della propria intima complessità, dell’esistenza di un doppio, di un sosia nascosto e dunque di due nature che si contrappongono l’una all’altra e, pur confliggendo, collaborano – in quanto complici – entro un’unica persona (p.56).
Alcuni testi inediti tratti da Lazzaretto, il quartiere di manzoniana memoria ormai quasi totalmente scomparso, in cui la famiglia del Poeta abitava, richiamano il tempo della peste di Milano, il “male sepolto”, che in modo inquietante resta imperituro, sebbene le nuove case sembrino cancellare i pochi resti del passato, come lo stemma borromeo. Con le loro “ombre perenni”, quelle strade percorse dal Poeta bambino che le attraversa “disarmato”, benché oggi consapevole di far parte dei “salvati”, sembrano un presagio della pandemia che si sarebbe nuovamente abbattuta sulla città e sul mondo.
In quel quartiere si ritrovano le memorie della scuola, dei tigli profumati, del fiocco azzurro al collo degli scolari, delle paure vissute negli interminabili corridoi della scuola, nelle strade cupe e deserte. E proprio lì il Poeta ha avvertito le prime esplosioni del desiderio adolescenziale, la gioiosa fine dell’anno scolastico all’inizio di un’estate accarezzata nei sogni come “infinita”. Tra le mura scolastiche che racchiudevano l’inverno e la solitudine delle aule verranno apprese le regole della scuola e della vita dal bambino “che vive d’ombra”, che mai si mescolerà alle corse pazze dei compagni: “Non mi avrete alla ricreazione/ salirò sull’albero/ più alto del giardino.” (p.90). In questi ultimi versi sta il ritratto degli anni di formazione del futuro Poeta, del suo carattere schivo e appartato. Ed è qui, a mio parere, che si apre alla comprensione del lettore la figura umana di Luigi Cannillo.
Un encomio merita il lavoro di traduzione in lingua inglese di questa antologia, in quanto brillante esempio di aderenza al testo. Nessun tradimento del testo originale, ma grande professionalità e rispetto dello stile dell’Autore. La fatica di Paolo Belluso, il traduttore, ha reso un mirabile servizio di trasmissione del testo, restituendo l’intensità delle immagini, non sempre immediate nella comunicazione, in un idioma meno duttile nel rendere appieno la polisemia delle parole e delle figure retoriche tipico nella nostra tradizione letteraria contemporanea.

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Piccole infinitudini – Mauro Macario

Pubblicato il 16 gennaio 2023 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Il sorriso perduto dei padri nella palude del presente

Adam Vaccaro

 

Mauro Macario, Piccole infinitudini, puntoacapo Ed., 2022

Un libro necessario in questa stagione buia, pregna di falsificazioni del neoliberismo globale che deve spacciare paure sul suo piatto di bontà, verità e scienza, ponendo sull’altro squalificanti ismi per chiunque sollevi critiche o ipotesi di un pensiero diverso. Un utero ideologico dai caratteri di fondamentalismo religioso, vestito di progressismo accreditato di sinistra. Il che implica la desertificazione di una aggiornata azione critica del capitalismo, che lascia alle Destre praterie di bisogni insoddisfatti dei più, entro crescenti orizzonti di guerre tra più teste imperialistiche, con rischi letali per i destini dell’umanità. Ma sono solo bilanci di catastrofismi e cassandre deliranti, e il problema è risolto.
Questo libro offre lampi di luce in una lingua vietata e inattuale, nel diluviale bla-bla massmediale di sacerdoti officianti una democratura sorretta da protesi tecnologiche e finanziarie, mai così potenti e tendenti a generare hybris e schiavi felici, entro una caverna platonica che appare senza uscita.
A questa sorta di grado zero del tempo-storia, i versi di Macario offrono denunce e sarcasmi, tra evocazioni di un tempo perduto e spiragli di aperture, di una mente di più menti, che possa – a partire da piccole infinitudini – dare nome alla Cosa cui la storia umana è pervenuta. Versi che fanno domande rivolte in primo luogo al passato, personale e collettivo, in cerca di qualche risposta. Come fare, come trovare guide per dire lo smarrimento e il dolore vissuto dai più, senza cadere in ripiegamenti piangenti, facendone anzi moti di uscita, speranza e utopica rinascita?
C’è un non detto: cosa è successo e come abbiamo potuto perdere il sorriso e la visione positiva di futuro consegnato da padri e madri, usciti stremati dall’ultimo eccidio mondiale? Siamo una generazione fallimentare di illusori rivoluzionari, che ha ucciso insieme padri e futuro, tra frenesie di idiotismi tecnologici? Macario parte dalla carne e dall’anima, custodi di lampi di gioia donati da coloro che ci hanno dato la vita. Perdite primarie, metafore, metonimie e simboli della totalità rubata da un tempo-Crono che mangia memorie e menti.
Tra le perdite richiamate dal libro ci sono Leo Ferré (Il maestro, pp. 54-55): “mi hai svegliato poeta”, e l’ombra del padre Erminio: nomen omen con macarius, felice in latino. Memoria di sorrisi cui Mauro offre un controcanto impietoso del conto imposto alla gioia ricevuta: somme di “sguardo stanco di tutto e di tutti/ sentirsi abbandonati dalla morte/ di chi avresti ancora bisogno (Lezione di guida – p.29), mentre “Gesù/ ha dato le dimissioni/…/ Marx ha fatto di peggio/ ha incendiato i quartieri poveri/ le Case del Popolo/ ora è un blogger onlenin” e “Bakunin/ annega suicida nella Senna” (Trinità – p.45).
La conta delle spese e dei presagi (mio verso, eco di questi suoi) impone di dirci allo specchio: “Noi siamo un mondo finito/…/ l’onda anomala ricopre un’epoca/ derubandola di un antico tesoro”, e sta sola nelle nostre mani la possibilità di evitare “la rotta che conduce all’abisso” (Testamento collettivo – p.40-41). Il testo lancia SOS, senza scialuppe e cutter, tra teleintimazioni di carità drogata, bastano 9 € al mese!: “Qui sono qui/ non posso muovermi/ ho il buon senso/ fratturato in più punti/…/ respiro a fatica/…/ ogni dieci minuti/ un’armata di spot/ suona la carica/ Custer non è morto/ Dona Ora/ al 4558022/ mi svena la carità/,,,/ portate i cani/ seguite i miei lamenti/ sto per diventare/ un promoter di televendite,” (Appello urgente, pp.46-47).
“Basterebbe Cavallo Pazzo/ un urlo di guerra/…a farla finita/ con la nuova America/ / Abbiamo bisogno di poco/ e non abbiamo niente/ l’America è in ogni paese/ del mondo/ genocidio delle identità/ locali/ fatte a pezzi e svendute/ negli empori dei rigurgiti/ tra clienti artificiali/ senza essere affamati/ saccheggiano l’eccesso/ con furia eucaristica/Il Grande Spirito/ serve solo a smacchiare” (Ghost dance – pp.38-39).
Mauro ci dice coi suoi versi, basta chiacchiere al vento, veniamo al punto con parole che regalino almeno un po’ di dignità e verità ai mali e alla nostra intelligenza: “Sulla soglia del nulla/ voglio solo ricordi cattivi/…/ per non rimpiangere/ la vita che lascio” (Black pass – p.92); “Alla fine dei conti/ bisogna ringraziare/ i propri carnefici/ ad ogni taglio inferto/ invece di sangue/ è uscita poesia” (L’autore ringrazia – p.91).

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anonimie – Massimo Pamio

Pubblicato il 13 gennaio 2023 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro
Replichiamo l’articolo già pubblicato sulla Rivista “Odissea”, che ringraziamo.

https://libertariam.blogspot.com/2023/01/la-ricerca-inesausta-di-pamio-diadam.html 

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La ricerca inesausta di Massimo Pamio
In anonimie (Poesie 2010–2020), Edizioni Mondo Nuovo, Pescara, gennaio 2023, pp. 272
Adam Vaccaro

Un libro che si impone con cadenze e intrecci che sono, per chi ha seguito le evoluzioni creative di Massimo Pamio, costitutive della sua inarresa misura con i temi più profondi del nostro esistere. Ma se forma e stile definiscono un Autore, qui ritroviamo confermato – pur nell’impegno richiesto dall’alveo tematico – il rigetto di ogni seriosità supponente, a favore dei panni variegati e dinamici sintetizzati dal Cantimbanco, sintagma e invenzione di uno dei primi testi poetici di questa raccolta antologica che abbraccia un decennio. Una raccolta che è corredata – a sottolinearne il rilievo espressivo – da una ricca Antologia critica, con contributi di Giovanni D’Alessandro, Rossano De Laurentiis, Erica Gazzoldi, Daniela Forni, Renato Minore, Elio Pecora, oltre a una lettera di Gabriella Sica (alcuni dei quali, con fraterne condivisioni del processo decennale di editing, riportano anche le interessanti varianti, precedenti il testo definitivo).
I temi affrontati coinvolgono la totalità di pensiero ed emozioni del Soggetto Scrivente, ma come detto il moto testuale tende a svolgersi nella leggerezza del Cantimbanco, termine che è “un calco di saltimbanco” (come rileva Erica Gazzoldi), e insieme “termine medievale per indicare il cantastorie” (lo ricorda Daniela Forni, che incastona lo stile dell’Autore in giullare del mistero), alias, il cantore, il poeta, che rifugge dal “prendersi troppo sul serio – a mo’ di Aldo Palazzeschi, che si definiva il saltimbanco dell’anima.”
Il Cantimbanco, vola e svolazza (ridacchiando anche sul Volo romanziere popolare) con le sue poesie volte a una Teomantica, prima parte della raccolta, e un altro dei molti termini inventati e necessari alla interminabile ricerca interrogante di cui si nutre (e ci nutre) il libro. “La ‘teomantica’ unisce il dio (teo-) all’arte della divinazione (–mantica). È dunque ispirazione divina, che fa vedere in profondità” (Gazzoldi), coniugando continuamente opposti, paradossi e ossimori, alimenti verbali che qui non sono Jeu de mots autoappaganti, ma segni di una insaziabile fame di canoscenza. È la prima comunicazione complessa che questa poesia e questo libro trasmettono.
“Mio Dio che sei l’unica parola/ che avrei voluto dire e pensare/ echeggiare nel silenzio e nell’anima/ mio Dio che sei tutto ciò che non so/ che sei il più lontano dei miei no”
Dio è parola di ricerca nel mistero, esteriore ed interiore del giullare. Un esteriore che tra i grani del suo rosario, declina ignominie di violenze e guerre di dominio, unite a autodistruzioni di ogni equilibrio della “Madre Terra”. Non meraviglia perciò lo sbocco nell’invettiva: “scaglia gli ignoranti / che vivono sul tuo volto dolcissimo”. Mentre il singolo diventa collettivo: “Schiaffeggiati dal guanto del mondo,/ pretendiamo ragione”, e si fa profetico, tra gli estremi frutti velenosi delle logiche in atto, di “grande freddo” o “riscaldamento globale” e “desertificazione del futuro”. Che nella campitura mistica, domanda: “che sia questo del Maligno” il disegno? Domanda rivolta anche al qui-ora e al noi: “C’è una persona in noi o c’è uno spiraglio del vero del mondo…un segnale del divino che ci avvisa ogni volta del nostro misterioso ingannarci?” Domande che non salvano lo stesso cantimbanco: “inguaribile egocentrico” e “fingitore”, quale denudato da Fernando Pessoa? “Narciso trasformista” che rimane chiuso in sé, o Autore di sé, che sa uscire dai deliri di essere Fattore del Mondo e Castello di Dio, facendone uscio di un senso D’Io?
Domande, interrogazioni e ribaltamenti di sensi compongono la struttura retorica portante del testo: “L’uomo, misura di tutte le cose che non sono,/ di tutte le assenze in sé cumulate, come di quelle/ neanche immaginate. Precluse, tutte, all’interiorità/ come all’esteriorità: escluse da ogni mondo, per amore”.
Pochi versi che incidono il nucleo portante del libro, sintetizzato nel titolo, anonimie. Le minuscole evidenziano il senso di cancellazione di una soggettività che si afferma, Io o Sé che sia. Ma quel “non sono” non ha qui – come ben sottolinea Giovanni D’Alessandro – il significato storicizzato montaliano, di “ciò che non siamo… non vogliamo” – ma di un soggetto singolo-collettivo che si sente smarrito, annullato, non da un gioco autoreferenziale di pensiero, ma dalla immensità dell’esperienza dell’universo, presente e per lui intangibile, come rileva Elio Pecora.
Ma questo vuoto, questo zero, non sono ripiegamento piangente, perché si fa pedana di ripresa del “cammino verso la conoscenza del sé” (D’Alessandro). Siamo dunque alle origini della Sofia, dell’essere conscio della propria infima e insignificante essenza e presenza di fronte a un universo dal significante e significato ignoti. Ribaltati però a fondamento di moto verso domande inesauste, di ricerca che può essere solo del senso dell’Altro e dell’Oltre, ma ricongiunte a specchio nel proprio sconosciuto Sé. Il vuoto diventa così fonte e utero di conoscenza, coscienza dell’interminabile circuito di nascita e rinascita, senza il quale il tutto rimane nulla.
Il gioco e la sfida di Pamio vanno perciò al di là del moderno e di qualunque suo post. Se in tali fasi storiche siamo stati folgorati e sommersi da forme di hybris, deliri di onnipotenza di incrollabili certezze di “magnifiche sorti e progressive” (La Ginestra, Leopardi), Pamio declina e ci sconvolge con versi: “l’incanto/ della fissità d’un bambino mai nato/ il poeta che io sono, mai avuto/ da nessuna madre, da nessun uovo”. Versi che sanno coniugare umiltà e ripresa di sé, nel volo di rinascita di una Fenice-Poesia.
Rinascere alla vita, nonostante i suoi orrori è l’imperativo categorico che ci dona l’astro (come è chiamato dall’Autore) della sua poesia. Davanti al Tutto che parla ed è muto, nasce lo stupore, lo smarrimento, la sofia e la poesia, che danno anche il nome di Dio a tutte le domande interminabili, cui l’atteggiamento mistico risponde col fervore della fede, e l’atteggiamento agnostico, con diversa umiltà lascia sospese.
Ma il Sacro è campo aperto per entrambi, imprescindibile fondamento del senso del limite e dell’etica, il cammino umano negli impervi ed esaltanti passi del pensiero moderno ha piantato lapidi con su scritto “Dio è morto”. Ma l’uomo è vivo? Pamio su questo crinale riparte dalla lapide della morte dell’uomo, eredità di un processo antropologico, senza il quale siamo nulla. In tale alveo, le domande riguardano anche la teomantica e il campo pieno di croci e orrori consegnato dalla storia. Pamio ci invita a ripartire davanti a un immane fallimento che, se è di Dio, è in primo luogo del suo presunto vertice o specie eletta della Creazione.
Nel circuito vitale misterioso, che continua e non ci appartiene, la morte e la vita sono due facce dello stesso Tutto, congiunte in un punto che è Amore, con mille nomi e forme al pari di ogni altro ramo e nucleo della Cosa che chiamiamo Vita. È il nome del mistero che ci dona e domina con la sua petite mort – geniale dicto-scintilla, verbale, materiale e spirituale – di nuova vita. È il campo aperto di infinite anonimie, che attendono da noi di riavere la dignità di un nome.
Può il poièin morire e rinascere in questo campo di croci offrendo il suo canto straziato di corpi senza nomi? È la domanda aperta, senza pace ma affamata di gioia, che questo libro ci lascia. Un libro che si libra in precario equilibrio, di un soggetto che dopo aver inscritto lapidario “Fugge da me ogni certezza”, ribalta come clessidra gioiosa l’invito a “orfanarsi” nel volo di una “cartaventosa”, di una “Cartadittamondo” per porsi e porci, nudi e indifesi, tra paure e tragedie, in uno smarrimento che si fa luogo di linfa singola-collettiva di utopia resistente: “uniti nella speranza nella pienezza dei tempi/ disseppelliremo il nuovo contratto con il mondo”, fino a reinventare il lampo sotto le bombe del mattino ungarettiano, in una forma che è una sorta di balbettio infante: “M’incantesimo d(’)i/m– (m)en(s)o. Scoppiano le bombe e insieme scoppia la gioia-poesia:
“vita è scostare le tende/ per vedere ogni altro mondo”. L’insegnamento è: bisogna partire dal minimo, ma occorre salvare il sogno critico capace di re-agire e smascherare il pensiero unico del turbocapitalismo, tendente a cancellare differenze e a ridurre la ricchezza dell’umanità in un’unica metropoli mondiale.
La ricerca espressiva di Pamio va dunque oltre appagamenti minimalistici o chiusure in torri d’avorio parnassiane, per misurarsi col vento di tutta la storia umana. Un libro vitale e ricchissimo di stimoli, di filosofia, scienze sociali e poesia, da quella più alta fino ai cantautori moderni.
L’Io è sbeffeggiato e rincorso tra sarcasmo e autoironia, colma infine di pietas: “il mio io…consenziente, vigliacco, imbecille, codardo. lo conosco come le mie tasche. Vorrebbe corrompermi o vendermi per pochi denari, tradirmi. Non sa chi sono e di che cosa sono capace. Prima o poi lo trovo e lo ammazzo, con le sue stesse mani. E lo perdono.”
E uguale contropelo è riservato al contesto storico attuale, coi suoi simboli e poteri, che mentre marchiano la vita di massacri e “dal seme della sconfitta del bene”, continuano le declamazioni retoriche di trattati e sigle inutili (ONU, UNESCO, FAO), in un “teatro delle Illusioni” e delle falsità.
Allo stesso Dio, nome di Tutto e Nulla della sua Teomantica, non concede sconti e quella pietas riservata all’umano: “Mio Dio che sei l’unica parola/ che avrei voluto dire e pensare”; “Dio, solo l’inizio d’una negazione senza fine”; “L’Eterno, L’Onnisciente,…L’Onnipotente…lo cerchi in ogni dove./ Fin quando – in un filo d’erba che oscilla/ con superbia per aver resistito/ allo strazio del vento,/ lo trovi: il tuo Io.”; sì, se “Sono: ti annullo, Dio./ E poiché mi doni la parola,/ sia Tu maledetto, compiaciuto in Te stesso…/ amarTi del Tuo Amore, demente Dio ingordo di me,/ che io non sia mai Tuo.”
Le domande su Dio e sulla Poesia sono entrambe interminabili e senza possibili risposte definitive. Altrettanto si può dire della scienza e del soggetto interrogante, Io o Sé che sia. Ma senza queste domande la vita umana è monca. Il valore di questo libro è di farne testo in forma di poesia. Per cui, chiosa opportunamente Forni: “La sua poesia potrebbe sembrare a una lettura superficiale scevra dagli agganci al presente, intrisa di metafisica e di spiritualità”. È un profilo rispondente a quello proposto da Gabriella Sica: “Forse sei anche tu, almeno un po’, come un tuo antenato, il bellissimo pre–italico guerriero di Capestrano. Anche lui non smette di combattere nell’istante e nei secoli, orgoglioso e docile, ‘l’eroico protagonista/ e l’umile comparsa’”.
11 gennaio 2023

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Google – Il nome di Dio – Letture 11

Pubblicato il 8 gennaio 2023 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Recensione di Sebastiano Aglieco, del 5 gennaio 2023 sulla Rivista Compitu Re Vivi

https://miolive.wordpress.com/2023/01/05/ultimi-libri-adam-vaccaro/

*

Una lettura co-autorale, capace di riprendere ogni lembo del poièin per farne ulteriore sviluppo della sua interminabile passione di “attimi di infinito” e “canoscenza” totalizzante. Tensione di un istrice intollerante a ogni delimitazione, al pari della vita.

A.V.
*

Una recensione che è, soprattutto, un intervento.

Sebastiano Aglieco

Adam Vaccaro, GOOGLE – IL NOME DI DIO IN QUATTO QUARTI DI CUORE, puntoacapo 2021

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Angela Passarello – Poema Rupe

Pubblicato il 6 ottobre 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Rupe daimon di Girgenti

Adam Vaccaro

Angela Passarello, Poema Rupe, New Press Ed., 2022

In questo libro è come scalpellato sulla pietra, con caratteri lapidari e icastici, un affamato e inesausto, vorace daimon che incarna quel chiodo su cui poi la nostra vita ruoterà e che Claudio Magris chiama primogiardino. È il luogo reale e immaginario, l’orizzonte geografico e umano in cui la nostra identità comincia a interagire col mondo, disegnandone primi tratti, con paralleli e meridiani del visibile, ma anche sprofondi nell’oltre invisibile, dentro e fuori di noi.
Memoria e presente, orrori e gioia di vita, infimo e immenso diventano fuoco vivo che inventa una lingua viva e rinnovata da un intreccio inestricabile, erotico e doloroso con l’Altro. Ne nascono corpi e accrocchi di segni, sensi e suoni, tesi a una immagine animale della totalità, simbolizzata dalla Rupe – utero di rinascita e creatività di questo poièin, che oscilla tra noto e ignoto custodito nelle mani di quel daimon che ci tiene, ci appartiene e ci sfugge, tra umano e divino, quale era inteso dai Greci, radice culturale cui il testo è profondamente innervato. Opportunamente Angelo Lumelli ne ricorda nella Prefazione i dibattiti sulla costruzione di una forma, poetica e no, tra accenti contrapposti, analogici e rivendicazioni della anomalia di ogni diversità, di cui la lingua si fa testo a fronte, contro ogni noto e consueto.
La espressività di Angela Passarello, non solo in questo Poema, ruota intorno a tale chiodo, cui lei dà nome di Rupe, icona del suo primogiardino, sempre presente e sempre passato nel suo venire e stare nel mondo. Tale immagine dà nome al testo e diverta nucleo atomico esplodente di detto e non detto, di dicibile e indicibile, crinale epifanico di poesia, con invenzioni verbali che accorpano termini e ci proiettano sia nel cuore della Rupe, sia sul nostro universo, denso di domande e ben poche risposte.
La Rupe assume perciò qui quasi il nome di un’astronave umana o un ufo, che affascina e spaventa, concreta e al tempo stesso onirica, piena di buchi in cui a tratti rimane in gola la nostra fame di significati e di senso. E tuttavia, la prima Sezione del libro, con lo stesso titolo del libro, in una sequenza di anelli vocativi- invocativi, con molecole apparentemente slegate, man mano costruiscono tessere di un mosaico e una catena di sensi, ricchi di magnetismo comunicante.

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L’estranea canzone di Mariapia Quintavalla

Pubblicato il 14 settembre 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Il sogno e l’utopia al vaglio del tempo
Laura Cantelmo

Mariapia Quintavalla, Estranea canzone, puntoacapo Ed. , Pasturana 2022

Torna a parlarci la poesia di Mariapia Quintavalla, grazie alla nuova edizione di Estranea canzone, poemetto dato alle stampe per la prima volta nel 2000. L’apprendistato poetico di questa Autrice registrava già allora un numero considerevole di opere ricche di giovanile freschezza e di interesse innovativo, caratterizzate da “perlustrazioni e rammentazioni di un’area cubofuturista e surrealista con connesioni nell’area della poesia italiana degli anni settanta” (A. Zanzotto, “Per una poetica di Mariapia Quintavalla”, in Nuovi Argomenti, 1994, nota critica che, successivamente integrata, ritroviamo nella prima edizione e anche nella presente).
Dopo un tempo che appare remoto dalla prima edizione, tanto da poter rendere brucianti le ferite della storia fino a stravolgere il volto di un’opera di invenzione di singolare novità, alla prova dei fatti la rilettura di un testo pubblicato una ventina di anni fa e oggi rivisto, afferma il proprio valore permanente nel percorso diacronico della ricerca di una nuova lingua poetica in quanto voce e sogno di un nuovo mondo.
A conclusione del romanzo in versi Le Moradas” (1996) che precede Estranea canzone, un canto intitolato “Prologo”, in cui ritroviamo lo stesso tessuto linguistico dell’opera in cui è inserito quasi a volere introdurre Estranea canzone, comprende una significativa dedica ”agli invisibili, fratelli e sorelle/ di generazione che non presero la parola”. La parola è dunque compito etico di chi quella parola è riuscito ad avere, potendola usare in nome di fratelli e sorelle. Un abbraccio fraterno ai senza voce che è di per sé elemento illuminante – respiro umano che connota l’opera. Il Canzoniere intitolato Le Moradas, intreccio di storia personale e di riferimenti ad Autori importanti per l’Autrice, come Antonio Porta e Franco Fortini, è momento significativo nella poetica di Mariapia Quintavalla in quanto anticipa e consolida il progetto di Estranea canzone, quello di costruire una visione del mondo e di dar voce ai sogni con una strana lingua inventata, antica e inedita.
Estranea canzone costituisce un passaggio più maturo, in cui il lettore non può che abbandonarsi all’invenzione linguistica evitando di decodificare il testo, mentre poco alla volta ne individua il racconto autobiografico che ha inizio nel luogo natio, Parma, l’Emilia del suo cuore, per procedere seguendo “il filo più forte ….quello del destino della poesia.” (Marisa Bulgheroni. Dialogo con Francesca Pasini, Circolo della Rosa e Libreria Tikkun, Milano, 2000). Ancora oggi esso sfida il lettore in ogni singolo testo, in ogni verso, quasi appartenesse a un codice linguistico a noi affine, sia pure rimodellato a sua volta in totale libertà. Tornano alla mente le dicotomie saussuriane, quali langue e parole, secondo le quali la Poeta, partendo dalla lingua nativa (langue), crea la propria personalissima e intima parole. Di cui, oltre a Bulgheroni, Pasini e Andrea Zanzotto, che ne hanno discusso dettagliatamente e con passione, anche Adam Vaccaro, in Le tracce e il luogo di Alice (Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, 2000) ci ha offerto illuminanti osservazioni.
Ci viene riconsegnato ora un poemetto in sestine avvolto in una atmosfera “agli albori del tempo”, che offre molti piani di lettura e intende proporre una lingua poetica attraversata dall’esperienza delle avanguardie del secondo Novecento senza averne subito interventi di carattere freddamente intellettualistico.
Ci si trova a navigare un fiume che sgorga dall’interno, la cui onda tiepida e contenta plasma un discorso franto e cadenzato, ispirato dall’irrefrenabile impulso creativo dell’inconscio – quello foco – che operando sul lessico, stravolge fonemi, inventa neologismi grazie all’uso di morfemi – prefissi e suffissi – fino a renderli radiante materia polisemica. Una ricerca che rifiuta l’inerzia del modello “significante/significato” della linguistica saussuriana, inventando in modo spiazzante un vocabolario del tutto personale. L’intento è di approdare alla forma canzone, composizione epico-narrativa consegnata alla storia dalla tradizione fiorita in Francia nel Medio Evo. “Chansons de gestes” che allora davano vita a un racconto in versi di gesta guerresche, in seguito acquisita dalla lirica italiana.
La canzone di Quintavalla è una autobiografia “tutto fratture e crampi” (Zanzotto) intrecciata con le vicende del proprio percorso letterario in un quadro storico che è il dato antropologico e politico di riferimento. Una dinamica elaborazione dei fatti dell’esistenza individuale che si identificano, contrastano o si fondono grazie a una passione poetica che mediante una nuova lingua intende rappresentare/prefigurare un nuovo mondo, non solo la poesia, cui offrire uno “statuto simbolico” inedito e universale: “la voce nuova non era scherzo, era cambiato/ il fulcro – nella vita e morte”. Il che avviene all’uscita di una giovinezza eternatura nella raggiunta consapevolezza della maturità, “nel mezzo del cammino”.
Diviso formalmente in X Canti, il poemetto procede per stazioni, come una via crucis, sottolineando in tal modo l’asperità del percorso. Allusioni letterarie attuali o lontane ne affermano con forza il sostanziale legame alla tradizione letteraria e in particolare ai poemi epici. In una delle citazioni ariostesche, che definirei creativa “le donne, i cavalier, l’armi, gli odori” il tono ironico o forsanche sarcastico svela l’intento innovativo rispetto a quella illustre tradizione. Nella parole di Quintavalla è proprio il termine canzone a dare avvio a ogni vicenda legata al destino della donna nella sua interezza e complessità intellettuale e biologica. Gli esergo stessi sono tratti da modelli di donne – Linspector, Zambrano – che hanno elaborato un discorso di liberazione di genere.
I versi iniziali, introdotti da puntini di sospensione, aprono a un’atmosfera atemporale, indefinita: “…è nello spirito…nell’onda/ tiepida e veloce ma contenta, nel/ tempo del risveglio che continua” – gioioso inno all’ispirazione che sgorga dalla raggiunta maturità. Per valutarne la densità di senso basterà, come premessa, analizzare il titolo. Il termine canzone implica una componente essenziale della poesia – il ritmo, la musicalità, il canto che saranno qui “nuovi”, mentre l’aggettivo estranea (da ex trahere, tenersi al di fuori da una tensione drammaticamente alienante e insieme liberatoria) nella poetica di Quintavalla va inteso nella sua duplice natura di aggettivo e di sostantivo. Se ne deduce che Lei, soggetto in terza persona della narrazione e del canto, si pone al di fuori dalle consuetudini letterarie e linguistiche formali e da un punto di vista esterno persino rispetto alla narrazione autobiografica. Infatti quel foco/quella incantevole scintilla la infiammano al punto da inducerla a elaborare il passato superando e rimodellando la lingua poetica nella morfologia e nella sintassi al fine di narrare, in una sintesi linguistica estrema, il passato e poter divinare il futuro (v. Marisa Bulgheroni, “Quali parole ci salveranno”, in Leggendaria 2001).
Sappiamo che la lingua si rimodula nel percorso storico ed ecco Lei, donna di un nuovo tempo, farsi voce/gola della nuova storia e affrontare con l’energia di una più sicura coscienza il compito di fornire la lingua per un nuovo futuro mondo nel quale la donna ha finalmente diritto di parola e di poesia.
E dove troviamo a un certo punto solo plurali femminili invece che maschili, è la Poeta stessa a liberare la lingua/canzone/poesia (i termini si fondono e si confondono) dai vincoli di una pesante tradizione patriarcale. Mano a mano si agglomerano i termini che rappresentano metonimie/sineddochi/ossimori, tant’è che la lingua diviene sempre più affermazione e profezia di un’era dove la donna in un tempo/zolla non più colonizzato può uscire dalla notte e cantare, arare improvvise tenere canzoni da balconate, (che altrove saranno finestre o balaustrate).
Lei
La seconda parte, più autobiografica, porta alla ribalta Lei, bambina agghindata e connotata dalle scarpette rosse nella nativa Parma e il suo successivo trasferimento a Milano l’elettrica, dove, dismesse le danzanti scarpette, la donna adulta incontra tutta una lucciolata di amiche vecchie e nuove – sorelle/canzoni (l’identificazione è chiara e ripetendosi spesso, sempre più rappresentativa della poetica) che allacciano relazioni, favoriscono un convito, mentre invece altri – fottuti – esprimono ostilità: “le ingiungevano tacere o meglio andarsene”. Sempre più estranea di fronte ai malevoli inviti della perduta gente ad abbandonare il nuovo percorso già segnato “là il moderno e qui il sicuro ridacchiavano”, con la ripetizione di termini come sola/solitudine, Lei manifesta eloquentemente il suo stato d’animo.
Le ardite invenzioni linguistiche si succedono con frequenti evocazioni dei poemi epici e con richiami ai poeti contemporanei più amati, come Sereni, Fortini, Bertolucci. Insieme all’ardore della creazione del nuovo, sofferenza e resistenza suggeriscono parole che hanno la solennità di storie sapienziali incise nella pietra, alla ricerca di un posto altura/intimo e transustanziato per abbandonare le fole e sedersi al convito quasi ignoto delle amiche dove si dicono parole astanti (da ad stare, essere vicino) per sognare un altro mondo privo di colonizzazione. Il termine astante è una delle misteriose parole chiave che attraversando il poemetto denota un’atmosfera di rispettoso ascolto e contiguità delle astanti, con una sottile venatura di deferente rispetto.
Il tema del materno, introdotto dall’esergo di Maria Zambrano sull’origine filiale della madre chiama in scena le Madri di riferimento (tra le quali la presenza non del tutto rasserenante della madre naturale). Il congedo che ne segue apre a nuove progettualità e utopie con l’irrompere improvviso della figura luminosa della figlia, agile Ippogrifo, un fascio di luce che rischiara il presente e lo rasserena, sfocando momentaneamente le inquietudini del passato. Dopo una fase di drammatica afasia e il timore di non potere più scrivere, Lei non avverte più la sua estraneità nella modalità che conosciamo.
Verso il finale una notevole rarefazione della sintassi, l’uso di agglutinazioni, di allegorie, sineddochi, metonimie, paronomasie accresce la funzione di strumenti retorici evocativi di una forte densità di senso.
L’excipit vede la Poeta, “arricchita” dalla nascita di una canzone il figlio, trovare, dopo quel foco che si accese, un seguito di intente giovani, rifacere la storia, eredi e testimoni del suo percorso umano e poetico.
Un’opera “aperta”, avrebbe detto Umberto Eco, che con raffinato sortilegio sollecita il lettore ad “atti di libertà cosciente” in prima persona. Un impegno attivo, creativo e interpretativo autonomo (Umberto Eco, L’opera aperta).

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