Scrittura e Letture

Killer Game – Andrea Mantelli

Pubblicato il 18 giugno 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Andrea Mantelli, Killer Game – Romanzo, puntoacapo, Pasturana (AL), 2023
Laura Cantelmo

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Quella che, con una definizione corrente viene chiamata “letteratura d’intrattenimento” non rende giustizia a chi, come Mantelli, fa dire a un personaggio, nella prima riga del suo romanzo: “Scrivo. Esisto per scrivere”. Lo scrittore, in questa sorta di outing, manifesta la passione di una vita, sempre vissuta scrivendo, per necessità di lavoro o per semplice impulso interiore. E lo fa attraverso una maschera, un personaggio scelto come portavoce, secondo la mimesis classica della narrazione. Pensiamo persino che in lui l’umorismo abbia un malcelato scopo satirico di quel genere, che solitamente è destinato allo svago.
Killer Game non è un romanzo tradizionale, non ha una trama che gradualmente si sviluppa con personaggi suddivisi a seconda delle funzioni, in primari e secondari. Anzi, esso si presenta interessante a un’analisi semiotica, avendo una struttura che non segue uno sviluppo lineare, bensì in una successione di scatole cinesi: ogni capitolo/racconto o microtesto è propedeutico a quello successivo, la trama procede come per gemmazione, sviluppando il tema centrale, ma non la coerente fabula che ci si aspetta, poiché ciascun capitolo, almeno nella prima parte, ha una sua autonomia narrativa, con personaggi differenti di volta in volta, mirando sempre a un unico fine: individuare la formula dell’assassinio perfetto.
Non troviamo qui il classico protagonista con tutta la serie di antagonisti e personaggi secondari, attorno ai quali si evolve l’intreccio. Il titolo dice chiaramente che il tema riguarda i killer e rientra quindi nella definizione di romanzo giallo. Ciò che appare come filo conduttore, non è tanto la trama, ma è la vasta sfaccettatura del Male, in particolare dell’assassinio, incarnata in personaggi la cui tendenza omicida, verso chi li disturba nella vita privata o in affari più o meno leciti, non risulta essere innata, bensì indotta, provocata da evenienze casuali del destino. Quasi sempre è l’occasione che rende assassini, ci dice il racconto/capitolo “L’assassino che è in noi”: “Si è svegliato l’assassino che c’è in me, in noi, in tutti noi, compresi voi che state leggendo, non negate…Possiedo una pistola ed è certo che nulla sarà più come prima.” (Pag.69) Abbastanza inquietante, come affermazione, che non può non far pensare il lettore.
Ma è anche vero che quanto l’Autore afferma, capita che venga successivamente smentito. Infatti, nel racconto eponimo, Killer Game, la tesi precedente è inficiata dalla presenza della Facoltà del Crimine Applicato e dal suo opposto, la Facoltà del Crimine Represso, dove la dottrina criminologica è clamorosamente messa in ridicolo dall’umorismo della narrazione e dalla comicità grottesca dei personaggi.
Con disinvolta ironia l’Autore affronta il tema della circolazione delle armi, facendo supporre che il libro che stiamo leggendo, pur se apparentemente si presenta come un giallo, abbia per lo meno un pensiero di fondo molto serio, che svia dalla rituale definizione accademica di “letteratura d’intrattenimento”. A differenza del classico poliziesco, manca qui la figura dell’inquirente amatoriale, non ci sono delitti di cui non si conosca il colpevole, non c’è alcun rappresentante della legge chiamato a risolvere il caso. Il tema da sviluppare è come arrivare a compiere un assassinio perfetto.
Lo scopo ufficiale è il divertimento. Ma non solo. Quello non verrà mai a mancare, perché nella vasta gamma dei killer vi è una ricerca del paradosso, degli incidenti esilaranti che fanno fallire i progetti malsani, fino a quando, nella parte centrale, troviamo una farsesca esaltazione del crimine, che dice la ragione del titolo: Killer Game. Così è chiamato il Festival del Delitto, indetto dalla Facoltà di Crimine Applicato, promosso dal Magnifico Rettore denominato Flaccido Bimbo, cui è assegnata l’ARRAPANTE cattedra di killeraggio. La comicità è al massimo, allorché i personaggi che si susseguono nel Festival sono tratteggiati tenendo presente, si direbbe, la tipologia di alcuni grandi film comici del passato – Il Grande Dittatore o Tempi moderni – che hanno segnato altissimi momenti di critica politica e sociale nella storia del cinema. Qui, ad esempio, si cita il precariato nel lavoro, lo sfruttamento e l’abuso di potere (vediamo la povera Gambozzi, assistente del Rettore, regolarmente sculacciata per punizione), per avvicinare alla realtà un racconto che è tutt’altro che realistico. Ė abbastanza evidente che, delle categorie letterarie di cui si occupava con una certa rigidità la semiotica degli ultimi decenni del Novecento, l’Autore non si curi affatto, agendo nella massima libertà. La trama o, meglio, le trame, si muovono nell’ambito del grottesco, a volte il finale del racconto resta in sospeso, mentre gli “eroi”, i killer maldestri, sono sempre diligentemente impegnati a studiare come organizzare il delitto perfetto.
La scelta del registro linguistico basso, espressa anche nei nomi propri – personaggi stilizzati come nella Commedia dell’Arte: Flaccido Bimbo – il Magnifico Rettore – il concorrente al Premio, Enanito (perché minuscolo), l’esilarante romano Li Mortacci, indicano che ci troviamo di fronte a una parodia di quei romanzi criminali da cui siamo sommersi, in stampa e in video, nonché dalla realistica volgarità che in essi si manifesta.
La novità sta nel ribaltamento della struttura che li caratterizza, con la presa in giro della categoria dell’assassino, con la ricerca minuziosa nel progettare l’omicidio e al contempo il tenero abbandonarsi alla nostalgia di Li Mortacci “della casetta…a Torpignattara” (pag.117). Mentre la parodia si fa più spietata grazie alla comica diligenza degli interessati, impiegata nel perseguire lo scopo finale, un assassinio efferato.
Nel concorso a premi che riguarda i video presentati al Festival sul miglior piano per un delitto, gli aspiranti assassini si presentano intimoriti come normali studenti, di fronte ai loro improbabili, severissimi giudici, i quali tacciano come “sfigati” coloro che si iscriveranno al Crimine Represso. Mantelli ha così ribaltato la grandiosità del Male, che in passato era stata rilevata dalla critica cinematografica ne Il Padrino o nella televisiva Gomorra, trasformandola in qualcosa di comico. Tenendo conto che, in questo romanzo, molti “progetti criminali”, nonostante tutto, falliscono.
Se il confronto con il cinema, più che con la letteratura, sorge spontaneo, dobbiamo risalire al passato dell’Autore: avendo lavorato come scrittore di trame di fumetti, Mantelli ha sempre avuto presente l’aspetto visivo, più che la descrizione. E non dimenticando il pubblico a cui di solito sono destinate quelle storie, dà importanza più al dialogo che agli intermezzi descrittivi e alla definizione del personaggio che non all’aspetto letterario del racconto. La differenza con il “genere” sta nell’offrire un testo più raffinato grazie all’uso dell’ironia e alla ricerca dell’eccesso in un registro linguistico fantasioso e volutamente sboccato, come si addice a un ambiente di malavita o al bar sport, là dove solitamente non si va per il sottile: “quindici gnocche di materiale plastico” (pag. 42), ne è un esempio eloquente.
Sarà l’Autore stesso a dirci nel finale, tramite una sua maschera: ”A me piacciono le storie che tornano su se stesse. Storie in circolo,” (pag.164). Lo si era capito, ma il divertimento consiste proprio nel volere candidamente ammettere ciò che è diventato ovvio nel corso della lettura, creando una sorta di spaesamento nel sovvertire gli schemi di un genere dalla struttura un po’ statica.
Quello che dalla critica più rigorosa è stato spesso definito come “crisi del racconto”, in questo frizzante romanzo viene attuato in assoluta e consapevole autonomia di scelta.
Milano, 20/05/2024

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Dal Lazzaretto – Luigi Cannillo

Pubblicato il 12 giugno 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Dal Cielo alla Terra
Il cerchio destinale ricongiunto nel nostos di Luigi Cannillo
Adam Vaccaro
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Luigi Cannillo, Dal Lazzaretto, La Vita Felice, Milano 2024

Penso sia necessario e utile riconnettere la lettura di questa ultima raccolta di Luigi Cannillo a quelle precedenti1, al fine di collocarla nel percorso che si illumina di senso, entro il disegno di quel libro unico di un Autore, quale inteso da Walt Whitman.
Occorre dire che l’arco complessivo disegnato dal percorso di Cannillo è un esempio di come agiscono e cambiano la struttura del testo quelle che chiamo forze della forma, con epifanie generative diverse, se più dominate dal vento interiore, o se più alimentate e agite dal ben altro vento, che soffia dall’Altro.
L’aria è simbolo, sia di liberazione dell’inconscio, tra i freni e le illusioni del rimosso che lo costituisce, sia di chiusure rispetto all’Io lasciato fuori dalla sua barriera invisibile. E le fioriture di segni, apparentemente libere, non amano evidenziare i loro legami emopoietici o onomatopeici con la materia biologica e psicologica che li genera. Se invece la distanza materica si riduce, i segni sono attirati come da un magnete che impone maggiore concretezza e transitività comunicativa. E tali diversi processi di germinazione linguistica, nel primo caso esaltano i giochi del significante, nel secondo corpi più scoperti e tesi al significato Col che agisce con più forza il bisogno di essere conosciuti e riconosciuti dall’Altro, dagli altri, nella coscienza che senza questa sutura, il Soggetto Scrivente e i suoi segni lasciano monche le possibilità di completare la missione potenziale da cui sono nati, di farsi conoscenza condivisa.

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Trame di nascita -Rosella Prezzo

Pubblicato il 25 maggio 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

TRAME DI NASCITA, di Rosella Prezzo, Moretti e Vitali, 2023

Nota di lettura di Maria Carla Baroni

Libro molto ricco e denso su cui ci sono moltissime cose da dire. Salterò di palo in frasca toccando alcuni punti che mi stanno particolarmente a cuore.
Noi in Occidente siamo figli e figlie della Bibbia e dei miti greci: della Bibbia secondo cui la donna fu creata da una costola del primo uomo; per fortuna esistono altre culture e altri miti. Maria Silvia Codecasa, nel suo libro “I sette serpenti”, Manifestolibri, 1994, dedicato al culto dei serpenti e delle Dee madri in Asia e nel Pacifico, ci parla di un mito dell’isola di Makira o San Cristobal, nell’ arcipelago delle Salomone, secondo cui il creatore plasmò una donna con la creta, poi le sfilò una costola e ne fece il primo uomo.
Diffondiamo questa buona novella.
Una forma di nascita è anche quella operata dal linguaggio: il linguaggio crea, fa nascere alla vita sociale, alla vita collettiva. In questa sede parlare del doppio linguaggio di genere è in un ceto senso scontato, ma lo faccio per quanto riguarda un aspetto: nelle bibliografie e nelle note dei saggi quasi sempre vengono citati autori e autrici con le iniziali del nome e con il cognome. Nella bibliografia di Rosella Prezzo viene citato il nome completo, ma nelle note solo le iniziali. Ci sono autori e autrici ultranoti/e, ma altri/e meno. In questa procedura, di cui non riesco a vedere le ragioni pratiche, che spesso mi hanno detto imposta dagli editori, io vedo solo la volontà maschile di occultare la creatività e il pensiero delle donne.
A proposito di linguaggio, in italiano si dovrebbe dire la madrepatria e non solo la patria: in inglese dicono motherland, la terramadre, la Pachamama, la terra madre dei popoli indigeni latinoamericani.
Desidero dire qualcosa sulla prospettiva dell’utero artificiale o ectogenesi, che ha abbastanza spazio nel libro e che Rosella Prezzo chiama utopia! (pag. 97) Assolutamente no. È una distopia, una distopia terrificante. In primo luogo perché significherebbe sottomettere alla tecnologica capitalistica, sviluppata per aumentare il potere dei pochi che già lo detengono, e quindi sempre più invasiva e opprimente, anche il fatto più naturale, più umano al mondo e cioè il nascere. E poi perché significherebbe la realizzazione della prospettiva maschile di non aver più bisogno delle donne neppure come ricettacolo del loro seme, la prospettiva di eliminare le donne anche come incubatrici…Non mi sarei mai aspettata che una donna – Sulahimi Firestone – potesse proporre, come soluzione all’oppressione del genere maschile su quello femminile e alla maternità come destino imposto (per perpetuare la specie e per trasmettere i beni e i titoli nobiliari), il rifiuto delle donne a fare figli e la procreazione completamente artificiale.
A parte l’impraticabilità su larga scala, è una prospettiva aberrante. Avere figli/e è naturale e non vedo perché mai le donne dovrebbero ribellarsi alla natura, che ci ha attrezzate a fare e ad allevare i figli/e, ad es. dotandoci di una maggiore resistenza immunologica e a disastri come le carestie. È la cultura maschile, la scienza maschile coeva al capitalismo nascente che vuole sottomettere la natura, con i bei risultati che stiamo vedendo. Sul come intendere la natura, basta confrontare il pensiero di Isaac Newton (funzionale appunto al capitalismo nascente) e il ribaltamento, con la critica femminista rivoluzionaria di Carolyn Merchant in “La morte della natura”, Garzanti, 1988.
Essere madri, quando lo si sceglie, è bello, la nascita è potenza; è anche potere, un potere che il genere maschile ci invidia e a causa del quale ci ha sottomesso per millenni, ha sottomesso i nostri corpi e ha valorizzato solo le creazioni, le nascite della mente, che attribuisce solo a se stesso, negando alle donne come genere – in Occidente fino all’inizio del Novecento – la possibilità di istruirsi, di andare a scuola. Tuttora i talebani in Afganistan impediscono alle donne di andare a scuola.
Due considerazioni in campo medico/sanitario, che esula dall’impostazione del libro di Rosella Prezzo, a mio parere utili per sottolineare quanto il potere maschile, sotto forma di potere medico, si sia già impadronito della maternità e della nascita: 1) l’eccesso di medicalizzazione del parto, che si traduce in un abuso di parti cesarei (anche perché questi vengono rimborsati agli ospedali come interventi chirurgici, a differenza dei parti naturali), un eccesso di parti indotti, uso di posizioni obbligate per partorire, episiotomie senza necessità, mancanze di rispetto con parole e comportamenti che configurano talora una vera e propria violenza (detta – impropriamente – violenza ostetrica), separazione dei neonati/e dalla madre dopo il parto; 2) l’accanimento a voler tenere in vita a tutti i costi anche creature che nascono con menomazioni gravi e gravissime e/o con pluripatologie, destinate alla sopravvivenza di pochi giorni o mesi o anni o, peggio ancora, a una sopravvivenza prolungata in cui sono impediti/e dal comunicare, destinati/e a istituzioni totali o a una convivenza straziante per le loro madri.
L’obiettivo delle donne non deve essere liberarsi dalla maternità, ma liberare la maternità scelta e voluta dagli ostacoli che ancora incontra e ottenere – contemporaneamente – il ruolo che si vuole nel mondo del lavoro e nella vita pubblica, politica: le donne delle classi lavoratrici in Italia non sono libere di essere madri tutte le volte che lo vogliono (disoccupazione, lavoro precario e sottopagato, part time spesso imposto, carenza e alto costo di servizi per l’infanzia e per la terza e quarta età) e, anche quando riescono a essere madri, non hanno le condizioni materiali per poter partecipare alla vita pubblica, politica.
Vorrei accennare al tema dell’adozione, a mio parere troppo ignorato dalle donne: un modo per far nascere alla cura e all’amore esseri umani già esistenti; un modo per essere madri che non causa alcun problema alla salute delle donne, come invece fanno i bombardamenti ormonali legati alla fecondazione assistita.
Mi ha molto colpito la critica della vulgata secondo cui noi siamo i “comuni mortali”, mentre esistiamo in quanto siamo “natali” e sono ancor più orgogliosa e felice di essere donna da quando ho letto che alla filosofia di morte di Martin Heidegger (l’essere-nel mondo-attraverso-la- morte) si è contrapposta la filosofia della nascita di Hannah Arendt e di Maria Zambrano. Se non fosse che per questo aspetto è fondamentale leggere il libro di Rosella Prezzo. Ho a casa vari libri che trattano delle filosofe nel mondo e alcuni di questi ignorano totalmente Maria Zambrano. Ovviamente non ho fatto uno studio sistematico in questo senso, ma desidero segnalare un fatto che mi ha colpito negativamente.
Il dato della nascita come fatto meramente biologico di Martin Heidegger aveva trovato la sua estremizzazione in una strofa di Bonvesin de la Riva, intellettuale milanese del XIII secolo, dell’Ordine degli Umiliati, notissimo autore de “Le meraviglie di Milano”, che nella sua opera “Il libro delle tre scritture” aveva scritto: “La nascita dell’uomo è di colore nero / perché egli è generato da schifose interiora / dove il sangue è mischiato con puzza e con sozzura.”
Anche il cattolicesimo – incarnato in una istituzione totalmente maschile – è una ideologia di morte, basata sulla colpa, sul peccato, sulla punizione, anche simboleggiata come è dal Cristo in croce, più o meno sanguinante.
Matriarcato e patriarcato, un tema che mi appassiona, soprattutto in quanto donna che ha dedicato e dedica tuttora la sua vita all’impegno politico nella prospettiva di costruire una società più giusta e solidale, o – che dir si voglia – meno ingiusta, meno violenta, meno individualista ed egoista di quella capitalistica attuale.
Non mi stupisce che per l’uomo maschio Sigmund Freud il patriarcato costituisca un progresso della ragione e del giudizio razionale rispetto al matriarcato. Non condivido però quanto scrive Rosella Prezzo: “Una risposta a tale concezione…non credo però possa venire da un semplice ribaltamento, riconducibile a un “primato” di una società matriarcale su quella patriarcale.”
Le studiose delle società matriarcali – alcune delle quali ancora esistenti in vari continenti esclusa l’Europa – mettono sempre bene in chiaro che matriarcato non è l’opposto di patriarcato, cioè non è l’oppressione del genere femminile su quello maschile; una società matriarcale è una società “venuta prima”, nel Paleolitico, e soprattutto è una società egualitaria, pacifica e solidale, basata sulla proprietà comune e sul ruolo centrale delle madri nell’organizzazione della vita economica e sociale; sulle madri che ricevevano tutti i beni prodotti e li conferivano ai vari componenti del clan secondo il bisogno, indipendentemente dall’apporto dei singoli.
Solo società organizzate con le modalità matriarcali potranno salvare la sopravvivenza del genere umano e della vita in generale sul pianeta.
Milano, 28 marzo 2024

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Trasmutazioni – Adam Vaccaro

Pubblicato il 16 maggio 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Visioni e sfide di Perseo
Laura Cantelmo

Adam Vaccaro, Trasmutazioni – Alchimie in Caoslandia, puntoacapo Ed, Pasturana (AL) 2024

La recente raccolta di Adam Vaccaro – Trasmutazioni – Alchimie in Caoslandia – dà nuovo respiro all’indagine di ispirazione civile e politica da lui prediletta, riprendendo il discorso intrapreso in Google- il nome di Dio (2021) intorno ai molteplici aspetti e agli inganni del Potere, per altro già presenti nelle opere precedenti, tanto da apparire una delle tappe di un poema incessante.
Il tono e l’intera impalcatura di Trasmutazioni sono, dunque, in perfetta sintonia con le opere già pubblicate nell’indicare gli aspetti sempre più evidenti di una degenerazione dei rapporti economici e sociali dovuta alla globalizzazione, al predominio dell’economia di mercato, nonché alla crisi delle Grandi Narrazioni. Il tutto aggravato dall’uso delle moderne tecnologie e quindi da una spersonalizzazione del Potere, divenuto invisibile e, in quanto tale, sempre più disumano e spietato. Confermando, per altro, la rappresentazione tramandata dall’antichità, come entità di natura infera e mostruosa, benché sottoposta – nell’agostiniana Civitas terrena – al controllo dell’Etica. Concezione successivamente superata, in seguito alla separazione della Politica dall’Etica – e da altre forme di controllo, quali la legge e il diritto – come già dimostrato da Machiavelli.
La mostruosità del Potere come Questione del Male. La figura di Perseo
Il tema del Male, che appassiona Vaccaro, si è sempre imposto anche nell’interesse manifestato dalla filosofia, nonché dalla vasta letteratura che ne ha indagato gli aspetti più rilevanti. Pensiamo, ad esempio al Leviatano di Hobbes (1651), il trattato di teoria politica che ha come fulcro la questione dello Stato come entità mostruosa, simbolicamente incarnata nel Leviatano, il mostro centipede tratto dalla Bibbia, Libro di Giobbe, che affronta la questione del Male. Ed è la connessione col Potere politico, nelle sue varie espressioni, ad essere qui affrontata da Vaccaro, con la stessa passione civile e politica che in questo Poeta già conosciamo, capace di dettargli versi scabri, veementi e sardonici, caratteristici del suo stile. Anche la creazione di divertenti, benché sarcastici lemmi, come il neologismo Caoslandia, nasce da un’ironia che si esercita soprattutto nella creatività lessicale.
Gli strali vengono equamente suddivisi tra chi esercita il Potere politico nello spaesamento del nonluogo, che è la condizione che oggi viviamo, e i cittadini – “pescatori intrappolati da bi/sogni, illusioni d’amore”, sudditi inconsapevoli della beffa operata a loro danno (“Reti”). In realtà, si avverte un malcelato senso di pietas nei riguardi di costoro – i cittadini vittime delle sirene del Potere – che sanno “far /diventare persino il nulla e il vuoto di un/ nonluogo, un luogo pieno di…/…sogni d‘anima in cerca di comunità.” Nella comunità, parola chiave e concetto fondamentale nella poetica di Vaccaro, il Poeta riconosce l’antidoto alla frantumazione sociale del nostro tempo. Il profondo anelito alla socialità, per non sentirsi entità isolate è da lui vissuto ora con stizza, ora con dolore, ma sempre rivendicato con profonda nostalgia.
La tematica al centro dell’interesse poetico e politico richiama inevitabilmente anche le origini mitiche legate alla eroica figura di Perseo, uccisore di Medusa – che è una delle tre mostruose Gorgoni, altro simbolo del Potere, a cui fa riferimento, tra tanti, anche Italo Calvino, nelle Lezioni americane.
Grazie allo stratagemma suggeritogli da Atena, Perseo riesce a non guardare il volto orrifico della Gorgone Medusa, ma solo la sua immagine riflessa nello scudo lucidato a specchio, fornito dalla Dea, tanto da non subirne il paralizzante sguardo che pietrificherebbe chiunque lo fissasse. Secondo alcuni studiosi del tema, la grandezza simbolica dell’eroe Perseo consiste nell’avere con coraggio vinto la paura, riuscendo ad evitare lo sguardo del mostro, venendone a conoscere solo l’immagine riflessa, così da poter rivelare l’Inguardabile all’umanità (v. Marco Revelli, I demoni del potere, Laterza, Bari 2012). Come riferisce Calvino, a liberare gli umani “dalla morsa di pietra” sarà la sua eroica funzione di medium nel trasmettere la conoscenza della ferocia del Potere.
Lo studio di questo perturbante mito si irradia in molte interpretazioni, ma è interessante citarne la valenza simbolica per affrontare l’itinerario poetico di Vaccaro, al quale potremmo attribuire, mutatis mutandis, un ruolo simile a quello di Perseo: lo smascheramento dell’orrore insito nel Potere e nelle sue numerose trasmutazioni subite nella Storia.
Agli occhi del Poeta, gli umani appaiono succubi del raggiro e dell’inganno, avendo ormai smarrito qualsiasi capacità di pensiero critico, a causa delle tecnologie comunicative e della feticizzazione della scienza, che sono strumenti efficacissimi di manipolazione e di propaganda: tali si mostrano gli “stolidi criceti” al servizio del “mostro Stato” (“Criceti alla ruota”). Di qui l’auspicio di una trasmutazione dei cittadini da bruchi in farfalle, in esseri consapevoli del loro vivere responsabilmente in questo mondo:
“Inventare un vento nella vertigine senza scampo”.
L’organizzazione quadripartita della raccolta, simile a quella del precedente libro, offre una scansione paradigmatica dei temi trattati. Se ipotizziamo che i temi siano in realtà maschere dell’Autore, possiamo individuare le tappe del discorso, che John Picchione, nella prefazione, definisce mappe conoscitive, di natura etica e politica, ma anche campi semantici, evidenziando la ricchezza del lessico, delle figure retoriche e della metrica, abilmente utilizzate – come la tmesi e l’ellissi – al fine di ottenere una significativa concisione del linguaggio, attraverso la pluralità semantica dei significati e il movimento alterno tra l’asse diacronico e quello sincronico della Storia.
Appare chiaro che i testi che compongono queste ultime raccolte sono intesi a combattere l’afasia generale con lo svelamento di alcune “immagini” del Potere, fustigando l’inerzia dei “sudditi” mediante una vis polemica e rivoluzionaria su cui si basa il carattere epico della narrazione. Grazie al quale non compare mai un Io narrante, ma solo il racconto di un soggetto onnisciente, come nell’epica classica.
La visione catastrofica del tempo attuale, come cumulo di macerie devastato dalla crisi climatica e dalle scelte economiche neoliberiste, apre la prima sezione, Frane quotidiane. I singoli testi paiono quadri di una mostra di arte visiva relativa alla condizione sociopolitica del nostro paese, tra i quali potremmo trovare persino l’Angelus Novus di Klee, il cui sguardo fisso sulle rovine del passato ha ispirato l’immagine dell’Angelo della Storia di Benjamin.
Nella prima sezione Frane quotidiane, in apertura viene indirizzata una frecciata al Patriarcato vigente: il “sole maschio/ sepolto nei suoi deliri di conquista.”, nel breve testo sul rapporto tra i sessi (“Altari e deliri”). Sullo sfondo di un paesaggio desolato si apre il grande affresco della crisi socioeconomica e culturale odierna, determinata anche dall’incapacità generale di comprendere il presente, nella vana attesa di un “Godot” senza nome, di per sé, già perdente. La denuncia dello sfruttamento dei riders (“Eroi quotidiani”), i nuovi proletari che in funzione di fattorini percorrono in bicicletta le nostre città per servire pasti a domicilio a giovani incapaci di autonomia e di pietà verso i diseredati, mette in evidenza le carenze educative di un sistema di vita. Sono, essi stessi, malinconici esemplari, a suo vedere, di una società narcisistica e autoreferenziale (“Nel regno D’Io”), priva di prospettive future. Molto severo il giudizio sulla gioventù attuale: insensibili verso la bellezza e intrappolati nei non luoghi del consumismo, essi sono fatalmente destinati all’infelicità. La visione tragica di un mondo devastato da povertà, diseguaglianze e guerre, piagato dall’assenza d’amore, richiama l’analisi di Baumann sulla società liquida, pur rispettando, come base filosofica e politica di riferimento, il materialismo storico e le teorie sociologiche ad esso collegate.
La seconda sezione, Pietre senza luna, individua i molti aspetti della crisi a livello geopolitico, criticando la globalizzazione, la subalternità dell’Europa agli USA, patria del disastroso neoliberismo imperante, dove il Dottor Stranamore usa la guerra come una partita di scacchi finalizzata al profitto (“Dottor Stranamore 2022”). Di fronte ad essa vediamo il “popolo” schierarsi acriticamente a sostegno di uno dei contendenti, come in un Derby calcistico, Protagonisti dei testi sono gli ultimi della società, i poveri, i migranti, l’aspetto terrificante dello scontro in Palestina, con i territori ridotti a “campo senza fine di sterminio”. Un elenco di disvalori che dipinge in termini realistici la distopia in cui siamo immersi – “…vittime/ fino a quando/ saremo tifosi di paure diverse”. (“Frantumi”)
La terza sezione, Sassi volanti, evoca il mito di Davide (senza Golia), indirizzando gli strali verso lo sfacelo dell’informazione fuorviante, incarnata simbolicamente in una nota e influente conduttrice televisiva (“Virago della Settima”), nell’assoluta abulia della popolazione, incessantemente bersagliata da immagini di tragedie di ogni genere. La possibilità di un superamento degli ostacoli, già velatamente individuabile nelle sezioni precedenti, appare qui più esplicita: “Se un sasso / ferisce il tuo passo/ tu fanne canto momento/ moto teso a un salto più alto”. (“Sassi e scale”).
In Pietre miliari, sezione finale, si ampliano gli spiragli di luce, grazie alla memoria della terra d’origine, quel Molise che rivive nelle descrizioni e nelle rievocazioni dei personaggi e dei profumi della campagna. La dolcezza dell’ispirazione, affidata alla leggendaria dimensione assunta nelle rimembranze delle radici, contrasta con il ricordo della durezza della vita da migrante (“Origano molisano”) “ai piedi del monte più duro da scalare”: proprio nel momento dei bilanci di un’intera esistenza, il Poeta ripercorre a ritroso la dura fatica di quei giorni.
Una sezione aperta alla speranza, quest’ultima, nonostante gli ostacoli, “i sogni d’Icaro” che ne hanno segnato il cammino (“Trasmutazioni”). Nel tempo di vita che rimane, ormai poco margine è affidato al sogno, eppure la riproposizione di un testo tratto dalla precedente raccolta – “Lettera di Wilma” – rientra coerentemente nella struttura ideale come pilastro portante, al quale trovano sostegno i valori ideali di riferimento. La potente immagine della staffetta partigiana – suocera del Poeta – illumina di attese e di intensa passione questi ultimi testi, come spinta per un’idea di futuro, diversa e contrapposta alla negatività del presente, attraverso le parole di Wilma: “Forza, la vita è ancora vostra e sta sola nelle vostre mani.” Il richiamo alla storia di quegli anni, quando il sogno si era fatto progetto di vita e strategia di lotta per l’avvenire, rivive in questo testo come impulso epico verso il cambiamento.
Quella stessa passione ispira la poesia che, nella postfazione, anche Gabriella Galzio, ha interpretato come dichiarazione di poetica: “Arrivano come perle parole che non sai/…/ perle sapienti di salvezza” (“Perle”) ribadisce l’assioma secondo cui la poesia sgorga dall’intimo ed è strumento o vento di redenzione. Le madeleines di Vaccaro sfilano in questa sezione come in una sequenza filmica: immagini, suoni, profumi, voci e visoni del paese natale accompagnano la storia di un ragazzo emigrante, come quelli presenti nei canti di lavoro della nostra giovinezza. Sono versi che risuonano come l’invocazione alla Musa nei poemi classici:” Profumami origano di colline molisane/ i miei ricordi di ragazzo inerpicato/ nei suoi sogni saporosi/ come le fette di pane e pomodoro” (“Origano molisano”). Sullo sfondo vediamo sfilare, come nobili icone, le donne che portano maestosamente sulla testa la tina – l’anfora colma d’acqua – “fatta corona di/ trionfanti regine…/ brave e schiave/ di un tempo avaro di diritti” (“La tina”).
Nel finale, la memoria dei primi tempi vissuti a Milano si colora della nostalgia di come eravamo, quando i tram erano verdi, non contaminati dagli annunci pubblicitari, nudi e semplici come pareva la vita in quei giovani anni, a dispetto delle inquietanti trame nere ordite nell’ombra. Icone di un tempo non ancora posseduto dal consumismo, che ci avrebbe tramutati in uomini e donne a una dimensione.
Un commento a parte meritano i brevi, aforistici “Auguri”, che chiudono ogni sezione, allentando la tensione con un sospiro di sospensione e di speranza. L’ultimo di essi rappresenta l’invito a raccogliere le energie per risorgere dopo le cadute, allorché le forze cedono e lo smarrimento ci invade:
“ma è solo un attimo – e la tua isola lo sa”.
15 giugno 2024

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Distanze verticali – Irene Sabetta (cura)

Pubblicato il 7 maggio 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

AA.VV., Distanze verticali. Escursioni poetiche sulla montagna
A cura di Irene Sabetta, Macabor editore, Francavilla Marittima (CS), 2024
(Nota di lettura, Carlo Di Legge)

C’è un oriente/dentro ogni cosa, e un bosco di voci lontane/che ti frastornano
quando il loro sole si accende – Edoardo Zuccato, p. 106

… si rivela la sacralità attraverso le strutture stesse del Mondon – M. Eliade, Il Sacro e il profano, p. 75

Avendo optato per la regia di questo libro, con poesie di autori così diversi sulla montagna, Irene Sabetta lo fa con semplicità. Credo si tratti di un libro che è esso stesso come una montagna, piena di nascosti sentieri, progetto di scorci e visioni che si aprono d’improvviso.
La semplicità sta nello spirito e nella nota introduttiva, che a sua volta inizia con un brano di Antonia Pozzi –ne riporto la fine. Lei scrisse “là in alto, anche la materia, la colossale materia che ci attornia, non sembra inerte o ostile, ma viva ed amica” (p. 7). Si mostra il senso simpatetico della universa partecipazione, della comunanza di tutte le cose, in un tipo di mondo dove anche la materia va intesa come vivente, come essere pulsante e animato, del tutto partecipe della vicissitudine del vivente? Il mondo di Giordano Bruno, tra gli altri… Certo, e non si tratta sempre di una madre affettuosa: la materia, la montagna è anche dura, essa “non ti tratta con tenerezza” (A. Manstretta, p. 59).
Ecco, si può dire in modo lineare cose che non credo lo siano. Una vera sfida.
Le carte sono subito scoperte nella introduzione, con la citazione da R. Daumal: la montagna, ogni montagna che s’immagini anche in parola, è “un’altra montagna che unisce la terra al cielo” (p. 7); in proposito, aggiungo, cfr. M. Eliade, che si riferisce a credenze religiose le più diverse, in cui la Montagna (Sacra) “congiunge la Terra al Cielo” (Il Sacro e il profano, p. 30). Quel cammino, che sa ogni amante della montagna, diventa “metafora del cammino per diventare ciò che si è” (Sabetta, p. 8), qualcosa di cui nelle letterature, religiose o meno, si trovano innumerevoli esempi – basti pensare alla montagna del Purgatorio nella Commedia dantesca, al Sinai, al monte di Sion… .Pratica della montagna comporta, anche per chi semplicemente lo fa senza essere consapevole, memoria di vicende iniziatiche, di cui testimoniano le differenti Scritture trasmesse: in generale il cammino della montagna come “l’esistenza umana, nella misura in cui essa si adempie, è essa stessa una iniziazione” (Eliade, p. 132). Ogni cosa che facciamo può essere carica di significato, ciò che si fa può essere sempre molto di più di quel che sembra.
Dunque la montagna evoca l’alto, a cui sembra unirsi, e l’ alto “continua a rivelare il trascendente in un qualsiasi complesso religioso” (Eliade, p. 82); citando la scala nel celebre sogno di Giacobbe, lo studioso osserva che una teofania ammette in sé un luogo per il fatto che esso è “aperto” verso l’alto cielo (cit., cfr. p. 22) – in Cina esistono molte imponenti montagne sacre al taoismo, al buddhismo, al confucianesimo: così si ritengono sacre le montagne in India, Giappone, Australia e America… ma non necessita andare lontano. Montagna è lontananza nel qui presente, che occorre raggiungere. I fedeli – e i turisti ardimentosi – si arrampicano, cosa che a volte è non facile (i più prudenti preferiscono l’ascesa in teleferica!).

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Alle spalle delle cose – Sandro Pecchiari

Pubblicato il 27 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Le domande e risposte aperte della canoscenza poetica
Adam Vaccaro

Sandro Pecchiari, Alle spalle delle cose, Vita Activa Nuova, 2022

C’è, nel nondetto di questo libro di Sandro Pecchiari, una domanda: da dove partire? Da quale luogo avviarsi, se la poesia è intesa come moto verso una maggiore conoscenza che aggiunge e va oltre le acquisizioni delle altre discipline? Se rifiuta di rimanere esercizio supponente quanto illusorio e patetico, separato dal mondo?
Una lampada è offerta dalla dedica dell’Autore, in esergo del libro, “A tutti i ‘genius loci’ della mia vita”, che coniugata col titolo compone un ossimoro. Il primo è nucleo centrale di matericità e sacralità che, al pari del poièin, produce ed è al tempo stesso prodotto da uno stato modificato di coscienza, recalcitrante e impossibile da prenderne l’essenza con qualunque metodo scientifico o semplicemente raziocinante. Le supponenze dell’Io sono messe alla porta, ma ecco che da qui resiste nel rientrare in gioco, alle spalle delle cose, o meglio della Cosa, Casa della complessità e della sua (im)possibile canoscenza.
Questo libro risponde perciò con una sua specifica declinazione di Adiacenza tra i linguaggi costitutivi dell’umano, dai segni algoritmici dell’Io, necessari ma insufficienti a conoscere l’infinito ignoto, agli invisibili segni di umori e amori di radici e foglie, dentro e fuori di noi.
Concordo perciò con quanto conclude nella nota in postfazione Giuseppe Vetromile: “Sono versi che denotano la grande capacità di Pecchiari del suo profondo scrutare attraverso i muri e le stanze del mondo…grazie proprio alla sua poesia”. L’ardua, interminabile scommessa di aggiungere, attraverso questa cosa indefinibile e necessaria che chiamiamo poesia, è qui esposta tra squarci di luce, briciole di pane, pietre mancanti nella fabbrica della casa-mondo, alla ricerca di una bellezza che va oltre la meraviglia, sul crinale tra simbolico e reale. È da qui che la fame di umanità continua ad accendere foreste, mari e giardini della vivificante immaginazione, tradotta in versi tesi a un infinito perseguito, che non smette di voler trasmettere e condividere la sua passione di conoscenza.

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Per conoscere Dante Strona

Pubblicato il 25 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Per conoscere DANTE STRONA,

Poesie sulla Resistenza, Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, Varallo 2023

Nota di lettura di Laura Cantelmo

Raccogliere testimonianze dirette sulla Guerra di Liberazione come materiale vivo, intriso di sangue, di morte, ma anche di tensione al cambiamento e di palpiti felici, può servire a ravvivare i cuori e a indicare alle nuove generazioni un cammino difficile, ma fondamentale a costruire la società futura, quello dell’Utopia, della passione che dà senso alla vita. Un cammino come quello di coloro, che, spesso giovanissimi, in quel momento storico dominato dalla tragedia, scelsero di opporsi alla dittatura, ai disvalori, a una propaganda malsana, ben consapevoli del rischio mortale che correvano. Abbiamo letto, in molti della nostra generazione, quando ancora la narrazione di quel passato era incompleta, le lettere dei condannati a morte, i racconti della deportazione, i romanzi ispirati alla Lotta di Liberazione -testi che ci lasciavano ammirati ed allibiti per la forza d’animo e la determinazione di chi, conoscendo da vicino la tortura e la morte, sfidava la paura e il dolore con l’orgoglio di chi sa trovare una luce, pur nel buio profondo della tragedia.

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Non mi arrendo -Anna Maria Curci

Pubblicato il 21 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Non mi arrendo
Sulle due ultime raccolte di poesia di Anna Maria Curci

Luigi Cannillo

Potenza dei prefissi: avevo ricevuto e ho letto una dopo l’altra le due ultime raccolte di Anna Maria Curci, Opera incerta, L’arcolaio, 2020, e Insorte, Il convivio, 2022. Ho trovato subito suggestivo, per quanto magari “involontario”, il legame tra i due “in” presenti in entrambi i titoli: incerta – insorta. Nel primo caso a esprimere negazione, valore contrario; nel secondo piuttosto in senso rafforzativo. (Tra l’altro una “in” appariva già nel titolo della prima pubblicazione dell’autrice Inciampi e marcapiano…) Nelle due raccolte, ferme restando le caratteristiche che le contraddistinguono singolarmente, si possono trovare via via, considerando anche la variazione “im”, diverse altre forme di negazione, da “insonnia” a “impunite”, da “inattuale” a “imperdonabile”. Come per una inclinazione verso il no, un atteggiamento critico e dissidente nei confronti di ogni forma di imposizione, in una distanza critica che trova espressione nei versi. Come nel “Non mi arrendo” che conclude la poesia Vorrei restituirti: “Vorrei restituirti/ i giorni del marsupio/ di pettini a denti stretti/ di box e seggioloni/ lanciapappa,/ Fassbinder e von Trotta/ nella lingua dei sogni,/ i nostri, che hai dismesso.// Restituire è rendere?/ Restituzione è resa?// Non mi arrendo.”
Un filo conduttore tra le opere di Anna Maria Curci è stato tratteggiato da Giuseppe Martella in un suo intervento sul blog di Poetarum Silva individuando nelle più recenti opere dell’autrice “[…] una trilogia che verte sul tema di fondo della paideia (educazione, formazione, illuminazione) di una comunità che si identifica e cresce attraverso la traduzione reciproca di lingue e dialetti di luoghi diversi. Questa era infatti la funzione originaria della poesia, nelle rapsodie preomeriche, cui era affidata la trasmissione di una koinè e di un ethos in regime di comunicazione orale.” E infatti nel processo di formazione e di educazione personale sono fondamentali sia il desiderio di conoscenza che la formazione di una coscienza critica. Entrambi questi elementi sono eticamente fondanti della poesia di Anna Maria Curci, così come le forme di dissidenza alle quali ho inizialmente alluso.
Certo le due raccolte che sono oggetto di questa nota hanno anche caratteristiche proprie. Opera incerta riunisce testi scritti dal 2008 al 2019 suddivisi in quattro sezioni. Il titolo deriva da Vitruvio che definendo Opus incertum si riferisce al riunire e connettere elementi disuguali. Come afferma l’autrice nella sua nota iniziale, si tratta di “mettere insieme le diversità in vista di un’opera comune […] Sull’oggi brutale e dimentico si affaccia l’aggettivo “incerto” con l’interrogazione permanente posta dalla poesia”.
Il motivo conduttore tematico delle sezioni parte dalla forte impronta metaforico/allegorica di “Barcaiola”, poi si sviluppa nei riferimenti ai maestri nella sezione eponima e nella successiva “Mnemosyne “ nella quale la rievocazione si allarga alle figure famigliari fino alla ricomposizione finale nelle diverse tonalità di “Di tanto azzurro”. Fondante nella stesura e nella scrittura è una modalità che si può definire di attraversamento, come sottolinea Francesca Del Moro nella postfazione – e il concetto viene ripreso da Giuseppe Manitta nella nota di presentazione a Insorte. Si può trattare di un processo conoscitivo: “Siedi sull’altra riva e getti l’amo,/ Io traghetto.// Nella scalmiera remo/ bisbiglia con cadenza.// Lei, la tua mobile sostanza, smesse// le vesti torbide, mi accoglie.// Quando riprende il volo la speranza,/ cocciutamente sai che non è fuga.” Oppure di un percorso della memoria: “Additando quell’albero, sospeso,/ ti sei rassicurato del suo nome.// Di contrabbando, dietro a un fast food,/scorza e foglie incuranti del fritto/ schiudevano sornione il ricordo in agguato,// l’eucalipto piantato da mio padre/ per tutto il condominio. Fu una festa/ con il mare nel naso// e noi bambini, fieri.” Nella consapevolezza della propria presenza nella contemporaneità, della propria irriducibilità: “Non so se sono ancora la bambina che facevi volare nel mattino/ nitido e freddo al sole di dicembre.// La casa, poi il mio asilo e la tua scuola/ dove da trafelata ti mutavi,/ lingua madre diventava il francese.// So che di tanto azzurro mi rimane/ un fiocco, il cielo in testa e l’occhio desto,/ pegno d’incanto, balzo, testimone.”
Insorte non smentisce la fermezza e l’impegno della raccolta che la precede, anzi: i meccanismi anche formali diventano più serrati, gli enunciati più perentori. E ancora più significativo sembra diventare lo spazio lasciato alla riflessione e alla interpretazione di chi legge. Lo stesso titolo ha valore polisemico: oltre che come participio passato di “insorgere” (verbo comunque compatibile con lo spirito dell’autrice) se viene scomposto in due parole può sottolineare un riferimento destinale, un compito alto e nobile per la poesia.
Anche in questo libro troviamo una forte coscienza della storia contemporanea con le sue tragedie e ingiustizie ma sembra accentuarsi l’attrito delle contrapposizioni e dei conflitti. Non mancano gli slanci lirici, i riferimenti alla mitologia e alla classicità o al mondo naturale: “nell’angolo del verde che concerta/ ulivo cycas susino su trapunta/ di pratoline e veroniche discrete// proseguono le prove silenziose/ di un tripudio che tarda a venire/ sinfonia di un incanto distante// ha due temi e più note in contrasto/ senza termine e data è l’orrore/ senza termine e data è l’amore”.
Si tratta di riprendere “il filo e la parola” come nella poesia d’esordio della raccolta. Seguendo l’invito agostiniano alla lettura che dà il titolo all’ultima sezione: Tolle, lege: “Dietro i vetri i tuoi libri/ custodiscono pagine da aprire/ in tutti i tempi, dicono tolle, lege!// Dato per perso, è pur tenace il filo/ rincorso a capitomboli sventati./ Prende fiato e dal margine addita.” È Il filo della consapevolezza, che si diparte da una lunga tradizione, e alla fine della raccolta si ricongiunge con quello della prima poesia. Quel filo da un lato afferma la dignità del lavoro poetico, “la tela della poesia”, ma, più in generale, consente alla vita di farsi largo, nonostante tutto, a riaffermare una forma di speranza e di impegno.
Anche in questo auspicio, oltre che nel puntiglio e nelle manifestazioni di insubordinazione, sta il percorso comune delle due raccolte. Così in Opera incerta troviamo: “Così va l’azzurro oggi/ non cerco altre parole/ Si affacciano discrete/ se offrono riparo.// Sui sentieri interrotti/ non portano salvezza/ rabberciare non sanno./ Duetta l’ombra con la luce.” Oppure: “Posa la mano sul ghigno amaro/ la ruga appiana di constatazione./ Prenditi sottobraccio il riso/ saluta i sassi e cammina nel sole. E in Insorte: “Contro le spalle/ rimbalza la borraccia/ ritmo di passo.// Bussa la sete/ compagna di viandanza/ sperando ancora.” Passaggio quindi percorso, nella sete di conoscenza, di giustizia. Sete di parola.
Infine, ma non meno importante spicca l’omogeneità delle scelte stilistiche, come si diceva ribadite nella raccolta più recente: l’ordine nella disposizione del testo e la versificazione asciutta, con poesie scandite in sobri distici, terzine e quartine nelle quali i versi, da quinari a settenari, tendenzialmente non superano endecasillabi. Con il contrappunto delle rime, e assonanze, allitterazioni, neologismi, fino a gruppi nominali senza articolo. In un tono che sa arrivare a suggestioni liriche senza scivolare nella deriva del sentimentalismo.
Il rigore metrico-ritmico e lessicale non vuole essere formalismo o manierismo, ma rappresenta una scelta di stile tanto più perseguita quanto rigorosamente si presentano anche le varie tematiche. Le risposte cercate rispetto a quella “interrogazione permanente” devono essere sostanziali, sollecitate dalla stessa formazione etica e culturale di chi scrive. E, nel caso di Anna Maria Curci, anche dall’esperienza di insegnante, traduttrice, organizzatrice culturale e nella sua attività critica, in una paideia a vasto raggio che si sviluppa coerentemente, in attraversamento costante, anche nelle sue raccolte poetiche. : “[…]// C’è un tempo di usci chiusi,/ uno di porte aperte./ A metà strada indosso/ bizzarro giustacuore.”

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Eden – Sergio Gallo

Pubblicato il 16 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Il dovere e il coraggio dell’utopia resistente
Adam Vaccaro

Sergio Gallo, Eden – Memorie di un cittadino sospeso, Ed. Sensibili alle foglie, 2022

Titolo e sottotitolo di questo libro di Sergio Gallo sono già linee di sensi cercati e svolte poi dalle trame del testo, analizzate e rese con profondità nella Prefazione di Paolo Gera: Natura resistente, umanità sospesa, l’Eden violato di Sergio Gallo. L’apporto offerto da Gera non rientra nei consueti stilemi di servizio editoriale, mosso com’è da un intreccio dichiarato di affettuosa e scrupolosa analisi tra lingua e visione, per cui diventa porta d’accesso preziosa per la lettura dei vari livelli di sensi e complessità del testo.
Gera ricorda in primo luogo che il libro nasce nella temperie drammatica dei due anni di Covid, “due anni pestilenziali”, non tanto e non solo per l’azione virale e le morti causate, ma per la gestione strumentale dei poteri mondiali dominanti, che ne hanno fatto occasione di un virus sociale utile a moltiplicazione di controlli autoritari, travestiti da protezione sanitaria, attraverso un bombardamento dei mass-media, mai prima messo in atto con altre epidemie, teso a moltiplicare paure, razionali e irrazionali, e quindi soggezione…
Due anni, sottolinea Gera, che hanno “trasformato i rapporti fra le persone, hanno eretto barriere inconcepibili e distanziamenti psicologici”, accentuato le disgregazioni sociali degli ultimi decenni di dominio ideologico del pensiero unico neoliberista, reso i cittadini più passivi, riducendo pertanto la sostanza di una democrazia sempre più ridotta a rito formale. Di qui l’importanza del suo rilievo: “Questo De Rerum Natura di Sergio Gallo non si conclude con la descrizione dell’epidemia mortale, come nell’originale lucreziano… L’indicazione data dal percorso dei versi” è “all’interno di ogni forma biologica”, capace di incarnare l’utopia resistente dell’Eden di un’umanità liberata, fondata non in un fideismo ottimistico, ingenuo o volontaristico, ma nelle dinamiche della fenomenologia vitale.

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Ricerche poetiche – Paolo Gera

Pubblicato il 2 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Nascita e cura della parola poetica
Ricerca delle articolazioni e dei suoi sensi biologici e sociali

Adam Vaccaro

Paolo Gera, Ricerche poetiche, puntoacapo Ed, 2021

“m m/ m m m/ ma ma/ ma ma ma ma ma/ smarrita// p p/ p p p p/ pa pa/ pa pa pa pa/ paura// t t/ t t t t/ te te/ te te te te/ terra// l l/ l l l l / la la la la la/ luce” (p.7). Pelurie verbali e balbettii, cui seguono alla pagina successiva: “sora paura/ si’ oscura/ allumini esta selva/ morte luce/ via terra/ vita porta significatione/ mi ritrovai sole”

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