Scrittura e Letture

Fegato in cartolina – Rosanna Frattaruolo

Pubblicato il 18 febbraio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Rosanna Frattaruolo
Fegato in cartolina – je vais te dire un secret
Il Convivio Editore, 2024
(Primo premio silloge inedita Concorso Guido Gozzano 2024)

Margherita Parrelli

È labirintico questo ultimo lavoro di Rosanna Frattaruolo, ma il punto è che ci si trova dentro senza essersi accorti di esserci entrati, almeno così è stato per me.
Inutilmente ho ripercorso la strada a ritroso, seguito la numerazione romana da I a XXXIV dei componimenti che, ingannevolmente, potrebbero sembrare il testo principale, le cartoline inviate da nord a sud, da est a ovest dell’Italia, gli innesti fotografici che portano il nome di organi del corpo e appaiono improvvise in alto a destra, in alto a sinistra e poi scompaiono altrettanto improvvisamente e soprattutto inspiegabilmente.
Inspiegabilmente sono riuscita ad attraversare il libro di Rosanna e, nonostante il senso di smarrimento al quale la mia natura ordinata sempre istintivamente si oppone, sono giunta non alla fine ma altrove.
In questo altrove ho dimenticato la mia irritazione che chiedeva: dimmi dove mi porti, fammi capire, e ho cominciato a fare quello che l’autrice fa a pagina 23: “come lui (il poeta russo Chodasevic) ho ballato sulle punte/ poi sono inciampata nelle parole”.
Sì bisogna saper inciampare nelle parole per seguire Rosanna in questo suo viaggio poetico e lasciarsi andare alla scoperta che sta dietro ogni inciampo, che ne è la causa involontaria.
E Rosanna ha una capacità incredibile di trasformare l’inciampo in occasione, in approfondimento, in ricerca del senso, in perdono e distacco, in rincorsa e abbandono.
Si sente l’urgenza del suo dire, ne trasudano i suoi versi, la loro corporeità che non è materiale, ma materica fatta di ossa, carne, organi, sensi, emozioni, di un certo malinconico distacco che nasconde la forza del sentire, come qui: “mi pare di camminare su zucchero di canna oggi/ la dolcezza ha sempre un prezzo/ la dipendenza da saccarosio è scientificamente provata/ voglio morire obesa d’amore”.
Credo di aver capito il segreto che volevi dire, Rosanna, ma averlo capito, devo ammettere, non è così importante come credevo all’inizio. Al contrario sento che questa comprensione non mi piace affatto, per consolarmene mi dico: non importa se alla fine ho capito, forse non ho capito veramente, posso dimenticare, posso tornare al fastidio iniziale, alla spinta che Rosanna mi ha dato per lasciarlo andare e perdermi nella sua estate che dura fino a gennaio.

Continua a leggere »

La poesia Resistente di Adam Vaccaro – Fabio Dainotti

Pubblicato il 11 febbraio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Un articolo del poeta Fabio Dainotti, sulla Rivista scientifica siciliana Il Convivio, dedicato alla ricerca poetica di Adam Vaccaro, che richiama ultimi libri e testi inediti della prossima raccolta, Restituzioni.

 ***

LA POESIA RESISTENTE DI ADAM VACCARO

Lettura dalle ultime raccolte e dalla raccolta inedita, Restituzioni

 Fabio Dainotti

***

Leggi l’articolo 

Kolektivne NSEAE – Ivan Pozzoni

Pubblicato il 7 febbraio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

FURIE E FUGHE
In
KOLEKTIVNE NSEAE di Ivan Pozzoni

La malattia del «disinteresse» del lettore e l’ontologia estetica moderna della ipersoggettivizzazione
La terapia come eredità non-ontologica del Kolektivne NSEAE: la neoN-avanguardia
Adam Vaccaro

È un orizzonte di furie e fughe, diverse e innervate nella complessità contemporanea, che emerge da questo libro di Ivan Pozzoni, in un quadro di analisi che le designa e lucida entrambe a cera, cantate e accarezzate con una spazzola d’acciaio. Che scorre dalla groppa al deretano sul pelame arruffato di una gatta in calore. Un animale dall’anima multipla che miagola, ringhia e si veste da tigre, che forse non ti sbranerà, ma ti copre gli occhi di una patina, rosa o nera, su cui pianta unghie che li rendono ciechi, liberi di urlare, impotenti ma tendenti ad ammantarsi della pretesa di sapere, come il cieco che guida un cieco, della parabola poi soggetto del quadro di Pieter Bruegel.
Tiresia è stato ucciso e Diogene è senza lampada. E non c’è salvezza, né con me, né contro di me, pare avvertano i versi di Ivan Pozzoni. Ma se l’io/noi è/siamo col sedere per terra, è il momento dell’ora di ricreazione e del gioco o dell’ira e di tornare sul banco a scrivere a lettere cubitali sulla lavagna o su pezzetti di carta salvati dal tritatutto, i bisogni che cercano altro e oltre gli stracci ermetici e paleontologici, oltre le parole incazzate, i deliri egotici, fino alle molliche raccolte sotto un tavolo di lordi lardosi, che guidano la trottola del comando di radere a zero ogni residuo di senso, in ogni caso, in ogni casa? L’identità non esiste, al pari della società, dixit l’idiota bicefalo, impotente e onnipotente! Dopo di che, l’eccidio e la distruzione della polis, sono le matrici matrigne delle egolalie masturbatorie in tutti i campi, compresa la poesia.
Intanto il Dottor Stranamore fabbrica e dispensa milioni di bombe, predica pace e ride a crepapelle, idiota criminale che pensa di salvarsi su Marte, volando sulle sue Aquile libere nell’iperuranio sopra il cielo di piombo. Mentre Colombe libere e ammassate sotto tonnellate di putridume sospeso, sono ammazzate come mosche cieche, inferocite e rintontite da un subisso di immagini, estasi drogate e parole di niente, creatrici di rostri, che diventano mostri di una fame infinita di libertà dal destino di una progenie antropofaga.
Poi c’è l’altra fuga, nell’ovatta della culla di un iperurarnio di parole innamorate di sé, di quella malattia che ho chiamato iperdeterminazione del significante, connivente della distruzione del senso. Poi c’è l’illusione di contrapporvisi con l’iperdeterminazione del significato, convinta di poter spiegare tutto, uccidendo la complessità di un dire che vuole dare nome alla complessità del mondo.
La prima malattia è diventata pandemia lungo il crinale parnassiano di significati rarefatti, persi nella nebbia di dire tutto e niente, che riducono il pubblico – come diceva Berardinelli, citato anche da Pozzoni – a rasentare lo zero, agli altri scriventi versi, in un circuito grottesco, inutile e autoreferenziale. In cui sguazzano felici, fino a teorizzare che l’arte, la poesia, devono essere inutili. Ma utilissime a vati desideranti e immaginari, affollati e ininfluenti, e perciò inesistenti nel corpo di una società già negata e disgregata, che urla affamata di voci che sognino e incarnino il bisogno di ricrearla.
Prova a rispondere Pozzoni a questo panorama di molecole gassose che si dibattono tra le pareti stagne di un bagno di stitici:
“LA TERAPIA COME EREDITÀ NON-ONTOLOGICA DEL KOLEKTIVNE NSEAE: LA NEON-AVANGUARDIA Il Kolektivne NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica) ha un’eredità non-ontologica derivata dalle neo-avanguardie millennials, lontanissima dalla ontologia estetica moderna. La NeoN-Avanguardia, da me fondata, cede – come ogni altra avanguardia – all’«ἀντίφράσις», all’«ironia» (Jacques Derrida), al «citazionismo», allo «straniamento» (Viktor Borisovič Šklovskij), alla «carnevalizzazione» (Michail Bachtin), al «mistilinguismo», al «dédoublement» e «vertigine che sfocia nella follia» (Paul De Man), alla grammatica generativa (Noam Chomsky), alla «sovversione/eversione» (anarco-individualismo stirneriano e della Post-Left Anarchy), all’«invettiva» (triade Villon/Brassens/De André) e all’estremo «impegno sociale» movimentista a tutela dei deboli e dei diseredati, con opposizione allo star system dei dominanti e dell’arte.” [p.13]
È dunque un libro-manifesto di guerra subita e di pace sognata, piena di lacrime asciutte e irrisioni clownesche, anche se non placano alcunché. Ma è già utile porre il problema, anche se è un chiodo ribattuto, come sopra accennato, da ormai parecchi decenni. Sia da Berardinelli, sia in modi diversi da costole lucide e critiche da certi estremismi della Neoavanguardia, quali, ad esempio, Antonio Porta. Pozzoni si pone lungo la stessa direttrice di ricerca:
“Preso atto della conclusione della krisis e della transizione dall’evo moderno al nuovo evo tardomoderno, ho riconosciuto l’urgenza del discorso sul cambiamento di «paradigma» storico ed estetico, dovuto al venire meno del senso teoretico dell’ontologia estetica moderna, e ammessa l’anacronisticità della NeoN-Avanguardia, movimento di krisis, ho deciso di fondare uno nuovo movimento non ontologico, il Kolektivne NSEAE (Nuova socio/etno/antropologia estetica), aperto a tutti i mille movimentisti neon-avanguardisti e a nuove menti in grado di captare il cambiamento di «paradigma» sociale ed estetico.” [p.13]

Continua a leggere »

Trasmutazioni3 – Adam Vccaro

Pubblicato il 3 febbraio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Trasmutazioni – Alchimie in Caoslandia, di Adam Vaccaro,

puntoacapo, 2024

Lettura critica di Luigi Cannillo

Gli elementi del titolo e del sottotitolo della più recente raccolta di poesia di Adam Vaccaro formano l’immagine di un triangolo equilatero: al vertice con Trasmutazioni l’elemento della trasformazione e del mutamento. Nei due angoli alla base le Alchimie, il procedimento di manipolazione della materia, e Caoslandia, il contesto sempre più diffuso di confusione e mistificazione che ci vede sempre più disorientati e sgomenti nell’assistere all’interagire di molteplici elementi contraddittori della realtà.
Davanti a questo intrecciarsi di fenomeni, alla poesia spetta il compito di dare voce alla complessità e sviluppare, in quanto energia di pensiero al lavoro, forme di pensiero critico. E impone di immergersi nei tanti linguaggi che costituiscono la totalità, rispecchiarli e restituirli.
Lo stesso Vaccaro nella nota finale esplicita la creazione di “forme resistenti all’entropia del vivente, nell’incrocio di scambi antropologici di condivisione e moltiplicazione di sensi.”. Il triangolo di cui sopra potrebbe assumere allora la forma e la funzione di un cuneo/cuore che scava nella complessità e la approfondisce nella coscienza e nel linguaggio.
Si può intendere la trasmutazione anche come estensione e rimescolamento delle tematiche della raccolta precedente, Google – Il nome di Dio, puntoacapo, 2021. E in un certo senso, con accezione critica e negativa, anche come il cinico trasformismo agito dai poteri in gioco. Anche a questo potremmo riferire la citazione di Primo Levi che apre, insieme ad altre, la raccolta più recente: “Ogni tempo ha il suo fascismo”, nello spirito di irriducibilità dell’intero percorso di Vaccaro.
La foto in copertina, dell’autore stesso, riunisce nel medesimo paesaggio radici e terra, origine e materia, con valore plurivalente: la memoria contadina dell’autore in quella convivenza/complessità di elementi diversi così mescolati. Ad essa si può riferire la conclusione della poesia Bianco re”: “[…] mia radice viva/ che resiste e batte ancora qui/ intatta.”. Come afferma John Picchione nella sua approfondita nota di lettura: “la poesia di Vaccaro non esibisce mai un soggetto poetico ripiegato su una narcisistica contemplazione di sé, ma evoca un pathos che avvolge la negatività sofferta dal singolo nella sfera del collettivo. Si tratta di un atto poetico che nasce dalla convinzione che solo a partire dalla ricognizione stoica delle patologie radicate nel sociale e nel politico siano ravvisabili forme di cura in grado di aprire passaggi verso azioni di mutamento.”
La struttura del libro si articola in quattro sezioni, che si concludono tutte con una poesia flash dal titolo propiziatorio Auguri! Questi sigilli conclusivi confermano una caratteristica della scrittura di Vaccaro, che si può rilevare anche in raccolte precedenti: a una parte critica e destruens se ne affianca un’altra dove vengono tracciate anche traiettorie di futuro più favorevoli. Le sezioni di Trasmutazioni però non sono da interpretare come compartimenti stagni, bensì piuttosto come affondi o approfondimenti di linee tematiche che si intrecciano e riemergono carsicamente e metamorficamente.
Così la prima sezione, “Frane quotidiane – Cosa senza Nome” si riferisce frequentemente alla denuncia della sete di potere ma anche all’attesa della “Cosa senza nome” che inseguiamo come utopia o tentativo irriducibile, anche a confronto con nuove forme di sfruttamento, nuovi individualismi e illusioni quotidiane:
“Ora che, anima mia fratella, questi/ miei versi di urla dolore e rabbia/ non baciano più la tua pelle re/ legati fuori dalla tua carne al gelo/ che ti spezza le ossa senza più ri/ fare la Cosa che carezza e consola/ la tua parte angela assetata e fragile/ non incolpare me ma senti questa// polvere nera che cade cade e non/ riusciamo a renderla pioggia di/ quella Cosa ancora senza nome che/ aspettiamo aspettiamo come quel godot rimasto irridente nel nulla/ chiuso e perdente nel suo mai”.
La seconda sezione, “Pietre senza luna – Nel Macero della Storia” – si articola nel rapporto tra globalizzazione e conflitto, spaziando tra Europa e Palestina, USA e Africa, ricordando le migrazioni recenti ma anche i tabarri e i frantoi del centro-sud Italia:
“La claudicante ruota si staglia/ e ci stritola come olive sotto/ il torchio – e piano piano/ tra ragionevoli follie ci sfoglia/ fino a ridurci a/ poltiglia// Mentre cola l’olio santo/ dal becco smunto del trappeto/ che pressa e ammassa l’asciutta/ sua scura conchiglia da bruciare/ in omaggio al dio immane/ dalla mano benedicente/ l’oro liquido e sacro/ che gli appartiene”.
La terza sezione, “Sassi volanti – (Davide senza Golia)”, accentua lo spirito ironico-critico contro le tante “Armi di distrazione” con testi spesso brevi e caustici: “Carta-forbice-sasso – è anche una ruota di irrisione/ a ogni illusione di onnipotenza e vittoria definitiva”.
Infine, la quarta sezione “Pietre Miliari – (Memorie e Visioni)” trova felici sintesi in storie ed immagini che sottolineano la differenza tra realtà e narrazione, ma anche momenti di memoria di luoghi e personaggi e possibili vie e figure di salvezza: “Arrivano come perle parole che non sai/ se scendono o salgono lucide come/ attesi sapienti inascoltati nel loro/ canto – che intanto tutti/ gli altri piangono/ vinti dal male invisibile/ che dilaga in una pioggia infusa/ a salse d’ansia asservite e chiuse alle/ invisibili attese perle sapienti di salvezza”.
All’interno degli intrecci dinamici tra una sezione e l’altra, alcuni testi sono riedizioni di poesie esistenti in precedenti raccolte, che qui assumono più che valore di citazione, quello di nuova valenza nel contesto del progetto poetico più recente.
Un elemento tematico centrale significativo è quello rappresentato nella pietra: le pietre del letto del fiume o che costituiscono un paese di sassi, ma anche frammiste come detriti tra muschi e sterpi: pietre da costruzione ma anche frananti. Con un effetto fortemente evocativo come nel distico La mano e il sasso: “nel volo di un sasso cogli la mano e/ nel suo brillio la memoria dell’acqua”.
Simbolo quindi di opposti, proprio a partire dalla sua matericità. Come osserva Gabriella Galzio nella postfazione, “quelle di Vaccaro non sono semplici trasformazioni dell’esistente, ma vere e proprie trasmutazioni, ovvero mutamenti di sostanza, di natura, che in quanto tali ricorrono alla via della trasmutazione alchemica o al registro biologico del bruco che muta in farfalla […] Ma, in quanto umane, le trasmutazioni di Vaccaro sono colte nella loro ambivalenza, ora regressiva ora evolutiva […]”
Altre tematiche, spesso trasversali, riguardano gli eroi quotidiani, momenti di socializzazione e incontro, di comunità, in un panorama che si forma tra un selfie e l’altro, elementi della contemporaneità e della storia più recente (il green pass, la guerra in Ucraina e in Palestina insieme alle figure della propria origine o dell’infanzia, quella del padre o dei prodotti della terra (le mele verginelle, l’origano).
D’altra parte l’uso dell’immagine come metafora è frequente in Vaccaro: i criceti alla ruota, la macina, l’odore di sedere del potere, il gioco carta-forbice-sasso, le parole come perle, insieme alle sinestesie (acqua di luce) o alle similitudini (come formiche, come un tapiro). Altre forme di slittamento dal linguaggio convenzionale sono rappresentate dall’uso di neologismi (fratella, dindare) o vocaboli attinti dal linguaggio centromeridionale dell’area d’origine dell’autore (trappeto, tabarra, tina) o accostamenti di parole polivalenti (mostro Stato).
Molto variegata, insieme all’uso delle figure e del lessico, è la struttura dei testi, anche graficamente diversificati tra strutture lineari e altre in diagonale, a bandiera, in calando/crescendo o articolati attorno a un punto di snodo, o allineati al centro, in blocchi prosastici, o con utilizzo del verso lungo, in sonetto o in sole terzine. Ricorrendo anche alla figura della tmesi, come tipico della scrittura di Vaccaro: re/legati, ri/fare farfuglia/menti, pro/cesso, uni/versi, co/stanza, in/tenta. Diversificato appare anche l’uso della rima, fino all’interno dello stesso verso (“calura che dura”) o in immediata successione (sasso passo) o sdoppiamenti (lamento Mento) con assonanze (Soros cuore d’oro), anche giocose, con scambi di consonanti come anagrammi (l’alibi di abili) o cambi di vocale.
L’arco e lo slancio creati dalla raccolta sono ben rappresentati da due estremi, personificati in due figure: quella di Vilma, staffetta della Resistenza partigiana e prima donna giornalista della Rai (suocera di Vaccaro): (“[…] a voi spetta il tempo di inventare un vento/ capace di liberare l’aria e i vostri cuori spersi […]), e Chiara, la nipotina del poeta: “Soffia Chiara iride sospese bolle di/ sapone ignote a chi non vede i mondi/ dei clausi fiori nel tuo nome – tondi/ come i tuoi occhi – pianeti ricolmi di te/ […]”.
Al Poeta il compito etico, creativo, di farsi traghettatore, oltre che di senso, di rivendicazioni e sogni, di speranze e realizzazioni tra mondi e generazioni. Nel compito/impegno della poesia.
3 febbraio 2025

Continua a leggere »

Se ben ricordo – M;ariella Parravicini

Pubblicato il 30 gennaio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Mariella Parravicini, Se ben ricordo, puntoacapo ed., Pasturana (AL) 2024

Nota di lettura di Laura Cantelmo

Nell’abbandonarsi a Mnemosine – alla memoria – come si addice a una grecista, Mariella Parravicini ci dona questo poetico testo nel quale vibrano i toni sommessi e le sfumature di una voce narrante. Una vera phoné, piena di delicati sussulti, con le modulazioni di un racconto serale, prima di abbandonarsi al riposo, popolato da inconsapevoli sogni infantili e da comprensibili incubi, per gli adulti. Un tempo, durante il quale ci si scambiava pensieri e ricordi attorno ai camini o alle stufe, nelle terribili notti di quegli inverni di guerra, noti come i più freddi del secolo scorso. C’è la nostalgia di un’intimità ormai rara, che non vuole distruggere il presente, ma trova la forza di vederne i semi in quel passato, che certamente non fu rose e fiori. Di conseguenza la narrazione oscilla tra un passato felice e un presente malinconico, tra sogno e realtà.
Se ben ricordo è il memoir di una ragazza perbene (mi si consenta la citazione da Simone de Beauvoir). Un’esistenza normale, non propriamente banale, se consideriamo che i primi anni di vita attraversano la Seconda Guerra Mondiale, vissuti da lei, milanese, in campagna come sfollata, in fuga dalle bombe che radevano al suolo le città. Benché neppure lì fosse garantita la pace, la campagna diveniva uno spazio mitico per bambini, lasciati alla felicità di scorrazzare a perdifiato per aie e campi, alla ricerca di luoghi che la fantasia arricchiva e rendeva fiabeschi, mentre la corte – l’aia- era, per Mariella, “scenario delle mie emozioni e passioni”, il suo palcoscenico.
Un paese di pianura, nella Lomellina, al confine tra Lombardia e Piemonte, dove Mariella assaporava una felicità pura, lontana dagli orrori, possibile solo nella mente infantile, che si prolungò nel dopoguerra, per il periodo estivo. Lo sguardo di allora trova delle affinità con l’oggi, rivivendo intensamente il mito dell’infanzia, con arcane venature di sacro. Figure di nonne, di zie e zii che consentivano libertà impensabili in famiglia, a Milano: la Zia Rita “gemella eterozigota” della madre, dolcissima e ricca di una sua tranquilla filosofia, a differenza della sorella, più rigida e formale, “el Ziu Gasparin”, figura tipica delle campagne, ma non per questo scialba, emigrato in Sud America e al ritorno, silenzioso, nel suo mantello nero, frequentatore dell’osteria fino a ora tarda. Dominante, inavvicinabile e pieno di mistero, l’Autrice, turbata da quei silenzi, lo definisce “spirito divino della casa”.
E poi le campane, che oggi inducono alla malinconia perché segnale di lutti e perdite, invitavano al Vespro, celebrato con la grandiosità del canto gregoriano. La presenza dei Tedeschi, visti inizialmente come numi tutelari – le donne che li frequentavano alla fine del conflitto scontarono quella consuetudine con le teste rasate a zero, punizione riservata ai collaborazionisti., La proiezione in miniatura dei grandi drammi del nostro paese, dentro un paesino di campagna. Infine, la piazza, che di sera, nel dopoguerra, si popolava di crocchi di donne, a chiacchera, sotto nuvole di falene che danzavano intorno ai lampioni.
Persino la morte, inesistente per una mente infantile, era vista senza drammi. Nel dopoguerra, finanche i funerali di Gasparin offrirono una ammaliante spettacolarità, con le bandiere rosse sventolanti nel corteo funebre – perché lui era comunista- definizione a quel tempo incomprensibile per i bambini. Immagini ed impressioni che Mariella si porterà dentro, fino a quando, da adulta, individuerà nel teatro la passione della sua vita. Infine, il divertimento delle balere, dove si apprendevano i “codici intriganti delle danze”, avendo presente il monito della Zia Rita, secondo il quale “i omen” erano soggetti con cui giocare alla provocazione, ma inaffidabili e tutti uguali. Una scuola di vita per imparare a difendersi dalle trappole della seduzione, in una sorta di malizioso brio mozartiano o rossiniano, tra il serio e il faceto – “Vorrei e non vorrei”, oppure “Ma se mi toccano dov’è il mio debole…”.
Forse fu quell’alata riserva di spirito mitico che, al rientro in città, diede a Mariella, elegantemente vestita dagli abiti di sartoria della Zia Rita, la capacità di scovare la poesia un po’ dappertutto, trasferendo sulla pagina versi leggeri e spontanei, ora in italiano, ora in dialetto milanese, frutto di brevi, impressionistiche emozioni che ritroviamo qua e là, nel racconto.
Quei momenti di felicità dell’infanzia ricompariranno talvolta anche a Milano, in uno degli angoli più suggestivi, dove si trova la sua casa attuale, di fronte alla facciata della storica Basilica di S.Eustorgio, con le sue severe linee romaniche, che svettano tra gli alberi e i voli dei piccioni, dietro a cui, anche lì, nelle notti serene, occhieggia la luna.
Milano, via Stendhal, residenza dei suoi genitori. Un palazzo con scale di marmo bianche, mai viste, dove “il Parravicini”, suo padre, fine cesellatore, viveva con la madre, divenne il luogo del dovere scolastico, dei freni imposti dalla madre, che si alternavano alla gioiosa libertà delle estati in campagna, dove la luna splendeva più bella che mai. Milano, ancora dolente, devastata dalla guerra, al tempo in cui un’adolescente come Mariella, sognando la felicità, andava da casa a scuola e ritorno, intrecciando amicizie e sognando l’amore. Scale di marmo, che un giorno lei scese, vestita da sposa.
La vita ha sedimentato in Mariella – ormai non più la bimba campagnola dalle guance rubizze – un quoziente di felicità e di sguardo sull’Altro, che l’ha sempre soccorsa nel superare il dolore, la perdita e l’assenza, aprendola a quel po’ di bellezza riservato dalla vita, come riflesso di quel vissuto lontano.
Anche il teatro, attraverso il quale Mariella avvicinava al mito greco gli studenti del Liceo classico dove insegnava, la faceva sentire adiacente alla felicità nel suo appassionato lavoro di regista, di fronte al sorprendente livello dei risultati raggiunti dai ragazzi.
E sta proprio in quel far parlare Mnemosine – i ricordi- il filtro magico grazie al quale la felicità trascorsa riesce ad attenuare la malinconia del tempo che fugge. Se letto silenziosamente, quel vissuto può apparire “normale”, ma grazie alla potente intensità della memoria, la voce che giace muta sulla pagina diventa racconto confidenziale tra intimi, phoné, colonna sonora di una intera vita, a cui riuscirà persino a dare maggior senso.

Continua a leggere »

Apprendistato alla salvezza – Pasquale Vitagliano

Pubblicato il 28 gennaio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Pasquale Vitagliano, Apprendistato alla salvezza, Interno Libri Ed., Latiano (BR), 2022, pagg.66
Nota di lettura di Laura Cantelmo

La intensa qualità visionaria della silloge Apprendistato alla salvezza di Pasquale Vitagliano contiene un’unità tematica – la speranza di salvezza dal caos – che lo rende a pieno titolo un poema e, allo stesso tempo, una ricchezza simbolica e immaginifica che fa pensare a un’esposizione di arte figurativa.
Questa sua interessante singolarità, attribuibile a una predilezione culturale dell’Autore, si presta anche a una sperimentazione del linguaggio poetico affine a quello di alcuni importanti movimenti artistici del secolo scorso, come il Cubismo o la Metafisica, nei quali la sovrapposizione di oggetti di epoche storiche differenti o di provenienze contrastanti, ottenevano un sincretismo dove l’immagine aveva una fondamentale funzione evocativa. Qui il Poeta ottiene lo stesso effetto, attribuendo all’immagine un’importanza prevalente rispetto alla parola e alle sue potenzialità semantiche.
In poesia la giustapposizione di immagini su cui viene costruita l’architettura del discorso poetico vanta illustri esempi – il Surrealismo, Ezra Pound e il suo Movimento Imagista, oltre a T.S. Eliot, citazioni che si limitano ad alcuni tra i più celebri. Inoltre, la freudiana Interpretazione dei sogni ci insegna che la funzione dell’inconscio si esplica attraverso le immagini ed è intuibile grazie ad esse nell’esprimere uno stato dell’anima. Grazie all’atmosfera onirica nella quale questo poema è immerso, percepiamo qui uno stretto collegamento con l’Es. Ma va anche sottolineato che l’incalzante successione mediante la quale esse intendono rappresentare una terra desolata mira ad ottenere l’effetto di una sequenza cinematografica, fedele alle astuzie dello specifico filmico – il montaggio – a testimonianza della passione a tutto sesto dell’Autore anche per la settima arte.
Nella scelta di presentare i testi senza titolo, quasi fossero anonimi e nell’iniziare ogni verso con la lettera maiuscola, a sottolineare l’indipendenza di ciascuno di essi da quello successivo, non si può non ravvisare le atmosfere atemporali della pittura metafisica, oppure quelle della apparente casualità cubista, nella scomposizione spaziale di oggetti e immagini, ciascuno portatore di una sua verità. E ancora, il semplice atto di citare con la lettera minuscola, in una funzione grammaticalmente appositiva, lo scultore Rodin e il pittore astrattista Rothko, fa parte della ricerca stilistica di questo non semplice poema. Ma la citazione non è certamente a caso: il richiamo a Rodin, lo scultore francese amante sia delle forme possenti che delle figure sbozzate, simili ad alcune opere di Michelangelo (vedi I Prigioni, o la Pietà Rondanini), oppure al pittore Rothko, autore di vaste e nude campiture di colore, immerse in un inquietante silenzio nell’immensità del deserto, confermano il profondo impatto dell’arte figurativa sulla scrittura di Pasquale Vitagliano e sono azioni automatiche che paiono emergere direttamente dall’Es.
Nel titolo, il termine Apprendistato allude a un lavoro di apprendimento, umilmente teso a qualcosa di sacro – la salvezza – e di necessario alla sopravvivenza di fronte a un grave pericolo. Un impegno mirante a preservare quella nobiltà dell’essere umano, ormai persa, che l’Ulisse dantesco ci ha tramandato e scolpito nella mente, come monito: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” Come in molta poesia contemporanea, qui sembra evidente essere la perdita il tema principale, quella stessa perdita a cui alludeva Dante nel Canto XXVI dell’Inferno.
La tematica, di evidente ispirazione nichilista, viene inquadrata entro una scena in una sospensione delle categorie spazio/temporali annunciate dall’esergo di Clemente Rebora: “Dall’immagine tesa/ vigilo l’istante/ con imminenza di attesa/ – e non aspetto nessuno:” Versi da tenere presenti per l’interpretazione della silloge stessa: l’importanza dell’immagine, la funzione del tempo – concentrata sull’istante, senza passato né futuro – l’attesa come stato d’animo, nell’ amara consapevolezza che nessun Godot comparirà. Anche nelle correnti di arte figurativa cui si accennava, la categoria del tempo viene “sacrificata” a favore dell’indefinitezza spaziale. Il tempo è memoria, organizzazione, sequenza – tutto quanto è escluso nella condizione che Vitagliano descrive.
Un paesaggio distopico, dunque. Nel vuoto derivante da una catastrofe non ben definita, la cui causa sembra essere la perdita del sogno – “un sogno che non ci appartiene più”. Ne viene coinvolto l’Io scrivente in quanto everyman, l’essere umano in generale:” Ho bussato a tutte le porte/ Qui non c’è più nessuno/ Salvo i fantasmi dietro le porte”. Il linguaggio (la parola) è ormai sterile: “Dopo la prova che la parola non cura”, il Poeta è espropriato dello strumento essenziale della poesia. Un barlume di speranza pare emergere dall’invocazione “la luce la luce è la luce”, (p.9), per la sua capacità di manifestare” la reale sostanza delle cose”. Sarà la luce illuminista della ragione? Braccato, sotto assedio, il Poeta si muove lacero, i sensi narcotizzati in un “corpo smemorato” (p. 21). Poiché “Tutto è stato detto prima” si è smarrita ogni certezza, tanto che “Non mi sembra vero/ Di essere riuscito a fare delle parole/ Copie” (p.25). Ne deduciamo che la scena del mondo estenuato fa riferimento alla realtà attuale: una eliotiana terra desolata, asfittica e disperatamente sterile, priva persino di quei lillà primaverili, sorprendentemente privi di speranza. “Pensare senza il pensiero/ Scrivere ciò che è illeggibile”: la sospensione della razionalità provoca azioni antitetiche il cui effetto è una “dolce aponia” – la mancanza di dolore fisico – che la nostra memoria, evocando Epicuro, associa ad atarassia, la serenità mentale, condizioni necessarie per il filosofo greco al raggiungimento della felicità come scopo della vita (p.19). Ci viene detto che sulla via di una possibile salvezza la dolce aponia non rappresenta l’oblio, ma unicamente uno stato di assenza del dolore, in un silenzio che è il silenzio del mondo. Qualsiasi coinvolgimento emotivo viene evitato: i sensi narcotizzati inducono quella aponia e, coerentemente col clima descritto, acuiscono il senso di totale disumanizzazione.
Il duro apprendistato verso la salvezza richiede anche l’affrancamento da sentimenti e da pratiche del passato, come l’esperienza del dolore o la scrittura poetica. Ed emanciparsi dal dolore è già di per sé una sorta di liberazione. Eppure, l’idea di una dissociazione della mente dal proprio corpo vive una contraddizione, una rivendicazione di proprietà della parola: “Benché pronunciate continuano/ Le parole ad essere le tue anche/ Se col corpo non c’entrano più”. Immerso in una realtà straniante, nella disumanità della tecnologia, che “vede inutile pensare”, il Poeta si rende ormai conto di aver perduto “virtute e canoscenza”, ovvero la sostanza della natura umana.
Le due sezioni finali introducono un vero e proprio cambio di stile e di atmosfera- vi troviamo dei testi che indicano in termini realistici la dimostrazione tangibile della devastazione, fornendo la chiave di lettura dell’intera silloge:” Taranto per noi” descrive lo sfregio subito dalla fulgida bellezza di un’antica e storica città, attraversata da una dolorosa ferita, un ponte che non unisce come dovrebbe, ma separa i due mari e due settori dell’abitato, testimoniando inettitudine e cecità politica.
Ora il clima non è più astratto, il tono è di denuncia, pur essendo il paesaggio simile alla distopia descritta in precedenza:” Ė accaduto anche alle loro case di essere lasciate sole/ Insidiate dalle piattaforme che affollano svuotandole/ Asfissiate dalle ghiere che le disabitano…”. Il danno è stato compiuto e adesso, nella sua cruda realtà, l’atmosfera del disastro si ammanta nuovamente di una desolante cupezza: “Nella nostra notte terrestre il silenzio è così grande che le luci si sono spente/ Ė come guardare una tenebra ed invece è una nottata calma in cui tutto è sistemato.” (p.48) “Tutto è sistemato” sono parole di fuoco, cariche di inquietudine. l
Dopo accenni ad altre catastrofi – la pandemia e l’incombenza della fine, il Poeta sembra avere raggiunto un traguardo: “Porto dentro di me ogni riparo” (p.46) benché dominato da un insopprimibile senso di perdita:” La luce non serve la speranza non smuove/ Alzati ascolta prova a spostarti cammina/ La luce non serve per salvarsi”. (p.47). Ma neppure la luce ha più un senso:” L’oscurità ti viene dentro/ Mentre la notte non ti lascia” (p.47). La vanità di ogni sforzo induce a una disperazione senza grida né lacrime, anche quelle ormai inutili. Moderno Lazzaro, il Poeta è costretto a muoversi attraverso l’oscurità e la desolazione universale, pur restando pronto alla lotta.
Il tono nichilista ritorna nell’ultima sezione, “Dopo la battaglia”, anche se “La guerra privata è finita” (p.53). Le storture e l’effimero di una società consumistica, le sue drammatiche guerre, le minacce nucleari, sono ora trattate duramente, con tono beffardo: “Il cibo inghiottito non ci nutre” e “Non c’è l’arsenico in questa torta/ c’è solo che siamo a dieta…potremmo morire tutti all’istante/ Tutto è diventato possibile/ Prima o dopo il bollettino ufficiale/ Anche che qualcuno alla fine si salva.” (p.56). Implicita denuncia dell’incapacità di reazione degli esseri umani di fronte allo sfacelo, che li destina all’autodistruzione.
Dopo tanto cammino, il ritorno alla realtà odierna dà nuovamente spazio al sogno:”. Finalmente ho fatto un sogno/ Che non era un presagio era/ […] promessa che la tavola è una terra/ Sulla quale nessuno chiede permesso.” (p.59) Un mondo di eguali, senza confini, civilmente aperto all’accoglienza, senza distinzione alcuna, ecco l’utopia mai rivelata. Significa forse che il sogno, quello supremo, con la S maiuscola consente finalmente la speranza?
Ma la conclusione è significativa: “Non mi aspettavo una guerra/ Per cui non devo combattere/ Eppure sono in trincea/ Con un solo colpo in canna/ Così devo difendere la chiave da passare al prigioniero”. (p.62) Possiamo dedurre dunque che l’apprendistato non avrà fine? Pur se la perdita, cocente, resta. E con un inquietante colpo in canna.
Privo di finale consolatorio, il dramma è raccontato con grande maestria e con fredda passione da un Poeta che pratica l’impegno politico dal basso, muovendosi con consapevolezza nel marasma in cui tutti viviamo. Sognando, però, come chimera, un mondo migliore.
Milano, settembre 2024

Continua a leggere »

Scarti Alfabetici – Paolo Gera e Alessandra Gasparini

Pubblicato il 20 gennaio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

L’Enigma e il Gioco
Adam Vaccaro

Paolo Gera, Scarti alfabetici, con Abbeccedario di Alessandra Gasparini, Terra d’ulivi Ed. 2024

I libri di poesia – come nell’esempio offerto da questi Scarti alfabetici di Paolo Gera, con opere di Alessandra Gasparini – si muovono su due binari di senso: bisogno di aiuto e piacere del gioco. La forma, la titolazione e la veste tipografica della copertina ricordano un album scolastico, con colori vivaci consoni a fantasie infantili, giocose ma a tratti angosciose, quali quelle che strutturano ogni fiaba, che oscilla sempre tra rosa e nero, tra fiduciosa attesa e minacce, che implicano richieste di consolazione e aiuto.
Aggiungo che i due linguaggi, verbale e figurativo, si compenetrano in questa pubblicazione d’arte, con disegni che traducono in modi autonomi ma adiacenti gli echi dei versi, lungo il percorso espressivo di Paolo Gera, che qui sviluppa le tematiche del libro precedente, Ricerche poetiche. Nella sua Introduzione, Paolo sintetizza il complesso intreccio cercato, partendo da una citazione del filosofo Giorgio Colli, in cui “l’enigma sorride” anche se “interviene sullo sfondo il presentimento della ferocia…di una violenza spietata”.
Disegno che in me genera l’immagine di un toboga che scivola nell’indefinito, nell’Autore produce l’ossimoro di uno “schiaffo allegro”, su una “altalena” incessante e senza soluzioni definitive, tra “Il sì e il no”. Ne deriva che se la poesia si misura con la complessità della vita, trova forme nelle quali “La poesia è gioco ed enigma”. Bipolarità irrisolta persino ne “La dolcezza della madre”, che non cancella “la sua violenza, i suoi pensieri imperscrutabili”, mentre “mi afferrava i polsi e mi faceva dondolare” senza poter eliminare il timore di battere “la testa con violenza contro il pavimento”. È un illuminante scorcio di memorie infantili, nucleo epifanico della poetica dell’Autore, di voler “trasformare un gioco linguistico in poesia”. (pp. 5-6).
Un gioco, che se in Ricerche poetiche va dalla lallazione primaria all’articolazione di parole di senso e denominazione compiuti, qui ci offre il percorso opposto, che ricava da una parola scarti verbali, dopo aver eliminato via via, lettere e sillabe. Ne deriva un gioco serio, ricco di stimoli, con i quali Gera mostra l’enigma custodito da ogni parola, dietro l’apparente chiarezza del suo nome. Evidenziando con ciò che ogni parola non è un termine, ma un inizio. Un abbrivio, tuttavia, di libera impotenza, senza punti di arrivo solutori.
L’enigma non si scioglie, e le 21parole scelte, “una parola per ogni lettera dell’alfabeto italiano dall’A alla Z” sono sbucciate come cipolle e, strato dopo strato, diventano metafore di vuoto terminale e di scarti nel nulla. Detto altrimenti, ogni parola è una somma di bamboline nascoste in una matrioska, che apre, invita, illude e allude, a una esplicazione molteplice e sospesa, che perviene a scarti privi di senso. E tuttavia, il percorso del libro non ripiega su un pessimismo nichilistico, perché fa brillare l’energia di una scossa amorosa tra violenza e sorriso, sintetizzata in uno schiaffo allegro, che “cerca di capirci qualcosa, di quest’epoca di parole incerte, spezzate, violate” ma “resistenti”, come ribadisce nella sua nota, Alessandra Gasparini.
Talché, ogni testo ci immette in un pozzo dei desideri, senza uscita, ma ci regala ali di risalita, rispondendo così a suo modo al sottotesto, di richiesta di aiuto del poièin. Che qui, in ogni poesia sprigiona scintille di invenzioni, di cui ci limitiamo a citare pochi brani tratti dalla prima e dall’ultima, riferite alle lettere A e Z.
E non a caso ho utilizzato la metafora dell’ala, suggerita dal primo testo, che si snoda a partire dalla A di Alea: ALEA-ALE-AL-A:
“L’alea ha prodotto/ questo entanglement/ di lettere e parole/ l’alea è rischio/ il dado che tira/ il crocicchio a cui si ferma Edipo/ l’azione del destino e la destinazione/ dove la linea diventa verticale/ l’abisso classico, lo sprofondo grave”. E in tale sprofondo “Appare ale”, co-autrice “compagna d’impresa” del libro, con un lampo autoironico finale; “Rimane a, la prima/ di questa impresa assurda/ termine iniziale e finale.” (pp.9-10).
L’ultima poesia, dedicata alla Z di Zero, titola: ZERO-ERO-ER-R:
“Quanto doveva il gioco è durato./ via dal tavoliere le pedine e i dadi, le carte coi valori e gli imprevisti,/ proprietà dei poetici nomi./ Questo mio gioco senza meraviglia/ io do all’incanto./…/ e zero è solo zero./ Se guardo indietro ero una dea africana/ una bestia feroce accanto al focolare/ un gruppo di scrittori sovversivi./ Ero una bimba saltata su una bomba,/…/ Una r alla giugulare, arrotata al punto giusto” (pp. 57-58).
Confido, anche solo con queste limitate citazioni, di riuscire a sollecitare la lettura, e aggiungo quanto ribadito da Paolo Gera in chiusura della sua Introduzione: “Le mie 21 parole piene di altre, corrispondono ai 21 Arcani Maggiori, più il numero zero, che nei tarocchi come nel mio mazzo corrisponde al matto, alla libertà finale che non ammette freni.”. Una rivendicazione che nel libro, come spero di avere mostrato, è svolta in un controcanto critico di ogni delirio di onnipotenza, quale declinato dall’ideologia dei poteri in atto.
20 gennaio 2025

Continua a leggere »

Le cose del mondo – Paolo Ruffilli

Pubblicato il 7 gennaio 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

LA PAROLA PER ESSERE NEL MONDO

Adam Vaccaro

Paolo Ruffilli, LE COSE DEL MONDO, Mondadori, Lo Specchio, 2020

Questo libro di Paolo Ruffilli rientra appieno nel sogno e bisogno da me sempre coltivati, di versi capaci di parlare di sé parlando dell’Altro, in un continuo entresci teso a dare forma alla molteplicità del Sé. Detto altrimenti, ne deriva un disegno poematico di passi nell’ignoto dell’autopoiesi, che man mano dischiude l’intreccio di una prassi che decostruisce materia, corpi, pensieri ed emozioni, cancellando i nomi ricevuti per ricostruirli e ridargli nuova vita. Ne deriva una narrazione di gesti del daimon socratico, che esiste e resiste, nel percorso diacronico del Soggetto Storicoreale (SSR), solo generando punti di attimi d’infinito del sincronico stato modificato di coscienza del Soggetto Scrivente (SS), in cui si rinnova la vita, anche attraverso il fulgore e l’illusione dell’arte primigenia di dare nomi nuovi alle cose del mondo.

Continua a leggere »

L’Icaro di Cannillo

Pubblicato il 5 dicembre 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

LUIGI CANNILLO
Icaro moderno tra galassie di pensiero e poesia
Donato Di Poce

Matisse nel suo “Icarus” ci consegna un’ombra nera danzante o in caduta tra le stelle.
Giordano Bruno ne scrive un ritratto struggente: «La voce del mio cor per l’aria sento:/ «Ove mi porti, temerario? china,/ che raro è senza duol tropp’ardimento»;/ «Non temer (respond’io) l’alta ruina./ Fendi sicur le nubi, e muor contento:/ s’il ciel sì illustre morte ne destina».
Bachelard vede il mito di Icaro come caratteristica dell’immaginazione dinamica rappresentata nel motivo poetico del volo «nostalgie inexpiable de la hauteur » .
Ragozzino ci regala un Icaro astronauta che vola ironico e irridente con ali scheletriche nei cieli del futuro, o almeno così ce lo ritrae nella splendida cover del libro di Cannillo “Between Windows ad Skies”, Gradiva Publications, New York, 2022.

Continua a leggere »

Polifema – Gabriella Cinti

Pubblicato il 2 dicembre 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Gabriella Cinti, Polifema, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2024. € 16
Nota critica di Laura Cantelmo

Vi sono forme di scrittura che suscitano un’immediata vicinanza, una condivisione con il pensiero e il sentire dell’Autrice/Autore, sia che si tratti di poesia, di narrativa o di filosofia. Nella contaminazione dei generi si inserisce questo libro bellissimo e singolare di Gabriella Cinti, Polifema, che, nella sua complessità e nella sua verità trova risonanza nel cuore di ogni donna e può essere di monito per ogni uomo. Non solo un romanzo d’amore, ma un vero e proprio trattato sull’amore, quel sentimento che, pur nei suoi aspetti dolorosi e spesso crudeli, induce alla scoperta di luoghi magici e di “regioni disabitate” e sconosciute, in quanto manifestazione sub specie aeternitatis dell’essere umano nella sua totalità. L’Autrice è scrittrice di profonda cultura classica e grande sensibilità, nota principalmente per il suo valore di Poeta e di studiosa, per la cura che dedica alla parola, di cui, come grecista, nello scandaglio delle origini più lontane (come nella sua più recente raccolta poetica, Prima, puntoacapo ed. 2023) porta alla luce la ricchezza e la complessità del linguaggio.
Punteggiato di lemmi in greco antico, che ne indicano le raffinate sfumature di significato, Polifema palesa delicatezza di sentimenti e profondità del pensiero, segno di una sensibilità di donna che ha “intelletto d’amore”, giustamente definibile come “cuore pensante”. Quella della protagonista, Marzia Volo, è il racconto del suo rapporto con Giorgio, suo primo e unico grande amore: “All’amore primo” è il titolo eloquente del capitolo iniziale. Una vicenda che si protrae per decenni, in un’alternanza di notti appassionate – al termine delle quali l’estasi vede il suo tracollo con il sorgere del sole – e lunghi periodi solitari. Muovendosi con lieve luminosità attraverso piani temporali diversi, tra il ricordo dei primi approcci e gli incontri in età matura, la storia procede tra passato e presente focalizzando sempre più i limiti della figura di lui, dovuti a una maturità mai raggiunta e a una palese forma di egoismo. Una realtà che Marzia, intelletto e corpo vibrante, mirando nella sua limpida nudità a una completa fusione con l’amato, non riesce a vedere, perché accecata, come il mitico Polifemo.
L’unità perfetta come massima aspirazione nell’esperienza d’amore è un tema trattato nel Simposio di Platone. Oltre a descrivere la duplice e natura di Eros, dio dell’Amore, il dialogo spiega come quella tensione rappresenti la nostalgia dell’unità primigenia originale, risalente al tempo in cui l’essere umano comprendeva in un unico corpo due entità, di sesso uguale od opposto, successivamente divise dall’ira di Zeus. Come sempre, sotto forma di simbolo, il mito svela verità a noi negate, quali l’inesausta ricerca, nella relazione amorosa, di quella metà che Zeus aveva violentemente separato. Eros, essendo figlio di Poro (“l’Espediente”) e di Penia (“la Povertà”), a quelle significative origini deve la sua inquietudine e l’ambiguità nel saper esaltare le potenzialità del corpo e dell’anima degli amanti, facendoli sognare nelle loro reciproche intime esplorazioni, per poi provocare ai loro cuori pene devastanti. Ben si accorda alla duplice natura di Eros il modernissimo Carme LXXXV di Catullo: “Odi et amo. Quare id/faciam, fortasse requiris./ Nescio, sed fieri sentio/ et excrucior.”(“Odio e amo. Forse/ chiederai come faccia/ Non so, ma sento che accade/ e mi tormento”). L’ossimoro iniziale, dalla eloquente forza assertiva e l’intera composizione, nella sua stringata semplicità, ne evidenziano l’indubbia attualità. Una contraddizione che lapidariamente illustra la natura complessa dell’amore, alludendo al dolore che esso comporta.
La narrazione è percorsa dalla storia degli incontri dei due amanti, oltre che da un conflitto interiore che tormenta Marzia, donna dal nome simbolicamente combattivo- una vera amazzone- sulla misteriosa ambiguità di Giorgio e sulla differenza nel loro sentire. Su come possa Giorgio riservare a lei pensieri sublimi senza accettare nella sua totalità un rapporto così profondamente radicato. Benché l’ossessione abbia assunto le forme di una dipendenza che non dà tregua a entrambi, la figura di Giorgio risulterebbe incomprensibile se non analizzata sulla base di usanze o di mentalità di antichissima origine, ancora vigenti nella società in cui viviamo. Inevitabilmente, in sintonia con la protagonista, il lettore si pone le stesse domande di lei. Appare evidente che Giorgio abbandona quella magica intimità, quel corpo palpitante e quel vivido intelletto per seguire il solo modello di vita nel quale ragione e sentimento, pensiero e natura sono stati forzatamente separati, per dedicarsi agli affari quotidiani, a causa di un infantilismo di fondo, coltivato nel rassicurante rifugio della famiglia. Poiché solo attraverso la separazione e la frantumazione dei compiti sociali lui trova l’unica possibilità che consente al suo equilibrio di realizzarsi, rendendolo uguale ai suoi simili: “una sorta di sindrome della palude, quel luogo stagnante, ma imbottito di sicurezze da cui molto uomini hanno letteralmente il terrore di allontanarsi, pur coscienti che la libertà sia altrove.”(p. 209) Seguono parole forti, che scolpiscono la miserabile inferiorità di Giorgio e di quelli come lui :”Una specie di brodosa placenta in cui l’egotismo infantile di certi uomini sembra trovare il proprio habitat ideale e nessuna virilità ostentata può occultare questa verità di fondo.” (p. 209).
A tal proposito troviamo ne La Gaia scienza di Nietzsche una riflessione illuminante, riportata da Simone de Beauvoir: “Ciò che la donna intende per amore […]è un dono totale del corpo e dell’anima […] Ė questa condizione che fa del suo amore una fede, la sola che abbia. Quanto all’uomo, se ama una donna è quest’amore che vuole da lei, perciò è ben lungi dal postulare per sé lo stesso sentimento che per la donna; se si trovassero uomini che provassero anche loro questo desiderio di abbandono totale, in fede mia, non sarebbero uomini.”. (in: Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 231). Non stupirà il punto di vista di un uomo di tal levatura, benché di epoca a noi lontana, perché purtroppo crediamo sia invalso ancor oggi considerare la differente postura della donna e del compagno, nei riguardi dell’amore, “come legge di natura”.
Le figure dei due amanti assumono di volta in volta dimensioni diverse: lei, allontanatasi dalla famiglia, vive quell’amore come un bene assoluto, totalizzante, che dà senso alla vita. La sua passione per l’assoluto, nel corso della narrazione, la eleva sempre più a figura mitica, mentre lui, “uomo senza qualità”, come lei ben lo definisce, ricorre al sotterfugio, alla menzogna, affronta le scenate della moglie, si mostra straziato, finendo per ripetere il rituale di sempre, perdendosi tra le braccia di Marzia. Tra le due figure è evidente il contrasto tra banale ed elevato, che avvicina il racconto a livelli drammatici. Giorgio incarna uno stereotipo maschile che ancora sopravvive, secondo il quale, in un tempo non molto lontano, avere l’amante era una consuetudine diffusa, mentre le donne, “angeli del focolare”, erano relegate alla cura della famiglia e della casa. Le eccezioni rappresentavano situazioni rare e scandalose, le cui spese ricadevano pesantemente sulla donna. Si pensi alla storia di Sibilla Aleramo.
In concordanza col suo cognome, Marzia Volo sa volare alto, vive la pienezza delle emozioni, diversamente da lui, che, pur soffrendo, ha relegato l’amore a una immersione temporanea in quel mare di felicità, per fare ritorno, ogni volta, alla palude del quotidiano. E l’alternanza di notte e giorno assume un valore simbolico, richiamando alla mente Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, nel quale le ardite e ardenti trasgressioni notturne si dileguano all’alba, riportando ogni vicenda individuale all’ordine prescritto dalla ragione della polis. La fiaba narrata in quella commedia è una forma di mito – cioè, di “racconto” – nella quale ritroviamo lo stesso meccanismo sperimentato da Marzia. Poiché è nelle tenebre che si manifesta la verità del loro amore, mentre alla luce del giorno quella stessa verità viene respinta da lui per tornare alle consuetudini, al “Mulino grigio” della quotidianità – alla falsa felicità sbandierata da una nota pubblicità. Quasi una visione satirica del diverso vissuto dei sentimenti nell’ Uomo e nella Donna, sgorgata dalla geniale intuizione di Shakespeare, della quale non tutti i registi hanno saputo – o voluto- cogliere il senso profondo, scegliendo di privilegiare di quel capolavoro l’aspetto fantasioso e fiabesco. Incarnando i due amanti due differenti archetipi, sarebbe quindi più corretto parlare di un Uomo e di una Donna: lei, posseduta da un bisogno di globalità, vive gli incontri in un’estasi mistica, da cui viene dolorosamente distolta al momento del distacco, mentre lui si dimostra incapace di amare.
Tuttavia, lentamente prende forma in Marzia la consapevolezza di una autolesionistica disposizione ad accettare la situazione a cui inevitabilmente conseguirà un lacerante senso di perdita di sé: “dolore di spreco di amore-vita”.
La presa di coscienza richiede un tempo lungo: “il femminile possiede virtù di eroismo sacrificale cui solo il mito ha dato il giusto risalto” (p.208), ma l’elaborazione di quel lutto ripetuto apre la via al riscatto della propria dignità, alla consapevolezza del grande divario che la divide da Giorgio, fino al raggiungimento della libertà dal legame con quell’ “uomo senza qualità”. Tuttavia, il percorso non è facile, a tal punto è saldo in lei, Penelope inesausta, il vincolo che per decenni le ha letteralmente condizionato la vita, fino a indurla a rifiutare altri rapporti. Scavando nella natura di quell’ossessione, nel percepire quella esperienza radicata e dunque incancellabile, al ritrovarsi sola, nel vuoto e al gelo di fronte all’abbandono, il bisogno di assoluto diviene la sua arma, il sostegno al suo intelletto, per aprire gli occhi che, in quanto Polifema, erano rimasti accecati dalla passione. E nel “riprendere i lineamenti della sua persona”, ricostruendo “le sue diverse sembianze”, Marzia vede finalmente che “le si stava scolorendo nella mente anche l’immagine di lui.” (p. 209).
Il ritrovato senso della vita per chi, come lei, è sempre stata dedita alla parola, allo studio e alla creatività, la induce a diffondere la sua esperienza, affinché altre donne non cadano nella trappola in cui lei stessa è rimasta impigliata. “L’amore è strumento di verità anche se passa attraverso inganni […] ma, quando viene interrogato al termine di una storia si rivela il più diamantino dei tribunali “(p.205). Nonostante il tracollo fisico e psicologico che ne segue, “per aver inglobato il dolore come elemento malato con cui coabitare” – poiché un amore così assoluto non si può cancellare – nella “nuova donna” sarà la parola come pensiero, come ragione di vita, a farle ritrovare il senso dell’esistenza in una maternità: “un figlio di carta, nato dal ventre della sua anima, figlio partenogenetico di sola madre, vestito esclusivamente di parole” (p.211). “Non una gravidanza isterica” ci viene precisato, bensì un generoso dono di sé dedicato alle altre donne. Tornando ad essere voce autonoma, in uno sforzo creativo e pedagogico, teso alla rinascita: “Così si rinasce, come solo il femminile che partorisce il due sa fare” (p.211).

Continua a leggere »


Benvenuto

Sei sul sito di Milanocosa, l'associazione culturale che svolge attività di promozione culturale secondo criteri di ricerca interdisciplinare con l'obiettivo di favorire la circolazione e il confronto fra linguaggi, ambiti e saperi diversi, spesso non comunicanti tra loro. - Libri