Gabriella Cinti, Polifema, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2024. € 16
Nota critica di Laura Cantelmo
Vi sono forme di scrittura che suscitano un’immediata vicinanza, una condivisione con il pensiero e il sentire dell’Autrice/Autore, sia che si tratti di poesia, di narrativa o di filosofia. Nella contaminazione dei generi si inserisce questo libro bellissimo e singolare di Gabriella Cinti, Polifema, che, nella sua complessità e nella sua verità trova risonanza nel cuore di ogni donna e può essere di monito per ogni uomo. Non solo un romanzo d’amore, ma un vero e proprio trattato sull’amore, quel sentimento che, pur nei suoi aspetti dolorosi e spesso crudeli, induce alla scoperta di luoghi magici e di “regioni disabitate” e sconosciute, in quanto manifestazione sub specie aeternitatis dell’essere umano nella sua totalità. L’Autrice è scrittrice di profonda cultura classica e grande sensibilità, nota principalmente per il suo valore di Poeta e di studiosa, per la cura che dedica alla parola, di cui, come grecista, nello scandaglio delle origini più lontane (come nella sua più recente raccolta poetica, Prima, puntoacapo ed. 2023) porta alla luce la ricchezza e la complessità del linguaggio.
Punteggiato di lemmi in greco antico, che ne indicano le raffinate sfumature di significato, Polifema palesa delicatezza di sentimenti e profondità del pensiero, segno di una sensibilità di donna che ha “intelletto d’amore”, giustamente definibile come “cuore pensante”. Quella della protagonista, Marzia Volo, è il racconto del suo rapporto con Giorgio, suo primo e unico grande amore: “All’amore primo” è il titolo eloquente del capitolo iniziale. Una vicenda che si protrae per decenni, in un’alternanza di notti appassionate – al termine delle quali l’estasi vede il suo tracollo con il sorgere del sole – e lunghi periodi solitari. Muovendosi con lieve luminosità attraverso piani temporali diversi, tra il ricordo dei primi approcci e gli incontri in età matura, la storia procede tra passato e presente focalizzando sempre più i limiti della figura di lui, dovuti a una maturità mai raggiunta e a una palese forma di egoismo. Una realtà che Marzia, intelletto e corpo vibrante, mirando nella sua limpida nudità a una completa fusione con l’amato, non riesce a vedere, perché accecata, come il mitico Polifemo.
L’unità perfetta come massima aspirazione nell’esperienza d’amore è un tema trattato nel Simposio di Platone. Oltre a descrivere la duplice e natura di Eros, dio dell’Amore, il dialogo spiega come quella tensione rappresenti la nostalgia dell’unità primigenia originale, risalente al tempo in cui l’essere umano comprendeva in un unico corpo due entità, di sesso uguale od opposto, successivamente divise dall’ira di Zeus. Come sempre, sotto forma di simbolo, il mito svela verità a noi negate, quali l’inesausta ricerca, nella relazione amorosa, di quella metà che Zeus aveva violentemente separato. Eros, essendo figlio di Poro (“l’Espediente”) e di Penia (“la Povertà”), a quelle significative origini deve la sua inquietudine e l’ambiguità nel saper esaltare le potenzialità del corpo e dell’anima degli amanti, facendoli sognare nelle loro reciproche intime esplorazioni, per poi provocare ai loro cuori pene devastanti. Ben si accorda alla duplice natura di Eros il modernissimo Carme LXXXV di Catullo: “Odi et amo. Quare id/faciam, fortasse requiris./ Nescio, sed fieri sentio/ et excrucior.”(“Odio e amo. Forse/ chiederai come faccia/ Non so, ma sento che accade/ e mi tormento”). L’ossimoro iniziale, dalla eloquente forza assertiva e l’intera composizione, nella sua stringata semplicità, ne evidenziano l’indubbia attualità. Una contraddizione che lapidariamente illustra la natura complessa dell’amore, alludendo al dolore che esso comporta.
La narrazione è percorsa dalla storia degli incontri dei due amanti, oltre che da un conflitto interiore che tormenta Marzia, donna dal nome simbolicamente combattivo- una vera amazzone- sulla misteriosa ambiguità di Giorgio e sulla differenza nel loro sentire. Su come possa Giorgio riservare a lei pensieri sublimi senza accettare nella sua totalità un rapporto così profondamente radicato. Benché l’ossessione abbia assunto le forme di una dipendenza che non dà tregua a entrambi, la figura di Giorgio risulterebbe incomprensibile se non analizzata sulla base di usanze o di mentalità di antichissima origine, ancora vigenti nella società in cui viviamo. Inevitabilmente, in sintonia con la protagonista, il lettore si pone le stesse domande di lei. Appare evidente che Giorgio abbandona quella magica intimità, quel corpo palpitante e quel vivido intelletto per seguire il solo modello di vita nel quale ragione e sentimento, pensiero e natura sono stati forzatamente separati, per dedicarsi agli affari quotidiani, a causa di un infantilismo di fondo, coltivato nel rassicurante rifugio della famiglia. Poiché solo attraverso la separazione e la frantumazione dei compiti sociali lui trova l’unica possibilità che consente al suo equilibrio di realizzarsi, rendendolo uguale ai suoi simili: “una sorta di sindrome della palude, quel luogo stagnante, ma imbottito di sicurezze da cui molto uomini hanno letteralmente il terrore di allontanarsi, pur coscienti che la libertà sia altrove.”(p. 209) Seguono parole forti, che scolpiscono la miserabile inferiorità di Giorgio e di quelli come lui :”Una specie di brodosa placenta in cui l’egotismo infantile di certi uomini sembra trovare il proprio habitat ideale e nessuna virilità ostentata può occultare questa verità di fondo.” (p. 209).
A tal proposito troviamo ne La Gaia scienza di Nietzsche una riflessione illuminante, riportata da Simone de Beauvoir: “Ciò che la donna intende per amore […]è un dono totale del corpo e dell’anima […] Ė questa condizione che fa del suo amore una fede, la sola che abbia. Quanto all’uomo, se ama una donna è quest’amore che vuole da lei, perciò è ben lungi dal postulare per sé lo stesso sentimento che per la donna; se si trovassero uomini che provassero anche loro questo desiderio di abbandono totale, in fede mia, non sarebbero uomini.”. (in: Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 231). Non stupirà il punto di vista di un uomo di tal levatura, benché di epoca a noi lontana, perché purtroppo crediamo sia invalso ancor oggi considerare la differente postura della donna e del compagno, nei riguardi dell’amore, “come legge di natura”.
Le figure dei due amanti assumono di volta in volta dimensioni diverse: lei, allontanatasi dalla famiglia, vive quell’amore come un bene assoluto, totalizzante, che dà senso alla vita. La sua passione per l’assoluto, nel corso della narrazione, la eleva sempre più a figura mitica, mentre lui, “uomo senza qualità”, come lei ben lo definisce, ricorre al sotterfugio, alla menzogna, affronta le scenate della moglie, si mostra straziato, finendo per ripetere il rituale di sempre, perdendosi tra le braccia di Marzia. Tra le due figure è evidente il contrasto tra banale ed elevato, che avvicina il racconto a livelli drammatici. Giorgio incarna uno stereotipo maschile che ancora sopravvive, secondo il quale, in un tempo non molto lontano, avere l’amante era una consuetudine diffusa, mentre le donne, “angeli del focolare”, erano relegate alla cura della famiglia e della casa. Le eccezioni rappresentavano situazioni rare e scandalose, le cui spese ricadevano pesantemente sulla donna. Si pensi alla storia di Sibilla Aleramo.
In concordanza col suo cognome, Marzia Volo sa volare alto, vive la pienezza delle emozioni, diversamente da lui, che, pur soffrendo, ha relegato l’amore a una immersione temporanea in quel mare di felicità, per fare ritorno, ogni volta, alla palude del quotidiano. E l’alternanza di notte e giorno assume un valore simbolico, richiamando alla mente Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, nel quale le ardite e ardenti trasgressioni notturne si dileguano all’alba, riportando ogni vicenda individuale all’ordine prescritto dalla ragione della polis. La fiaba narrata in quella commedia è una forma di mito – cioè, di “racconto” – nella quale ritroviamo lo stesso meccanismo sperimentato da Marzia. Poiché è nelle tenebre che si manifesta la verità del loro amore, mentre alla luce del giorno quella stessa verità viene respinta da lui per tornare alle consuetudini, al “Mulino grigio” della quotidianità – alla falsa felicità sbandierata da una nota pubblicità. Quasi una visione satirica del diverso vissuto dei sentimenti nell’ Uomo e nella Donna, sgorgata dalla geniale intuizione di Shakespeare, della quale non tutti i registi hanno saputo – o voluto- cogliere il senso profondo, scegliendo di privilegiare di quel capolavoro l’aspetto fantasioso e fiabesco. Incarnando i due amanti due differenti archetipi, sarebbe quindi più corretto parlare di un Uomo e di una Donna: lei, posseduta da un bisogno di globalità, vive gli incontri in un’estasi mistica, da cui viene dolorosamente distolta al momento del distacco, mentre lui si dimostra incapace di amare.
Tuttavia, lentamente prende forma in Marzia la consapevolezza di una autolesionistica disposizione ad accettare la situazione a cui inevitabilmente conseguirà un lacerante senso di perdita di sé: “dolore di spreco di amore-vita”.
La presa di coscienza richiede un tempo lungo: “il femminile possiede virtù di eroismo sacrificale cui solo il mito ha dato il giusto risalto” (p.208), ma l’elaborazione di quel lutto ripetuto apre la via al riscatto della propria dignità, alla consapevolezza del grande divario che la divide da Giorgio, fino al raggiungimento della libertà dal legame con quell’ “uomo senza qualità”. Tuttavia, il percorso non è facile, a tal punto è saldo in lei, Penelope inesausta, il vincolo che per decenni le ha letteralmente condizionato la vita, fino a indurla a rifiutare altri rapporti. Scavando nella natura di quell’ossessione, nel percepire quella esperienza radicata e dunque incancellabile, al ritrovarsi sola, nel vuoto e al gelo di fronte all’abbandono, il bisogno di assoluto diviene la sua arma, il sostegno al suo intelletto, per aprire gli occhi che, in quanto Polifema, erano rimasti accecati dalla passione. E nel “riprendere i lineamenti della sua persona”, ricostruendo “le sue diverse sembianze”, Marzia vede finalmente che “le si stava scolorendo nella mente anche l’immagine di lui.” (p. 209).
Il ritrovato senso della vita per chi, come lei, è sempre stata dedita alla parola, allo studio e alla creatività, la induce a diffondere la sua esperienza, affinché altre donne non cadano nella trappola in cui lei stessa è rimasta impigliata. “L’amore è strumento di verità anche se passa attraverso inganni […] ma, quando viene interrogato al termine di una storia si rivela il più diamantino dei tribunali “(p.205). Nonostante il tracollo fisico e psicologico che ne segue, “per aver inglobato il dolore come elemento malato con cui coabitare” – poiché un amore così assoluto non si può cancellare – nella “nuova donna” sarà la parola come pensiero, come ragione di vita, a farle ritrovare il senso dell’esistenza in una maternità: “un figlio di carta, nato dal ventre della sua anima, figlio partenogenetico di sola madre, vestito esclusivamente di parole” (p.211). “Non una gravidanza isterica” ci viene precisato, bensì un generoso dono di sé dedicato alle altre donne. Tornando ad essere voce autonoma, in uno sforzo creativo e pedagogico, teso alla rinascita: “Così si rinasce, come solo il femminile che partorisce il due sa fare” (p.211).
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