Roma, anni Sessanta – Una poesia di Giorgio Linguaglossa – Commento di Mariella Colonna Filippone
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Il tedio di Dio
Roma. Anni Sessanta.
[…]
Roma. Anni Sessanta. Piazza Winckelmann.
Una buffa giostra. Aiuole di ghiaia.
Panchine di legno verniciate in verde.
La scuola media dove ho fatto il professore.
Ci sono io bambino che guarda la giostra.
C’è la giostra che mi guarda.
Ci sono tzigani che suonano violini tzigani.
Gitani con armoniche a bocca e fisarmoniche.
Cavallucci al galoppo con sellini colorati.
Saraceni con il turbante azzurro agitano
scimitarre a mezzaluna. Macchinine a pedali.
Fantaccini in livrea sull’attenti…
[…]
Novecentocinquantatre anni dalla fondazione della Città Eterna,
sbarcai a Berenice sul mar Rosso,
comandante di coorte della legio Victrix di stanza ad Antiochia
inviata per soffocare la ribellione dei berberi.
Gli agiri e i garamanti si diedero ad una fuga precipitosa.
In breve, debellammo nel sangue le sommosse di quei barbari
iconoclasti, che non conoscono lo specchio,
e proseguimmo con le coorti degli ausiliari cirenaici
e i frombolieri mauritani
la marcia a sud, contro le forze degli ultimi ribelli,
quando una freccia, senza rumore,
entrò nel mio petto fracassando la lorica…
[…]
La urgenza della sete mi rese temerario.
Nella febbre che seguì sognai
la Città degli Immortali
di fronte al fiume che dona la vita eterna
e che, dicono, sgorghi in quelle plaghe desolate.
Sognai il canto ineguale delle sirene
simile al singhiozzo disperato di un’upupa.
Il delirio mi inebetì.
Credetti riconoscere la città al canto dei trogloditi
che non parlano alcuna lingua conosciuta
e sconoscono l’uso della clamide.
E passai nella superiore oscurità con un grido
interminabile.
[…]
Vidi un teatro con colonne corinzie e capitelli
ruotare in senso contrario al moto del sole.
Udii un tintinnio di campanellini, un fruscio e poi il Silenzio.
[…]
Zeus ha soltanto pensato quella parola
ma non l’ha pronunciata. La parola delle parole.
E le parole, come velieri del sonno,
si sono addormentate.
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Commento di Mariella Colonna Filippone
La mia lettura di quest’opera di Giorgio Linguaglossa segue un metodo sincronico, per la ricchezza e la novità dei contenuti che non consentono divagazioni sia pure importanti.
Linguaglossa, che ha una vasta conoscenza della letteratura contemporanea della cronaca e della storia, nella poesia «Roma anni Sessanta» compie una straordinaria parabola poetica: coniugando magistralmente la libertà e la regola, con un linguaggio poetico del tutto nuovo e talvolta sorprendente, riesce a collegare intimamente il suo mondo di ricordi agli eventi epici del passato di cui riferisce come se li avesse vissuti personalmente. In primo piano l’estrema libertà del linguaggio, in cui la sobrietà e il quasi pudore espressivo esaltano per contrasto le impennate dell’immaginazione e fanno della contraddizione e del paradosso poderosi strumenti con cui il poeta riesce a fondere varietà di tempi e di spazi modellando e cucendo, come un artigiano con le materie prime, situazioni personaggi e immagini che vanno ben oltre il normale vissuto, in un crescendo che lascia senza respiro.
Ma vediamo come si svolge quest’avventura della parola: in apertura, il ricordo: in un linguaggio semplice, un tempo ancora vivo e pulsante: Roma, piazza Winckelmann, le immagini sonore e colorate della giostra, tutto visto dagli occhi di un bambino che e non ha mai cessato di esistere nell’adulto. Poi, accade qualcosa… la vista di un particolare oggetto presente sulla scena fa scattare l’immaginazione, lo sprofondamento nel passato: è il ricordo di una vita precedente oppure la forza del linguaggio che penetra, inaugura la memoria storica e la ripercorre? Forse l’una e l’altro. L’io narrante del poeta ora, comandante della legio Victrix, è ad Antiochia dove combatte eroicamente contro gli agiri e i garamanti, «barbari iconoclasti che non conoscono lo specchio». La sua legione sconfigge il nemico, ma il destino rincorre lui: durante una marcia a sud, è colpito da una freccia silenziosa. È febbricitante, ha sete, è gravemente ferito, ed ecco l’imprevisto: il sogno irrompe nella sua agonia e vede la «Città degli Immortali» di fronte al fiume che dona la «vita eterna».
Questa visione di gloria, evocando luce e splendore, fa risaltare il successivo evento tenebroso, la morte dell’eroe, che Linguaglossa non nomina ma evoca con intensità e attraverso l’espressione più drammatica del dolore umano: «E passai nella superiore oscurità con un grido/ interminabile.» Un verso di grande potenza comunicativa, a cui segue una visione surreale, quasi un eco della vita che rimbalza verso il mistero dell’ «Oltre», prima del silenzio. L’io del poeta è sdoppiato, vede se stesso nell’avventura del comandante della «legio Victrix», contempla la propria morte eroica e conclude con versi misteriosi lasciandoci nella profonda meditazione su quanto Zeus ha pensato ma non ha voluto rivelare con la parola. Non sappiamo se sia Zeus o il poeta a non pronunciare la parola delle parole, forse l’uno e l’altro – e si ripropone l’efficace ambiguità espressiva in virtù della quale i significati si sciolgono e si avviluppano nutrendosi a vicenda e contribuendo al molteplice spessore del linguaggio poetico -. Linguaggio che riesce a dire sempre oltre quello che dice, come se non bastando più il mondo fisico, le parole attingessero alla dimensione metafisica o ad altri universi, superando se stesse abbracciate alle vibrazioni di pura energia che il poeta espande in tutte le direzioni come raggi luminosi di una stella.
Dal ricordo dell’infanzia e della città com’era, al dramma della guerra che investe e travolge l’uomo maturo, ad un vertice di lirismo che tenta di sfiorare l’impossibile: le parole, di fronte al mistero della divinità e al dono divino della poesia «come velieri del sonno» si addormentano insieme all’eroe. Ma,conoscendo il grande valore della parola non detta da Zeus…noi speriamo che all’eroe della «Victrix» (che non per niente si chiama così) il dio l’abbia rivelata. E che il poeta ce ne faccia comprendere il messaggio anche se le sue parole tacciono nel sonno.
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Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la Rivista Letteraria Internazionale lombradelleparole.wordpress.com – Il suo sito personale è: www.giorgiolinguaglossa.com
e-mail: glinguaglossa@gmail.com
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Mariella Colonna Filippone è nata a Roma dove vive con la famiglia. Nel 1989 vince il “Premio Italia RAI” con Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di F. Petracchi (con L.Poli e G.Moschin). Sempre per RadioI scrive: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli-Isola Tiberina è coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Lucca, Premio Nazionale Teatro Sacro a confronto), realizzato e trasmesso da RAI 3 nell‘86. Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce). Nella collana “Città immateriale” ed.Marcon, pubblica Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro Nel 2008 pubblica Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ed.Odoya, nel 2010 Dove Dio ci nasconde, ed. Albatros, nel 2011 Due cuori per una Regina, ed.Guida (coautrice insieme al marito Mario Colonna), nel 2013 L’innocenza del mare (Europa edizioni), Nel 2014 Paradiso vuol dire giardino, ed.Simple.
Giorgio Linguaglossa è un poeta “parsimonioso”, nel senso che ci fa conoscere le sue poesie col “contagocce”, come quando un terapeuta interviene,con piccole dosi di un farmaco, ad assuefare il suo paziente, fino al controllo della patologia. Il “contagocce” poetico di Linguaglossa,anticipa il prossimo volume: Il tedio di Dio. Il testo qui presentato è la forma estetica di un linguaggio che consiste in un recupero del frammento, collegato ad un sincretismo verbale fatto di pause e successive vibrazioni, che lasciano il lettore in una specie di “stop end go, al punto tale,che avvicinarsi a questo stile,è comprendere la vitalità del fare poetico di un Autore i cui testi non possono essere considerati e trattati come un tempo, ma adeguatamente inseriti nell’opera d’arte, così come la considerava Walter Benjamin, nell’epoca della sua riproducibilità.
Quello che mi sento di dire – dal mio approccio di lettura e dis-piegamento di un testo (poetico e no) che chiamo di Adiacenza – su questa sequenza di versi di Linguaglossa, ricca di sensi e sussulti, è che la poesia va sempre oltre le stesse idee e teorie che su di essa sono sostenute dall’Autore. La nota teorizzazione di Linguaglossa del frammento – come ultima e inevitabile forma che nell’epoca attuale accoglie e raccoglie la poesia – è smentita a mio parere da questo testo, che il commento di M. Colonna Filippone coglie molto bene nello svolgimento dei suoi sensi più (im)portanti.
Se il destino del frammento tende a cadere nell’abisso della perdita del senso, la creatività poetica degna di questo nome è la sua vendetta. E questa poesia lo è, proprio perché riporta ogni frammento – dal ricordo personale a squarci affascinanti di visionarietà che vanno oltre le esperienze e vicende personali – riprende e fa proprio il Tempo, l’oltre umano e l’angoscia del Nulla, utilizzando e rovesciando anzi quest’ultimo per farne il piede del Tutto. Senza il quale, senza la tensione ad esso, non c’è possibilità di ricostruire un senso, non il Senso ma un senso, che non è mai dato una volta per tutte, né può essere identico per tutti. Perché ognuno dovrà rifarlo, come il letto ogni mattino. Illusoriamente o meno, non ha importanza, ma senza quel gesto non riuscirà ad alzarsi e a procedere. Il poièin sta qui e anche questo testo di Linguaglossa lo dice e lo fa, avvolgendoci nella sua forma dalle cadenze e vibrazioni fredde, in apparenza disinteressate a farlo.
Ringrazio gli amici, Mario Gabriele e Adam Vaccaro e la presentatrice, Mariella Colonna per la sua puntuale descrizione della poesia. Il componimento inizialmente, 4 anni fa, si limitava alla prima strofa. È stata per 4 anni in dormiveglia, quando un giorno recentissimo, l’ho ripresa in mano dopo la lettura del racconto di Borges El Aleph, dal quale ho adottato il personaggio di Marco Flaminio Rufo, comandante di una coorte romana di stanza a Berenice di fronte al mar Rosso.
Sta di fatto che io da bambino fantasticavo di essere un soldato romano che combatteva per portare la civiltà nel mondo, insomma, le mie fantasticherie mi accompagnarono per almeno un decennio, fino all’età adulta. Poi, in quest’ultimo anno, questi ricordi si sono risvegliati (poeticamente) e mi sono identificato con quel bambino che giocava a palla a piazza Winckelmann a Roma nei primi anni Sessanta, davanti ai cancelli di una scuola dove, dopo la laurea ho fatto alcune supplenze di italiano. D’improvviso, tutto mi è diventato chiaro: quel comandante di coorte ero io (chi può contraddirmi?) era un altro «io» (ma non nel senso becero della trasmigrazione delle anime), il mio «io» è un frammento in mezzo ad altri miliardi di frammenti tra i quali c’è omeomeria, omeostasi, comunicazione, entanglement come tra due particelle sub-atomiche c’è corrispondenza anche se separate da milioni di anni luce. Ho capito semplicemente questo: che era giusto continuare la poesia indicando con precisione l’anno dalla fondazione di Roma nel quale quell’«io» comandante di coorte si imbarca per Berenice per sedare una immaginaria rivolta di agiri e garamanti In tal senso, la poesia è, a mio avviso, una poesia del «frammento», o di «frammenti» che viaggiano nell’onda del tempo, e ogni frammento abita la propria temporalità. Così la poesia vive nell’ambiguità e nel parallelismo di singoli «frammenti» distanti nello spazio e nel tempo da centinaia di anni. La poesia è la sconfessione della limitata concezione dell’«io» che abbiamo noi oggi del secolo XXI, l’«io» non è una monade senza finestre alla Leibniz ma è un’onda che viaggia nell’intertempo e nell’interspazio.
Non so se la poesia sia riuscita o no, sono sempre assillato da dubbi quando finisco una poesia, e vengo colto dalla insoddisfazione di non essere riuscito a dire quello che avrei voluto. In tal senso la poesia non è completa e non è compiuta, che aspetta sempre il suo complemento, proprio nel senso in cui lo intendo io il «frammento» come una quark di energia che viaggia nel flusso sonoro del tempo e dello spazio… Chi sono «io» per dire qualcosa sul mio «io»? A volte me lo chiedo.
Insomma, la poesia è un viaggio, il viaggio di un «frammento» che tra poco si estinguerà. Questo sono «io», un’onda in viaggio nell’ignoto. Un’onda irripetibile, unica. Se ci pensiamo un attimo, è straordinario: in ciò credo sta il grandissimo valore della vita umana e della vita in genere, proprio perché labile e furtivamente fugace.
Si tratta di un mistero incredibile. E la poesia, credo, ha senso se può sondare e perlustrare questo mistero incredibile, altrimenti è ciarla, chiacchiera da bar.