FUSARO MILITANTE DELL’IDEALE NEL REALE
Una riflessione su “Europa e capitalismo. Per riaprire il futuro” di Diego Fusaro
Roberto Caracci
Sappiamo come nei suoi libri precedenti, compreso quello su Gramsci, Fusaro abbia dato il suo inattuale riconoscimento all’Idealismo tedesco e italiano, e all’idealismo in genere, come capacità di far dialogare il reale con l’ideale. Evitando ovviamente sia un reale privo di modello ideale, sia un modello ideale privo di consistenza reale. L’autore traccia anche una storia dell’Utopia moderna, mostrando come il non-luogo si sia poi trasformato lentamente in un non-tempo o altro tempo: in tal caso in forma positiva, come rappresentazione di un tempo-mondo diverso, alternativo, favorito dal divenire della storia e dall’azione dell’uomo.
Ma ciò che importa per Fusaro, a prescindere dal peso oggi del tutto trascurato e da lui rivalutato dell’idealismo, è un approccio etico-culturale dove il dato di fatto –l’attualità della storia, il presente, il sistema consolidato- sia pensabile come modificabile, trasformabile, emendabile. Contro ogni fatalismo, come quello denunciato ontologicamente a suo tempo dallo stesso Fichte, ogni oggetto, soprattutto quello storico, deve essere pensato come ‘posto’, come prodotto di un ‘porre’, dunque rinviante all’azione di un Soggetto. Solo ciò che può essere ‘posto’ può essere passibile di una dis-posizione pratica ulteriore, di un ‘porre’ diverso e continuo, dunque di una storia vissuta liberamente dal soggetto che pone. Il cuore della filosofia di Fusaro resta questa insistita, cocciuta, appassionata messa in rilievo di un dovere insieme filosofico ed etico-politico: quello di non fatalizzare o naturalizzare la realtà, nella sua attuale condizione storica, di ricordare che l’oggetto è intriso delle scelte e delle volontà del soggetto, che è umano e non divino, appartiene al campo delle libertà e non della monoteistica necessità del mercato, ad esempio.
Ecco perché un’idea di Europa e di Capitalismo diversi, contro l’apatia e la rassegnazione anche realistico-nichilistica, o relativistico-fatalistica, è necessaria per smuovere la storia e riaprirla al futuro. Quella idealistica sembra per Fusaro, non solo per Fichte ed Hegel, per Gramsci e Gentile, una scelta etica, non solo filosofica. Come anche la scelta ‘dialettica’, importata direttamente da Hegel e anche da Adorno: scelta dialettica vuol dire scelta di movimento, di sviluppo, di modificazione del reale e della storia, dunque soprattutto del presente bloccato, sulla base del grande grimaldello della hegeliana ‘potenza del negativo’. Quel negativo che, al tempo del cosiddetto capitalismo dialettico o antitetico, quello della coscienza infelice e della lotta servo-padrone per il riconoscimento, scindeva borghesia e proletariato, come separava anche borghesia e capitalismo, mai più da allora ricongiunti. Prima che il capitalismo riserrasse in file compatte, dopo il ‘68 e l’’89, come capitalismo totale, sintetico, ab-solutus, perché sciolto non solo da ogni vincolo morale, sociale e politico, ma dalla stessa potenza dialettica del negativo, da ogni alternativa anche immaginata al suo illimitato espandersi oltre ogni metron del denaro e del desiderio, ogni misura. Siamo in una Europa capitalistica e neo-liberale, sembra dire Fusaro, dove l’ultimo delitto da realizzare, che spegnerebbe definitivamente la liberta dell’uomo e la sua prassi trasformatrice, è quello contro la dialettica, e la sua potenza del negativo. Le forze anonime della globalizzazione dilagano, ai danni dell’uomo come soggetto storico, ormai ridotto a massa passiva e televisiva, senza diritti tranne quello di consumare il consumabile pubblicitario,
L’uomo moderno, dice l’autore, è ridotto a ‘spettatore’ di una scena da cui in fondo è escluso, la scena del mercato del mondo, con giochi che lo sovrastano e lo attraversano, ma sono alieni dai suoi veri interessi e bisogni. E’ l’homo videns’: spectat ma non partecipa. Il paradosso è che crede di partecipare, e attivamente. Ma in fondo il cittadino moderno è solo la marionetta chiamata a rispondere, alla unica responsabilità del re-spondere: ovviamente il comando è segreto, non si sa da cosa e da chi arrivi l’appello, le forze del monoteismo di mercato, della teocrazia del capitale e del pensiero unico, della persuasione e della dissuasione al pensiero alternativo, sono occulte (almeno a chi non sa o non vuole vedere). ‘Odio gli indifferenti’, scriveva Gramsci. Un libro come Europa e capitalismo è scritto proprio, nella speranza dell’autore, per fare uscire molti dal sonno dogmatico, dall’ipnosi del capitale e della pubblicità, della rassegnazione post-moderna a Monsieur le Capital e al Mercato come destino.
L’Europa globalizzata, dice l’autore fin dall’inizio del libro, esautora gli Stati nazionali, e con loro le lingue (vedi il primato dell’Inglese), le culture e le ‘colture’, le tradizioni ecc. Ma fa anche del cittadino un individuo precarizzato, deterritorializzato, messo in concorrenza con disperati e immigrati più precari di lui, e che possono farsi sfruttare meglio, a più basso costo. La concorrenza e la competitività sono eufemismi usati per nascondere lo sfruttamento e l’alienazione della cosiddetta deregulation. La sovranità eurocratica della moneta e della finanza ha soppiantato le sovranità nazionali e quei diritti del cittadino per cui i suoi avi hanno lottano da secoli. L’euro, dichiara l’autore, non è una moneta ma un metodo di governo. Salvare l’euro? No, salvarsi dall’Euro. Si parla tanto dello spettro delle società fasci-naziste da seppellire, e non ci si accorge del lager economico (sic) in cui l’Europa è finita. Crisi dello Stato nazionale, della sovranità popolar, del welfare state, atomizzazione dell’individuo strappato alla società e al contesto, precarizzato e reso consumatore; un universalismo astratto che annulla le differenze, nel momento in cui esalta la pluralità e la felice diversificazione degli oggetti di desiderio possibile, pubblicizzati proprio ‘per te e per me’. Lo scenario da Monarchia Universale non è poi tanto diverso dall’uomo a una dimensione di Marcuse, solo che la teocrazia economia ci ha messo del suo, provando a inibire tutte le alternative al sistema globalizzato, addirittura a prevederle e neutralizzarle, o ritorcerle contro l’individuo renitente e resistente.
Quanto di teologico, oltre che di ideologico, vi sia nella fede nel Nomos del mercato, Deus Absconditus, Fusaro lo ribadisce spesso. Gli individui atomizzati e ridotti a consumatori, nel pulviscolo della globalizzazione e del Capitalismus sive Natura, vengono sballottati anche dalle false promesse della moda, che annuncia falsi mutamenti dentro l’immutabile, e false differenziazioni all’interno dell’omologabile (per individui quantitativamente diversi e qualitativamente uguali, cit). L’individuo può essere libero, sottolinea Fusaro, solo se l’intera società di cui è abitatore è libera.
E’ una società, questa, anti-utopica che desertifica l’immaginario e non lascia vedere chiaramente le sbarre della sua gabbia d’acciaio, per dirla con Weber. Non lascia vedere le possibilità della fuga, della libertà e della differenza, a meno che la cultura, compresa quella della prassi come azione trasformatrice della storia, non venga ripresa da ogni individuo come patrimonio inalienabile.
Bisogna ripartire dalla cultura, dall’idealismo che non dimentica la storia, dall’utopia possibile e da un’idea del futuro. La rivoluzione parte dalla ri-dialettizzazione di questo capitalismo speculativo, nel cui specchio fluttuiamo tutti un po’ come sonnambuli, demotivati e affogati nella paralisi, che tanto piace al sistema capace di dividere atomisticamente e di regnare.
Un sano idealismo de-fatalizza, ci riporta nella storia, ridona luce al futuro, alla possibilità, alla forza di trasformare il mondo. Riporta alla nostra sensibilità frastornata i valori della riappropriazione della prassi, del negativo, della speranza e della grandezza della storia come libertà, e non necessità che si naturalizza o diventa destino. Bisogna sviluppare una coscienza anti-adattiva, dunque capace di resistenza e ribellione, contro ogni neutralizzazione cinica e postmoderna degli impulsi a qualsiasi rivoluzione. Siamo nel divenire e dobbiamo, contro ogni determinismo storico camuffato, essere attori di questo divenire.
Il futuro non sarà mai nostro finché non ce ne riappropriamo, innanzitutto con la cultura, ma anche e soprattutto con la coscienza –che va educata- di un mondo mai solo dato, ma dato e trasformabile. Dove la prassi è coscienza e la coscienza è prassi.
Così si chiude questo appassionato libro di un filosofo giovane e ribelle, ma anche di un realistico idealista, o di un idealistico realista.