Il Padrelingua di Massimo Mori
Un incontro e una serata ricca di stimoli alla Libreria Popolare di Milano.
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Non capita spesso – ahimè – agli incontri, presentazioni e letture poetiche di passare ore che lasciano appagate le attese di ricchezza espressiva e culturale.
La serata di ieri, 18 dicembre 2015, alla Libreria Popolare di Via Tadino a Milano, a cura di Guido Duiella, non ha tradito invece le attese.
L’incontro era con Massimo Mori e Alessandra Borsetti Venier (venuti da Firenze), amici e consonanti operatori culturali da non pochi anni.
Massimo Mori è artista intermediale e performer, che non rimastica ma rigenera le invenzioni e le innovazioni ereditate in particolare dal ‘900, in forme che evitano cerebralismi pur proponendole in intrecci tra linguaggi (verbali e visivi) ricchi di pensiero critico e riferimenti etici. La ragione è che tali intrecci danno sostanza al vissuto onnicomprensivo, concretizzato nel proprio universo e corpo – inteso come soma corpomentale, non scindibile dalla complessa realtà socioculturale in cui vive.
In tale intreccio emergono perciò fattori relativi a memorie personali, a rapporti con la paternità nel processo fenomenologico di autopoiesi identitaria, al legame fondante con i luoghi di una città straordinaria quale è Firenze.
Il tutto è felicemente ricomposto – nel volumetto Frattali della poetica plurale di Massimo Mori, col titolo di Padrelingua. La Divina Commedia da mio padre studiata da me strappata e ricomposta, Firenze, Morgana Edizioni, 2015 – attraverso il proprio rapporto con Dante e la sua scrittura, con una operazione che è di rigenerante (ri)scrittura e di arte multimediale, compendiata in un video articolato tra levità e densità, parte costitutiva e non appendicale del volumetto.
Alessandra Borsetti Venier è la fondatrice e l’animatrice dal 1985 delle molteplici iniziative di Morgana Edizioni (www.morganaedizioni.it), tra le quali raffinati libri e oggetti d’arte (come questo di M. Mori) o di un prezioso Archivio delle voci di Poeti. Impegno, passione e ricerca di eccellenza che meriterebbe ben altra conoscenza e diffusione.
Sollecito perciò la lettura dei testi che seguono, di Stefano Lanuzza e Lello Voce, dedicati alle pubblicazioni richiamate. E che sviluppano con competenza diversi dei risguardi qui accennati.
19 dicembre 2015
Adam Vaccaro
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Massimo Mori, Premio Lerici-Pea 2014
per la “Poesia intermediale”
Massimo Mori
Performance per maschera e corpo. Dramatis personae (Avatar-Performer)
La prestigiosa Esposizione internazionale al Centro Pecci di Prato per l’Arte contemporanea (10 ottobre – 13 novembre 2010) segna un cruciale punto di passaggio di Massimo Mori che, dopo l’assiduo impegno in partecipazioni e performance a molti Festival internazionali di poesia verbovisuale, perviene a un’identità di vero e proprio ‘neoclassico’ con la grande Mostra “PERPOESIA” (21-28 settembre 2014) tenuta presso il Centro Arte Moderna e Contemporanea (CAMeC) di La Spezia.
L’evento è suggellato dalla consegna all’artista del Premio Lerici Pea per la “Poesia intermediale”. Intermediale – detta la motivazione del riconoscimento – “in quanto onnicomprensiva delle più moderne espressioni del ‘fare poesia’, ma anche in quanto ‘trasversale’ alle altre forme d’arte”.
Ciò che soprattutto intriga Mori, poeta-performer e maestro di Taijiquan (Tai Chi) fautore d’un armonico incontro fra vita e arte, sono le possibilità metamorfico-multidisciplinari e interartistiche della parola en poète. Parola che, originata dal segno, è forma o ‘cosa’ posta in dialettica con la scrittura o integrata nell’immagine (Picture-writing). Nella sua opera, insieme ai sistemi della scrittura, una funzione indispensabile l’artista attribuisce, poi, alle variazioni di significato del suono e della voce; e alla gestualità, all’azione, alla messinscena e perciò alla performance durante la quale la poiesis aderisce stabilmente al ‘fare’ ovvero al suo perspicuo significato di prassi amplificatrice del senso.
Ne risultano, tra l’altro – disposti in reciproca tensione combinatoria e nella prospettiva d’una ‘poesia totale’ o performativa –, con la serie delle versificazioni innestate da simboli, brani di stilemi tratti dal sistema dell’informazione, libere ortografie, montaggi di ritagli e frantumi tipografici. Col Poema Concreto Codex, il Liberto (libro quale metaforica espressione di libertà), il Poema video-sonoro Perdoindio, la Pietra-poema Stonefax. Fino al libro-oggetto Entropica evocante la confusione-distruzione dei codici della comunicazione, all’installazione Natura viva in ferro tela plastica cartoncino con un registratore-‘tappeto sonoro’ e alle ‘pagine-quadri’ o ‘da muro’ intitolate Risguardi e dedicate al Dialogo della salute (1910) d’un congeniale Michelstaedter.
Performer svariante tra poesia visiva e ‘in azione’, concreta e oggettuale, Mori pone in simbiosi i moduli e le iconografie di un’arte tecnologica ispiratrice anche della produzione di oggetti inediti. Lo fa sincronizzando l’esperienza delle avanguardie primonovecentesche (futurismo, dadaismo) con i temi dell’‘opera aperta’ teorizzata da Umberto Eco, la verbovisualità di Giuseppe Chiari, il plurilinguismo di Emilio Villa, l’intersemiotica di Miccini e Pignotti, le contaminazioni e cancellature di Isgrò, la ‘poetronica’ di Gianni Toti, i linguaggi pubblicitari e logico-scientifici della società industriale e dei consumi… Ed ecco, ancora, caricati della serena energia zen, un Libro-oggetto-librante, il “poema da strada” Liberto, libro e libertà, certi marchingegni-scultura o un’Olivetti portatile mutante in surreale ‘macchina celibe’. Fino a un captante Tavolino e sedia per l’ospite gradito riproducente le simbologie del ‘nero’ yin e del ‘bianco’ yang, rappresentazioni d’un ‘Doppio’ evocante non solo il tema degli Opposti, ma anche i motivi dello ‘sdoppiamento dell’Io’, del ‘Sosia’ o ‘Alter-ego’ e dell’‘Ombra’ (cfr., a tale proposito, l’opera Combattimento con l’Ombra): “Anche questo è muoversi nella filigrana intellettuale […] della “teoria degli opposti’” osserva Francesco Gurrieri introducendo il Catalogo Yin-Yang della memorabile Personale tenuta da Mori nell’aprile 2000 presso il fiorentino Centro d’arte Spaziotempo.
Stefano Lanuzza
Firenze, X.2014
Massimo Mori – Stefano Lanuzza Francesco Gurrieri
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Dal microcosmo fiorentino al macrocosmo della Commedia
Massimo Mori, flâneur nella città di Dante a 750 anni dalla nascita del Poeta
Firenze capitale dell’Italia negli anni 1865-1871 – la ‘capitale involontaria’ per la quale si abbattono il centro antico e le mura del Trecento –, tra le città più visitate e ammirate d’Italia, è nota nel mondo anche per avere dato i natali nel 1265 a Dante Alighieri, l’autore che presumibilmente nel 1307 inizia a scrivere quella Commedia dove si concentra la grande cultura del Medio Evo e si pongono le basi d’una lingua italiana dall’ortografia fino ad oggi immutata e che mantiene una sua pressoché integrale stabilità… Ci voleva il guelfo e poi ghibellino Dante perché la parola italiana cessasse di essere un dialetto del latino e diventasse lingua d’una nazione.
Nato tra Orsanmichele e Badia forse un martedì del 2 giugno, nel segno dei Gemelli, in una città che all’epoca è dominata dalla borghesia ricca e dai Ghibellini tornati al governo di Firenze nel 1260 dopo la battaglia di Montaperti, il poeta, già condannato al rogo dai suoi concittadini, muore esule a Ravenna il 14 settembre 1321. I fiorentini l’hanno condannato e allora lui, nel Canto XV dell’Inferno, così li maledice: “Ma quello ingrato popolo maligno/ che discese da Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno/…”. Così l’invettiva di Dante contro i fiorentini discesi dai rozzi fiesolani, “gent’è avara, invidiosa e superba”.
Massimo Mori si stabilisce a Firenze nel 1972, dopo essere stato, nel 1966, nei giorni seguiti all’alluvione del 4 novembre, tra gli ‘angeli del fango’ impegnati ad aiutare la ripresa della città. E mentre Dante – che si dichiara “fiorentino di nascita, non di costumi” – vive a Firenze solo 35 anni, Mori ci sta da ben più tempo (miha poho).
Inoltre, è proprio in questa città, meta di intellettuali e artisti provenienti d’ogni dove oltre che un riferimento delle arti d’avanguardia non solo italiane (Futurismo, Ermetismo, seguiti dalla Poesia visiva e tecnologica del Gruppo 70 dei Pignotti e Miccini), che Mori avvia il proprio impegno soprattutto di performer e poeta sperimentale e innovatore; fino a conseguire, nel 2014, il Premio internazionale “Lerici Pea” per la poesia intermediale.
L’insieme di tali e altri riferimenti è come compendiato nel video, corredato del volumetto Frattali della poetica plurale di Massimo Mori, recante il titolo di Padrelingua. La Divina Commedia da mio padre studiata da me strappata e ricomposta (Firenze, Morgana Edizioni, 2015).
C’è stato un tempo in cui, a volte, da bambino, Massimo si è sentito in qualche modo trascurato dal padre insegnante forse troppo dedito ai propri interessi culturali e assiduo studioso del poema dantesco in un’edizione del 1938: che il genitore compulsa e annota con scrupolo costante e, sembrerebbe, quasi esclusivo. “Da bambino, mio padre mi leggeva la Commedia e io non ascoltavo” ricorda Mori… Passano diversi decenni e, nel 2004 scomparso il padre, capita allora che un giorno egli recupera quella copia consunta già causa di frustrazione, e in un impeto di rabbia ne lacera le pagine, come tanto tempo fa il suo animo.
Il poeta Mori, senza volerne fare un caso d’accademia psicanalitica ma risolvendo ‘in poesia’ (en poète) il proprio antico sentimento d’esclusione, quelle pagine ricompone, ricucendole in una “filografia”, i passi interrotti ora metamorfosati in frammenti, reliquie o metareligiose particole per un pacificato incontro di riconciliazione o forma di laica comunione col padre. Ne consegue uno smontaggio per il quale si vengono a creare nuove relazioni testuali e inedite composizioni e ricostruzioni. In seguito, tali frammenti, disposti in una sorta di tracciato per un percorso neoconoscitivo, vanno a formare una sorta d’insolita toponomastica della città di Firenze.
Ora, nel video, ecco Mori ripreso nel suo itinerario fiorentino, con punto di partenza Piazza Santa Croce dominata dall’imponente statua di Dante che, da giovane, presso i francescani di Santa Croce, studia grammatica e filosofia.
È una statua che, inaugurata il 14 maggio 1865, rappresenta un Dante puramente immaginario: si sa infatti che, così come non esiste una copia autografa della Commedia, nessuna immagine del poeta corrisponderebbe al vero. “Pare comunque” scrive lo studioso Pino Miglino “che Dante fosse basso e di carnagione olivastra. Ebbe problemi agli occhi per il troppo studio. E c’è l’ipotesi che i mancamenti di cui si lamenta spesso nei versi siano ispirati da una sua patologia reale, l’epilessia” (“ST. Storia & storie di Toscana”, n.18-19, aprile/ maggio 2015).
Nei secoli, è alterna la fortuna della Commedia che se nel Trecento è considerata una sorta di summa scientifica e nel Quattrocento una ‘Bibbia’ dell’Umanesimo, viene rimossa dalla cultura rinascimentale (il petrarchista Pietro Bembo, nelle Prose della volgar lingua, 1925, definisce Dante poeta “grave e senza piacevolezza”). Contrapposto, nel Seicento, alla poesia del Tasso e del gran barocco Marino, Dante viene genericamente bollato come poeta barbaro e arcaico. Così, bisogna aspettare il Settecento per riconoscere nel poeta della Commedia il vero ‘padre’ della lingua italiana.
Finché, nell’Ottocento, il Romanticismo consacra Dante quale genio del Medioevo e la Commedia un’opera tra le maggiori delle letterature del mondo. In questo secolo, tra le tante opere dedicate in Europa al poema dantesco, si ricordi il Discorso sul testo della Divina Commedia (1825) nel quale Ugo Foscolo, oltre a proporre un’interpretazione filologico-stilistica del testo, offre una convincente critica del sistema storico, religioso e filosofico dell’epoca di Dante, figura, secondo Foscolo, di moderno poeta-vate.
Quello del poeta-critico, ossia di un poeta fatto critico dal proprio stesso totalizzante impegno, è poi il Dante presentato nel 1870 da Francesco De Sanctis nella sua magistrale Storia della letteratura italiana.
Giungendo al Novecento, Benedetto Croce, in una sua complessa testimonianza (La poesia di Dante, 1921), distingue un Dante ‘impoetico’ (allegorico, teologico, moralista) e un Dante poeta puro. Il quale, definito da Edmond Jabès “un poeta di ieri e dell’avvenire”, è da Witold Gombrowicz così interrogato: “Spiegaci, o Pellegrino: come dobbiamo fare per giungere a te?” (Sur Dante, 1969).
Infine, come non ricordare un raro scritto di Ezra Pound, stampato da Marsilio (Dante, 2015, a cura di C. Bologna e L. Fabiani), e i Cantos che evocano spesso la Commedia? Ama Dante, Pound; però è infastidito da una Firenze che definisce “la più dannata città italiana dove non c’è posto per sedersi, stare in piedi o camminare”.
Col passo erratico del moderno flâneur metropolitano, diversamente dal Dante ramingo nell’Italia del Nord, adesso Mori percorre solitario e senza fretta le vie cittadine mettendo a fuoco la realtà dintorno. Giungendo da Santa Croce, percorre il lungarno, costeggia Ponte Vecchio, incrocia la Biblioteca Nazionale Centrale e Piazza della Signoria, il Corridoio degli Uffizi e il Duomo, Palazzo Strozzi e Palazzo Medici Riccardi, Piazza della Repubblica con il Caffè delle Giubbe Rosse di cui è stato l’animatore culturale per oltre un ventennio (è lo storico, famoso Caffè luogo d’incontro di Papini e poi dei Vittorini, Gadda, Montale, Landolfi, Luzi, Bigongiari e tanti altri artisti e letterati tra i maggiori del Novecento)… Il suo è un percorso scandito da soste dove il recupero della Divina Commedia è rappresentato dalla lettura di quelle pagine da parte d’ideali compagni di strada e poeti, tutti lettori dei versi di Dante detto da Cino di Pistoia “Signor d’ogni rima”… Ne nasce, in un collettivo mantra, un coro scandente gli indimenticabili versi del poema dantesco: con le voci di Julien Blaine, Tomaso Binga, Martha Canfield, Bartolomé Ferrando, Milli Graffi, Giulia Niccolai, Endre Szkarosi, Giovanni Fontana, Lello Voce, Mariella Bettarini, Alessandra Borsetti, Luigi Fontanella, Enzo Minarelli, Marco Palladini; con Kiki Franceschi che legge Dante mentre sul muro alle spalle di un’immagine di Mori s’intravede una casuale scritta d’ignoto perfettamente in tema con l’eternale attualità dell’autore della Commedia: “Passa solo il tempo, il poeta resta”… S’odono, intanto, le note del Pulse prelude di Albert Mayr.
Provvisorio punto di sosta o ‘stazione di posta’ dell’errabondo flâneur Mori, testimone versatile d’una “poetica plurale”, è l’antico Circolo degli Artisti “Casa di Dante” nato nel 1843 e diretto, oggi, da Graziella Marchini, artista figurativa e giornalista… Qui, nella casa degli Alighieri situata tra la Torre della Castagna e la Parrocchia di San Martino del Vescovo, vediamo le pagine strappate transustanziarsi in icone, opere verbovisuali, “pagine da muro” dove la lingua-madre fondata da Dante si rispecchia nella “poesia strappata” e convertita da Mori in “Padrelingua”. Ed è così che il figlio dello studioso della Commedia si fa figlio del ‘padre’ della lingua italiana: del “Padrelingua”, appunto.
Partito dal monumento dedicato a Dante in Santa Croce, è infine ad esso che Mori, ‘poeta in azione’, torna concludendo la sua promenade perfettamente circolare. Come significando che circolare, ossia onnicomprensivo e onniavvolgente come nel cosmologico Dante, è il pensiero della poesia.
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15 ottobre 2015
Strana sorte quella delle cosiddette
AVANGUARDIE IN POESIA
su Massimo Mori e Arrigo Lora Totino
Mentre nelle altre arti il loro segno è rimasto, in qualche misura, indelebile e nulla dopo è più stato lo stesso, in poesia, invece, nonostante Futurismo, Cubofuturismo, Dada, poesia sonora, visiva, concreta, Fluxus, tutto sembra sempre tornare a quel punto di partenza del Moderno che è il verso-liberismo lirico e sostanzialmente simbolista.
Come un vecchio vinile, che sia rimasto incantato su un solco graffiato, incapace di riprodurre la frase successiva, il mainstream poetico italiano ripete ossessivamente la stessa solfa, sia pur modulata in numerose e diverse sfumature.
Certo, come riproporre, oggi, le ricette futuriste? Come sfuggire al paradosso che le ha rinchiuse nel Museo? Ovvio: nell’epoca dell’ormai è stato già tutto fatto, il problema di épater les bourgeois non si pone: nemmeno ci sono più les burgeois… Ecc… Eppure, in poesia, tanto e forse ancor più che nelle altre arti, appare evidente come – scrostato dalle evenienze storiche, dalle allure ‘militari’ e dalle illusioni ingenuamente ‘progressive’ e storiciste – ciò che han fatto le Avanguardie lo fan tutti, da sempre.
Tutto il susseguirsi delle differenti poetiche che, nella lunga storia della poesia occidentale, giungono da una ‘periferia’ per conquistare il centro della semiosfera poetica, altro non è che un succedersi di successive novità, di ‘avanguardie’ che spazzano il campo dal passato e sperimentano e poi impongono nuovi parametri estetici.
Sto dicendo proprio questo: che la Tradizione, in fondo, è solo genealogia delle Avanguardie.
Né sono il primo a leggere caratteristiche d’avanguardia, ad esempio, nello stilnovismo, con i suoi ‘fedeli d’amore’, ben coscienti delle condivise novità, né, peraltro, mi sembra diversa l’operazione di innovazione e poi colonizzazione delle forme e dei loro aspetti simbolici tanto magistralmente realizzata da Petrarca.
Se inizio qui un discorso tanto complesso da non potersi certo sviluppare in questa sede, è per introdurre l’opera di due ottimi poeti, spesso considerati d’avanguardia proprio per potersi più facilmente liberare della loro ingombrante presenza, respingerli ai margini della poesia (mentre, invece, ne sono al centro) e tornare alle rassicuranti pagine del libro, sempre uguali a se stesse, mentre invece il loro legame con la, o meglio le Tradizioni è fortissimo e assolutamente pregnante.
Massimo Mori è uno dei più raffinati autori italiani (Premio Lerici Pea per la poesia intermediale 2014), strettamente legato a un’idea di ‘poesia totale’ che non intende negarsi alcun aspetto di quest’arte plurale.
Esce in questi giorni il suo Padrelingua, libro + dvd (Morgana ed.) che proprio a Dante ritorna e da Dante riparte. Non a caso alla Casa di Dante, a Firenze, è stata ospitata la mostra omonima che accompagna il libro.
Si tratta di una complessa e affascinate operazione di trasformazione del testo dantesco in opera di poesia visivo-concreta a partire da una vecchia copia della Commedia, usata dal padre, che viene prima strappata e poi ricomposta all’interno di una serie di schemi disegnati dalle parole di Mori stesso, con un’allusione evidente a quella frammentazione della conoscenza indotta dalla digitalizzazione globale del sapere.
Il compito del poeta, allora, come quello dell’architetto romanico, sarà ricostruire dai frammenti, riedificare con le rovine. Ma Mori è autore pluriverso e per lui la poesia non sta solo nelle operazioni ‘concrete’ e visive, immobilizzate sulla tela, o sulla carta, ma anche nel corpo stesso del poeta nella sua gestualità che percorre lo spazio e lo descrive, facendolo apparire dove prima sembrava ci fosse solo il vuoto.
A partire dalle tecniche e dalla prossemica raffinata e antichissima del Tai Chi, di cui è maestro, Mori costruisce performance complesse dove voce, parola, gesto si fondono, come nella sua più nota tra esse, Combattimento con l’ombra: ancora una volta antica tradizione e spericolata sperimentazione si fondono per trovare nuovi equilibri di senso. Ma – e proprio a causa del già citato paradosso che infine imprigiona l’Avanguardia nel Museo – esiste ormai una ‘tradizione delle avanguardie’ ed è a essa, nella sua globalità pluriversa che si è rifatta da decenni l’esperienza poetica di un ‘grande vecchio’ come Arrigo Lora Totino: per mescolarne tutti i fili, intrecciarli, farne nascere nuove radici, saltando, senza imbarazzo alcuno (e sempre sulle ali di quella che definirei una ‘celeste ironia’) dal futurismo a Dada.
A lui, in occasione della mostra antologica tenuta alla Barriera di Torino a settembre, è dedicato lo splendido volume collettaneo Arrigo Lora Totino – La parola come Poesia Segno Suono Gesto. 1962-1982 (Danilo Montanari ed.), a cura di Giorgio Maffei e Patrizio Peterlini, rassegna vasta e arricchita da centinaia d’immagini e foto che fanno un bilancio vastissimo della sua opera.
Partito da esperienze pittoriche, Lora Totino si è poi subito convertito alla centralità della parola, non solo riprendendo e arricchendo la tradizione futurista (inventa un ‘idromegafono’ per produrre poesia ‘liquida’, ma anche altre macchine sonore come il ‘Tritaparole’ e il ‘Mozzaparole’, è l’iniziatore della ‘poesia ginnica’ che di fatto riporta per la prima volta in Italia la gestualità nella poesia), ma soprattutto svolgendo una vasta complessa attività di poeta ‘concretista’, lavorando sul corpo delle ‘lettere’, sul loro supporto materiale – il segno grafico – colorandole, stirandole, facendole vorticare nello spazio e raggiungendo risultati di assoluto valore che lo renderanno tanto conosciuto nel mondo quanto guardato con sospetto in Italia.
Le sue fotografie ‘dinamiche’ fanno diventare la poesia-performance una macchina capace di produrre arte anche dopo, quando l’evento è passato, con i loro scatti ‘mossi’, accordati con lettere e brevi parole che continuano a rivolgersi allo spettatore. E poi sempre a lui si deve la fondazione di riviste importanti per la sperimentazione poetica internazionale, come “Modulo” e “Antipiugiù”.
Insomma, un vero Maestro e che si parli ancora così poco di lui qui da noi, non è che la riprova che, come il Maggior nostro nel Convivio, Arrigo ha scelto per sé un pubblico che ancora non c’è, ma certamente presto ci sarà. A ricordarci, per tornare da dove eravamo partiti, che il padre di tutte le avanguardie in poesia è proprio lui, colui che ha fondato anche il Canone: Dante.