La Metamorfosi della Finzione

Pubblicato il 11 novembre 2015 su Recensioni e Segnalazioni da Maurizio Baldini

Antonio Sagredo La Metamorfosi della Finzione nella poesia DUE POESIE EDITE da “Poems” Chelsea Editions 2015 con POESIE INEDITE E UNA TRADUZIONE di Wystan Hugh Auden

Commento di Giorgio Linguaglossa

Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo A. Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.

La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.

Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale). Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema Tumuli di Josef Kostohryz, pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. Alberto Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi: Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. Alberto Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. Alberto Di Paola e Katerina Zoufalová).

Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche.

Su «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. Alberto Di Paola e Katerina Zoufalová. Nel 2015 pubblica Poems Chelsea Editions, New York.

Commento di Giorgio Linguaglossa La Metamorfosi della Finzione

Auden: “Ho il sospetto che senza qualche sottofondo comico / oggi non sia possibile scrivere genuini versi seri” (Shorts)

Antonio Sagredo è un autore completamente inedito in Italia, tradotto e apprezzato in Spagna, è quasi sconosciuto in patria. Dopo aver compiuto gli studi di slavistica all’Università la Sapienza di Roma ha lavorato presso la Banca d’Italia. Ho visto alcune foto che lo ritraggono con la Compagnia teatrale universitaria degli “Skomorochi”, nel teatro “Abaco” di Roma, diretta da Angelo Maria Ripellino, agli inizi degli anni Settanta. Lui è in prima fila, con gli occhi cerchiati di bistro, metà Arlecchino e metà Pierrot. D’improvviso, ho capito: Sagredo è una «maschera», non è un mortale, è caduto nella poesia italiana contemporanea come un alieno meteorite dal pianeta Marte, la sua è la poesia di un marziano. Irriconoscibile, inimitabile, invulnerabile. Sagredo ha sempre mantenuto un atteggiamento di ostilità nei confronti del ceto letterario italiano, e ne è stato, per così dire, ampiamente ricambiato con un silenzio che non sappiamo se di neutralità e cinismo o semplicemente di neghittosità. Fatto è che lungo cinquanta anni di solitario e inedito percorso poetico Antonio Sagredo si è cimentato in un itinerario irrituale e algebrico, insomma ha fatto di tutto per rendersi stilisticamente inclassificabile, irricevibile e inospitale.

È stato detto da alcuni commentatori che c’è un costante barocchismo nell’impiego dei retorismi e delle immagini nella poesia di Sagredo, un mix di alleluia cantarellante e di maledettismi blasfemi, di ipocondrismo e di elettricità che rende i suoi testi altamente godibili, ignobili e, ad un tempo, respingenti, repulsivi, come percorsi da una sottile trama di nervi sensibilissimi e cattivi che captano le minime rifrazioni quantiche dell’ambiente insonoro. I suoi versi sono onde sonoro-magnetiche autorespingenti, irriverenti, derisori, impostori, sono sfollagenti che intimidiscono e irritano; interno ed esterno sono capovolti, così come convesso e concavo, riflesso e irriflesso; è presente in questa poesia un qualcosa simile ad una forza de-gravitazionale generale del suo sistema solare, come se agisse un quoziente di perdita in direzione dell’implosione lessicale e stilistica. Una simmetria del disordine e una asimmetria del disordine.

Mi chiedo chi oggi in Europa può permettersi di scrivere con la libertà e la genialità di un menestrello e di un alchimista, di un fool e di un mago, così:

La città aveva ciglia violette. Di mattino, finestre e corvi danzavano,

sottovoce parlavamo dei labirinti, ma la rugiada invecchiava, vanità

delle lune!

La poesia di Sagredo avvalora il noto assioma di Adorno secondo il quale «la poesia è magia liberata dalla necessità di essere verità». La poesia di Sagredo attinge la più alta vetta di «verità», appunto denegandone ogni residua qualità; non c’è nessuna «qualità» per Sagredo nel suo ergersi a «verità». La poesia di Sagredo è menzogna e sortilegio, alchimia e mania, fobia e follia, non c’è via di mezzo o di scampo: o la poesia c’è, o non c’è. Sono più di trenta anni che Sagredo è assediato, ossessionato dalla poesia. La sua ossessione è una malattia liberata dalla magia di essere verità.

Poesia inimitabile perché sembra zampillare da una fonte sconosciuta, anzi, dirò di più, sembra che essa non appartenga alla tradizione italiana (forse c’è in filigrana, ma molto lontano, all’orizzonte, la poesia di Angelo Maria Ripellino); il problema dell’ampio spettro lessicale e semantico è tale che nessun altro poeta italiano del Novecento italiano può esserle ragguagliato, nessuno ha le capacità balistiche e cabalistiche di «giocare» con le parole e di portarle, di colpo e di continuo, dalla fogna all’empireo… di parlare come un Savonarola infrollito e un Torquemada travestito. È un fatto che la poesia di Sagredo sembra provenire da un altro pianeta e sembra trascritta da un’altra lingua, quella di un marziano che abbia della confusione in testa e che non riesce a translitterare le parole dalla sua eccelsa lingua nella nostra povera, prosaica, umana e terrestre.

Antonio Sagredo da Poems Chelsea Editions 2015 Due poesie edite

Ho costretto la parola a vivere

sotto i ponti rugginosi di umide orbite

dove le lagrime sono il metallo fuso della ragione.

Sono vissuto levitando il mio pensiero esatto

mentre il mare divorava i miei occhi insensati.

Il verdetto oppose un forse al tribunale della memoria.

E scoppiarono macelli di rime nei riformatori

strapparono l’incanto ai come di sofferenti metafore

sinistri untori segnarono a sangue la parola viva!

Smorfie d’universi… denti invisibili… non-materia…

Energia, sei oscura… il numero è caduto nei suoi misteri!

Tutta la fisica dei secoli passati è franata

in coriandoli

in filastrocche di bordelli.

Danza il futuro nel serraglio di Erodiade!

Con quali passi tumefatti ho tagliato gli ormeggi?

Con quali languide parole ho cantato: crack… crack… crack?

Roma, 7 aprile 1971

*

Farsesco

Passavo di cantina in cantina

le notti

tra le rosse strade di Scipione,

ieratico, sotto quei lampioni indifferenti,

poi che Roma non ha una mortalità decente.

voce:

e tu, dio, che invano guardavo negli occhi

attratto dai tuoi specchi inaccessibili

volgevi altrove i tuoi interessi divini,

come una donna accetta altri amori.

altra voce:

ma il tuo amore nessuno lo canta,

contro tutti e contro tutte

leverò le mie ossessioni

sarò… nella mia follia… un semi-serio!

Oggi è la festa della Saggezza:

ho letto tante volte i Cantici

e sono stato ucciso mille volte, come i Cesari!

Roma, maggio 1981

Antonio Sagredo Poesie inedite

Quando sazio della lira sposo il gelo

in un sonno di calce sottoterra,

il sudario è una rivolta contro le mie ossa.

Sudario, è qui il punto circoscritto

–  prima della vita c’è un’altra morte –

l’eredità s’è dipinta sulle labbra un testamento:

la possanza eretica di quel cardo suicida!

*

Non offrirò più istanze a un Dio estremo,

il ferrigno secolo è già morto sulla soglia.

È una fede che sopporto prima della mia rovina,

per te decreti il futuro e i rintocchi.

*

Quando giungerà il terribile natale di scintille e di tragedie

assetate i commensali con fiumare di acque feniche!

Gli zoccoli s’appestano in un silenzio di galoppo,

i sentieri hanno un volto equino come i quattro candelabri.

Leviteranno tumuli di anatemi in tumulti di calunnie,

ma noi brinderemo ai miti che hanno scavato un vuoto oblio!

*

Quella mia morte che io non vedrò mai esiliata,

affamata come una metafora geografica

griderà: sapete, l’infinito ha le ore contate!

Tutti i numeri crolleranno come antichi imperi!

*

Una volta lo spettro di noi stessi ci faceva vivi o disumani

perché un addio non fosse solo un incendio da domare,

e mi seduce il contagio che sopporta la rovina della carne,

– e più di tutte le sciocchezze temo il ferino oltraggio

e lo stupore che il coito sia meno di un prezioso, o vano istante!

*

Il mio Testamento fu ed è un Dedalo dove  Pizie e Arpie

reclamano dagli Ordini la mia dissipazione, e il Canto

d’una  parola che crocefissa manca un fine non spiegato

o assenta il Fondamento che la genera e la nega sussistente.

Di monili e armille il tuo sangue mi risuona allarmante

e la mente ci divide interdetti per i tuoi conforti, e mi è caro

il quadro di un atto che io non posso recitare dal Carmelo,

ma il tuo corpo sul capezzale è approntato per festini!

Wystan Hugh Auden

Funeral blues

Distruggete gli orologi

distruggete i telefoni

e ai cani date ossa perché stiano tranquilli,

che i pianoforti siano muti

e smorzate le note,  scoprite la bara

e che entrino gli amici addolorati.

Che gli aerei scrivano tristi nei cieli

lui è morto,

sia ornato di crespo  il bianco collo dei piccioni

cittadini e neri guanti abbiano  i vigili.

Lui era i miei punti cardinali

i miei sei giorni lavoro

la mia pigrizia domenicale

le mie  notti e i miei giorni alle dodici,

il mio cantare e parlare,

pensavo all’eternità dell’amore: che sbaglio!

Decapitate le stelle

offuscate il sole

incartate la luna

che gli oceani siano svuotati

distruggete le piante

ormai non c’è che il nulla!

(traduzione libera di  Antonio Sagredo –

Roma 7 novembre 2015)

Wystan Hugh Auden

Funeral blues

Stop all the clocks, cut off the telephone,

Prevent the dog from barking with a juicy bone,

Silence the pianos and with muffled drum

Bring out the coffin, let the mourners come

Let aeroplanes circle moaning overhead

Scribbling on the sky the message He Is Dead,

Put crêpe bows round the white necks of the public doves,

Let the traffic policemen wear black cotton gloves.

He was my North, my South, my East and West,

My working week and my Sunday rest,

My noon, my midnight, my talk, my song;

I thought that love would last for ever: I was wrong.

The stars are not wanted now: put out every one;

Pack up the moon and dismantle the sun;

Pour away the ocean and sweep up the wood.

For nothing now can ever come to any good.

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