Cibi del cambiamento – Testi

Pubblicato il 6 novembre 2015 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

Cibi del Cambiamento – BookCity, ChiAmaMilano, 23 ottobre 2015

Cibi del Cambiamento

Seguono i testi pervenuti e letti nel corso della manifestazione richiamata.

Letture di Laura Cantelmo

Sera di festa

Arioso coro di grilli,

vino e cibarie arrostite.

Sera di festa al mare.

Il vino ci indusse a parlare,

cose che fanno male,

i crocicchi della storia, misfatti

e tradimenti – la differenza

tra il cicaleccio dei salotti

e il dito teso agli antri

della memoria.

Con uno sorriso sghembo la lady

di ferro e il suo guitto sodale

ci hanno precluso qualunque

paradiso.

Qualcuno disse – che bello, noi post

ideologici,  noi post moderni,

noi per sempre post, non ci dovremo

più schierare.

Dietro le spalle, il ghigno

occhiuto degli scherani del nuovo

sistema mondiale indicava i nodi

insoluti di un popolo imbelle.

La rapsodia dei grilli cullava

la luna sotto le prime stelle,

il mare sciabordava nel  blu

terso della volta celeste.

Cercare è continuare

a nascere, pensai. Nella festa

notturna l’onda ci spiava

dietro l’aglio selvatico e i capperi

carnosi. In spregio alle laboriose

formiche una cicala tardiva cantava.

Domani, pensai, domani.

Cercheremo ancora. Domani.

Laura Cantelmo

Poesie di Mahmoud Darwish

A mia madre

Ho nostalgia del pane di mia madre del caffè di mia madre della carezza di mia madre. Diventa grande in me l’infanzia giorno dopo giorno e mi attacco alla vita perché se dovessi morire sarei mortificato per il pianto di mia madre.

Fai di me, dovessi un giorno ritornare, stola per la tua frangia. Coprimi le ossa di erba fatta pura al tuo passo. Legami con un ricciolo di capelli con un filo che spunta dell’orlo della veste tua così che io diventi un dio un dio divento se il tuo cuore sfioro. Mettimi, se ritorno, alimento nel tuo fuoco corda del bucato sul terrazzo di casa tua ché io vacillo senza la preghiera del tuo giorno. Sono invecchiato, riporta le stelle della fanciullezza per ritornare come tornano gli uccelli al nido della tua attesa.

*

su questa terra

…Potete legarmi mani e piedi

Togliermi il quaderno e le sigarette.

Riempirmi la bocca di terra:

la poesia è sangue del mio cuore vivo

sale del mio pane, luce dei miei occhi.

Sarà scritta con le unghie, lo sguardo e il ferro, la canterò

nella cella della mia prigione,

al bagno,

nella stalla,

sotto la sferza,

tra i ceppi

nello spasimo delle catene.

Ho dentro di me un milione di usignoli

Per cantare la mia canzone di lotta.

(1982 – attacco al Libano)

*

Da Una nuvola nella mano

Bastano sette spighe a guarnire la tavola dell’estate.

Sette spighe nelle mie mani. E in ogni spiga

il grano fa spuntare le messi.

Mio padre attingendo acqua diceva al suo pozzo:

non prosciugarti e mi prendeva

per mano perché mi vedessi

crescere come la portulaca.

Cammino sull’orlo del pozzo: ho due lune,

una alta lassù,

l’altra giù che nuota. Due lune

sicure della verità

delle Leggi, come gli antichi.

***

Letture di Annamaria De Pietro

Barberia

Io ho dita leggere

e il pollice opponibile

come l’astuta bertuccia

sull’organetto di Barberia

in tocco verde e giacchetta rossa

che batte la melodia

veloce, di mossa in mossa,

leggera – le dànno frutti e li sbuccia

a tempo – cosí perdiamo il terribile

tempo, opponendogli vere

e false – melodie – cosí si possa

sbucciare a nostro piacere

associazioni libere.

Semi,

ovvero

L’infinita matassa della voce

Fonda dorme feroce

la soprastante regola dei semi

che il vento non contrasta quando passa

tutto il filo dell’aria e va veloce

di giardino in inferno. Fonda scassa

la resistenza della terra, e sfonda,

piano battendo gli ossi delle dita

non verdi ancora come stretti remi

molati al taglio di forbici a croce

di sale in gemma. E non perderà l’onda

per quanto il tempo strecci i suoi teoremi

feroci in cielo e in terra l’infinita

matassa della voce.

La trecciolina

Il calcolo s’intriga

nella trama del duro

pallottoliere, treno

elusivo di doppia

e riversa carriera.

S’intrigano le dita

tra l’ordito d’impuro

cespo che volta a fieno

nell’estate che scoppia

primavera tradita.

Tutto scarta la destra

impaziente, e si svita

prima che volti a stoppia

la treccia, la leggera

trecciolina che oscuro

giro volge a sereno –

che fidanza e marita

dentro un’unica cesta

serenissima coppia

l’episteme e la spiga.

Disvolontà per fiorire una rosa

Se lo potessi, potrei arare il mondo

fino a farne un gran campo di foraggio

dipinto di trifoglio e di fiengreco,

ma poi, se penso al tristissimo spreco

di sementi di rosa morte al maggio,

credo sia meglio non volere, in fondo.

Il rizoma

A eventi piuccheperfetti una talea

gemma d’imperfezione scosta, un tralcio

che volta tutte le foglie a un oriente

impaziente, irredento, e dunque passa

volo di starna per le lunghe righe

dello spazio migrante, e a un salto, a un calcio

cambia casacca il mare delle spighe,

e scioglie la verdissima matassa,

e la riaccoglie, lieve sfrido al niente,

il rizoma di terra estro a un’idea.

MARIANNE MOORE,

letta da Annamaria De Pietro

Testi da Marianne Moore, Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi Edizioni, Milano 1991

La poesia

Neanche a me piace.

A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre,

dopo tutto, uno spazio per l’autentico.

Di questo testo esiste una versione più lunga, riportata per intero in nota, di cui trascrivo un brano:

….

né mai potremo avere poesia

se i poeti tra noi non diventano

« letteralisti dell’immaginazione » – superiori

all’insolenza e alla volgarità, disposti a sottoporre

a ispezione « giardini immaginari con rospi veri dentro ».

….

New York

la saga del selvaggio,

stratificata dove lo spazio ci serve per gli affari –

il centro del commercio all’ingrosso delle pelli,

costellato di tende d’ermellino e popolato di volpi,

i lunghi peli esterni che ondeggiano due dita sopra il corpo della bestia;

il terreno chiazzato di pelli di daino – bianche con le macchie bianche,

« al modo che un ricamo di raso, in un solo colore, può avere un disegno variegato »,

e piume avvizzite d’aquila, ammucchiate dal vento e già indurite;

e strisce di pelle di castoro; bianche, pronte ad accogliere la neve.

Mille miglia dividono la « regina tutta ingioiellata »,

il bellimbusto con il manicotto

e il cocchio dorato simile a una bottiglia di profumo,

dalla confluenza del Monongahela con l’Allegheny

e dalla filosofia scolastica delle foreste vergini.

Non già la copertina da romanzo a dispense,

le cascate del Niagara, i cavalli pezzati e la canoa da guerra;

non già quello sdegnoso « se la pelliccia non è più elegante

di quella che si vede addosso agli altri,

è meglio farne a meno » –

che, se fosse tradotto in carne cruda e bacche, noi potremmo sfamarci l’universo;

non l’atmosfera di estrosa avidità,

le pelli di lontra, di castoro e puma

senza armi da fuoco e senza cani;

non è questo che conta, né il saccheggio,

bensì « il libero accesso all’esperienza ».

Eppure

tu hai visto una fragola

che ha dovuto combattere; là dove

i frammenti si sono radunati,

c’era un porcospino o una stella

di mare, tale era la moltitudine

dei semi. Quale cibo migliore

dei semi della mela – il frutto

dentro il frutto – compatti e chiusi

come due nocciole strette nel guscio

curva contro curva? Il gelo, che uccide

le piccole foglie lattiginose

sugli steli del kok-saghyz, non può

ferire le radici; ed esse crescono

nel terreno ghiacciato, senza sosta.

Una volta, là dove una foglia

del fico d’India si aggrappava al filo spinato,

germogliò una radice che s’immerse

per due piedi nel suolo sottostante;

e le carote formano mandragole

o qualche volta una radice simile

a un corno d’ariete. La vittoria

non verrà a me se io non vado a lei;

e un viticcio verde si avviluppa

e fa nodi su nodi fino a quando

non si sia annodato trenta volte –

così il ramo legato sopra e sotto

è imprigionato e non può più muoversi.

Ciò ch’è debole vince la minaccia

che porta in sé, e ciò ch’è forte vince

se stesso. C’è qualcosa che uguagli

la saldezza? Che linfa è mai salita

per quell’esile filo

a tingere di rosso la ciliegia!

***

Letture di Maria Carla Baroni

Ho scelto come riferimento Gioconda Belli,  rivoluzionaria, femminista, scrittrice e poeta.

Nasce a Managua nel 1948 da una famiglia dell’alta borghesia nicaraguense di origine italiana. Fa conoscere le sue prime poesie nel 1970, anno in cui fonda, con un gruppo di intellettuali che si oppongono al regime dittatoriale di Somoza, la rivista “Ventana”.

Nello stesso anno aderisce al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, allora clandestino. Perseguitata dalla polizia somozista, va in esilio in Messico e in Costa Rica eludendo la condanna a sette anni di carcere inflittile dal tribunale militare. Ha fatto parte della Commissione diplomatica del F.S.L.N all’estero. Dopo il trionfo della Rivoluzione Sandinista nel luglio 1979 ritorna in Nicaragua, dove svolge vari importanti incarichi per il governo rivoluzionario. Nel 1994, a causa di divergenze politiche, esce dal Fronte Sandinista con una poesia-documento. Nel frattempo ha anche una vita personale – amori, figli e figlie – assai ricca, intensa e appassionata, anche se irta di lutti e difficoltà. Attualmente risiede a Santa Monica, in California, con il secondo marito, un giornalista statunitense che aveva conosciuto a Managua, e con due dei suoi quattro figli/e.

Dal 1972 al 1990 ha pubblicato quattro libri di poesie e due antologie, di cui solo l’ultima – “L’occhio della donna”- tradotta e pubblicata in Italia  nel ’92.  La produzione poetica dal 1988 si è intrecciata con i romanzi, successivamente: “La donna abitata”, “Sofia dei presagi”, “La fabbrica delle farfalle”, “Waslala: memoriale dal futuro”, “L’intenso calore della luna”, “Il paese sotto la pelle” (la sua autobiografia, con il significativo sottotitolo “memorie di amore e guerra”), “Nel paese delle donne” (2010), pubblicati in Italia dalle Edizioni e/o, da Rizzoli e da Feltrinelli.

Giornalista, poeta e scrittrice di fama internazionale, Gioconda Belli è una delle voci più suggestive della letteratura ispanoamericana e ha vinto importanti premi in America Latina, in Germania e in Italia.

I temi della sua poesia, che me la fanno sentire tanto vicina, sono la gioia e l’orgoglio di essere donna,  l’amore e l’erotismo avvinghiati insieme, la compenetrazione emotiva con la terra natale e con la Terra/natura in generale e la lotta rivoluzionaria – con le sue tante morti, lacrime e fatiche- per liberare il suo Paese dalla dittatura e per costruire in esso non solo e non tanto la democrazia rappresentativa, quanto piuttosto un mondo di gioia, pace, bellezza, ben essere e giustizia sociale,  per riportare alla vita un popolo di contadini e contadine abbandonato, da quarant’anni di dittatura, alla miseria e all’ analfabetismo. Nonostante le molte cose realizzate dal governo sandinista, le difficoltà oggettive e soprattutto le pressioni e le intromissioni  statunitensi provocarono un’involuzione nel quadro sociopolitico e nel governo nicaraguense. Si sa, il cammino della Storia non è mai un’ascesa progressiva verso il sol dell’avvenire…

“ L’aurorale, primaverile e corporea poesia di Gioconda Belli fu…una prima fioritura poetica della rivoluzione sandinista” ha scritto Josè Coronel Urtecho, altro poeta nicaraguense.

Dato il tema di questo incontro ho scelto alcuni testi legati al Nicaragua e alla lotta politica, a partire da “Tra le piante di mais”:

Tra le piante di mais

semineremo

i nostri sogni indigeni,

il nostro amore per la Terra

e la fecondità dei nostri corpi.

Tra le piante di mais

seppelliremo i cadaveri degli eroi

perché colorino di oro le pannocchie

e ci alimentino.

Ecco ora i versi finali di “Quando saremo liberi”:

“…sveglieremo i nostri morti

con la vita che ci hanno affidato

e tutti insieme canteremo

e concerti di uccelli

ripeteranno il nostro messaggio

in tutti i confini d’America”.

Ora traggo alcuni versi dalla lunga ode  “Patria libera:19 luglio 1979”:

“Strano a me pare sentire ancora questo sole

e vedere il tripudio delle strade invase

di popolo

ovunque le bandiere rosse e nere

e un nuovo volto della città che si sveglia

con il fumo dei copertoni bruciati

e le alte barricate.

…in questo futuro –eredità di morte e gemiti-

risuoneranno fragorose scariche di martello,

raffiche di torni…le armi

per estrarre luce dalle ceneri,

dalle ceneri  case pane…”.

In “Ricostruire il presente”  Gioconda Belli afferma che “occorre…lanciarsi alla conquista di questa terra antica/far partorire l’alba…”.

Concludo questa brevissima carrellata con ampie citazioni da un’altra lunga ode dedicata a “I portatori di sogni”: tutte le profezie raccontano che l’uomo creerà la propria distruzione, ma, secondo Gioconda Belli:

“i secoli e la vita che sempre si rinnova

hanno generato anche una stirpe di amatori e sognatori;

uomini e donne che non sognano la distruzione del mondo

ma la costruzione di un mondo con farfalle e usignoli.

Essi convissero con donne traslucide

e le resero gravide di miele

e figli nutriti da un inverno di carezze.

Fu così che proliferarono i portatori di sogni

ferocemente attaccati dai portatori di profezie

che annunciano catastrofi.

Li hanno chiamati illusi, romantici, pensatori di utopie,

hanno detto che le loro parole sono vecchie

e in effetti lo erano

perché antica è la memoria del paradiso nel cuore dell’uomo –;

gli accumulatori di ricchezze li temevano

e lanciavano eserciti contro di loro…

I portatori di sogni sopravvissero…

non smettevano di sognare e costruire bei mondi

mondi di fratelli, di uomini e donne che si chiamavano compagni

insegnavano l’un l’altro a leggere

consolandosi nelle morti

si curavano e aiutavano, si appoggiavano

nell’arte di amare e nella difesa della felicità.

I portatori di sogni conoscevano il loro potere

e sapevano pure che la vita li aveva generati

per proteggersi dalla morte annunciata dalle profezie.

…i semi dei loro sogni…sono racchiusi in rossi cuori

e in ampie vesti di maternità

ove piedini sognatori fan capriole

nei ventri che li portano.

Per me il cibo del cambiamento, che nutre mente ed emozioni, è la prospettiva del superamento del capitalismo, intrinsecamente costruito sull’asservimento, sulle sofferenze e sulle violenze contro miliardi di esseri umani a vantaggio di pochissimi azionisti e alti dirigenti dei centri di potere economico/finanziario; è il progetto del comunismo inteso come il massimo della solidarietà tra esseri umani, come società in cui “ a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue possibilità”.

Nelle mie poesie chiamo questa prospettiva progetto, sogno, utopia, vessillo splendente. Anch’io, come Gioconda Belli, sogno e voglio un mondo in cui ci sia molto più spazio e molto più tempo per l’amore, la gioia, la bellezza della natura – di cui come esseri umani siamo parte – e una vita in sintonia con la Madre Terra – a cui ho dedicato una delle mie poesie più riuscite -, ma i miei contenuti e il mio linguaggio sono più connotati dalle caratteristiche concrete e materiali delle attuali strutture socioeconomiche da abbattere e –talora – dalle forme di lotta necessarie per poter raggiungere, a lungo termine, una meta così impegnativa.

Gioconda Belli ha operato e poetato in un contesto epico, eroico, cantando i molti morti eroi che rivivono nel ricordo e nelle conquiste di chi è sopravvissuto, ma per il resto canta il mondo futuro da conquistare in modo idilliaco; io mi ritrovo a lottare e a poetare in un contesto cupo vissuto dai più come ”normale”, come qualcosa che è sempre stato e sempre sarà,  in cui le molte morti causate dal sistema- escluse quelle dovute alla tragedia dell’immigrazione, che hanno visibilità mediatica- sono passate per lo più sotto silenzio, annegate nella “banalità del male”.

E’ più difficile fare poesia con queste peculiarità, ovvero individuare il linguaggio – in ogni caso epico e non certo lirico – con cui dar forma a una prospettiva storico/politica opposta a quella dominante; ne sono ben consapevole, ma questo è il mio modo di sentire e di esprimermi.

Ecco dunque alcuni dei miei CANTI PER IL COMUNISMO, che sono ben lontani dall’esaurire la mia poetica, anche se ne sono un aspetto caratteristico.

DA UN MITO A UNA UTOPIA.

La Storia di uomini e donne

del bel pianeta

è lento irto cammino

da Atlantide

bianca città dalle mura dorate

origine di un’umanità sapiente

dispersa in molte terre

alle città del Comunismo

sorgenti dalle acque dell’uguaglianza

per un’umanità solidale

in tutte le terre del mondo.

Città diverse per pietre e per forme

per un’unica utopia da costruire

difformi petali di un solo fiore.

COMUNISMO

Tragedia

di un progetto utopia

non realizzato

che pare morto

senza essere mai nato.

PER IL ROSSO

Bruciano i bimbi rom nelle baracche

gli operai nelle officine

i boschi nell’estate.

Non lasciamo svanire

dalle nostre bandiere

i simboli antichi

del lavoro salariato

non lasciamo che il rosso

sia solo nei roghi di morte.

CRISI ECONOMICA MONDIALE

L’immensa piovra del capitalismo

che tutto ha avvolto

strisciando vischiosa

intorno al pianeta morente

con la crisi economica mondiale

travolge esseri umani a milioni

privati di lavoro casa ruolo sociale

lasciati talora a morire di freddo

rifiuti su scuri marciapiedi.

E’ più che mai venuto il tempo

di alzare le ali del comunismo

per esseri umani uguali e solidali

per una vita che non sia più merce.

RIEMPIAMO LE PIAZZE DI SOGNI INCARNATI

Suole il grande capitale

dislocare officine

quali pedine

sulla scacchiera del mondo

usare esseri umani

come attrezzi da buttare

quando avariati.

Vogliono comunisti e comuniste

costruire sindacati

nelle fabbriche e nei campi

del mondo intero

da collegare

quali fiamme di torri medievali

di colle in colle

allacciate nella notte

fino a formare

una lunga catena di fuoco

e far mutare il vento della Storia.

Nell’attesa

riempiamo le piazze di sogni incarnati.

***

Letture di Giancarlo Fascendini

poi disse di una terra

remota di tempo

e di ventura

dove vento sottile

e pioggia fine

e in pace gli animali

e dai boschi e dai prati

in abbondanza oro

e per tutti

in doppiopetto stretto circospetto

tutto solo ben posto un tavolino

fumo di londra spigato occhiali scuri

vini abbondanti antipasti e quindi

i primi e i due secondi poi di carne

e pesce con smodati contorni i formaggi

misti tre volte il dolce e la frutta e poi

il caffè e a finire il doppio liquorino

triturava suggeva sminuzzava con

metodico zelo gli occhi intenti

sul piatto sollevati solo quando di fronte

il cameriere e il solito ciarlare della sala

presto mutato in rapidi bisbigli

tutti presi a seguire a immaginare

a dedurre ragioni a quel che appare

…..

poi un sorriso accennato al più vicino

pagando il conto e dalla porta a vetri

l’ossequio a tutti con un ampio inchino

Poesia di GIOVANNI RABONI

Dalla raccolta “Versi guerrieri e amorosi”

Adorammo le scorte

segrete, il variopinto

scatolame murato

nei vani delle porte,

il latte condensato

sepolto fra le morte

corde del pianoforte,

i vasetti d’estratto

Liebig nel catafratto

vuoto dell’impiantito,

testimoni allibiti

d’un appetito estinto

per fame cui sorella

specularmente è quella

che non accesa brilla

luce della tua stella.

***

Letture di Luigi Cannillo

Guido Gozzano (1883-1916) risulta spesso, almeno dall’immagine un più stereotipata che ci è giunta, un temperamento aristocratico, malinconico e taciturno.  In realtà ha innestato nel crepuscolarismo forti dosi di ironia e leggerezza. Da alcune testimonianze inoltre, in particolare da compagni appartenenti  ai circoli studenteschi della Torino di inizio secolo, mostrava invece tratti socievoli e perfino goliardici.

Le golose (1907) è una poesia esemplare in questo senso. È‘ un inno alla gola, alla seduzione, al piacere proibito.

LE GOLOSE

Io sono innamorato di tutte le signore

che mangiano le paste nelle confetterie.

.

Signore e signorine –

le dita senza guanto –

scelgon la pasta.

Quanto ritornano bambine!

.

Perché nïun le veda,

volgon le spalle, in fretta,

sollevan la veletta,

divorano la preda.

.

C’è quella che s’informa

pensosa della scelta;

quella che toglie svelta,

né cura tinta e forma.

.

L’una, pur mentre inghiotte,

già pensa al dopo, al poi;

e domina i vassoi

con le pupille ghiotte.

.

un’altra – il dolce crebbe –

muove le disperate

bianchissime al giulebbe

dita confetturate!

.

Un’altra, con bell’arte,

sugge la punta estrema:

invano! ché la crema

esce dall’altra parte!

.

L’una, senz’abbadare

a giovine che adocchi,

divora in pace. Gli occhi

altra solleva, e pare

.

sugga, in supremo annunzio,

non crema e cioccolatte,

ma superliquefatte

parole del D’Annunzio.

.

Fra questi aromi acuti,

strani, commisti troppo

di cedro, di sciroppo,

di creme, di velluti,

.

di essenze parigine,

di mammole, di chiome:

oh! le signore come

ritornano bambine!

.

Perché non m’è concesso –

o legge inopportuna! –

il farmivi da presso,

baciarvi ad una ad una,

.

o belle bocche intatte

di giovani signore,

baciarvi nel sapore

crema e cioccolatte?

.

Io sono innamorato di tutte le signore

che mangiano le paste nelle confetterie.

Mentre la poesia Le golose di Gozzano è relativa alla prima parola suggerita nel nostro incontro, “Cibi”, la mia poesia successiva è legata al secondo termine del titolo, “cambiamento”. Nella scelta di questo testo ho ricordato una domanda molto acuta di uno studente di Gallarate in un incontro tra studenti e poeti: “Che cosa cambia in voi la scrittura di una poesia?”

Effettivamente un testo poetico non si riferisce al tema cambiamento solo per le tematiche specifiche che può riguardare o per i contesti storico-sociali a cui può riferirsi, bensì proprio per la trasformazione vissuta da chi scrive attraverso il procedimento stesso della scrittura. A operare questa trasformazione possono contribuire sia la riflessione, l’approfondimento, la meditazione che comporta la scrittura e che non possono lasciare indifferente chi scrive. Ma anche gli strumenti espressivi, la scelta della nominazione e della strutturazione specifica degli elementi presenti nel testo.

Sarebbe auspicabile che tutte le poesie, l’atto dello scrivere in sé, operassero una trasformazione nell’autore. Cioè che la scrittura svolgesse non tanto la  funzione di cristallizzare formalmente la cosiddetta ispirazione, ma mettesse in atto, come può fare, una intuizione, una consapevolezza, un sapere diverso nell’autore. Credo che questo si possa realizzare, si sia realizzato per quanto mi riguarda, per esempio nella mie poesie legate alla centralità del corpo e alla sua percezione, come la seguente, tratta da Galleria del Vento, Ed. La Vita Felice, 2014.

Quale rivelazione

pulsa dentro, quale tessuto

ansima al mondo. Non un dolore

da tagliare con la spada

né lo stordimento di un piacere

Ma una creatura roteante teste

in ogni direzione, magma di vulcano

Estasi e tortura, in unico respiro

che tutto trafigge, come freccia ferma

Qui scolmano gli sguardi, le ossa

sfiorate, da qui si espandono fibre

Se il dominio umano si dichiara

il potere del corpo esplode muto

il mondo si offre e si distacca

per essere restituito

***

Letture di Claudia Azzola

Giardino a Hammersmith

Londra

Fin da tempi (operanti)  delle streghe,

witches, healers, guaritrici, sono

i fatti avvenuti ai confini: metto

me stessa in questa terra, del confine,

breccia di giardino scavata per la tortora,

per la gazza, le rose,

percorsa dalle granulari formiche,

istoriata terra come di magna carta

su papiri, pergamena e ceralacca,

non c’è giardino

senza nascosto suono d’acqua,

there is no garden void of sound

of hidden water: sono venuta qui

per questo verde.

Non c’è giardino

dei nichilisti, non c’è verde di afasia.

Non c’è giardino senza il verbo dell’esilio.

Tanto è preparato,

tanto avviene nell’esilio.

Claudia Azzola

.

I luoghi dell’inverno

I luoghi dell’inverno,

quelli che tu conosci e quelli

che ti sono stati descritti, pietosamente,

sapendo

che non avresti potuto celebrarli con una manciata

di bacche rosa selvatiche, o su un’antica arenaria,

poiché il tuo ordine è estenderti

come un teorema (prima, o dopo,

aggirando il presente),

non so

definirli nel freddo, né con la mia passione

né con la mia rinuncia;

si spostano,

muso di pesce nel suono dell’acqua che scorre,

del tutto incontrollabili,

e si rovesciano, mostrano il loro dorso, confitti

nelle stesse parole che ne derivano,

cinico vecchio personaggio che abiti

in una scatola cranica.

Roberto Sanesi

***

Letture di Adam Vaccaro

I miei versiche seguono, sono inediti su cartaceo, ma alcuni pubblicati su blog e inseritI in antologie

*

L’ala sottile

Quell’ala sottile che ci raggiunge

e si apre come una vela sull’infinito

non è l’ultimo vento che ti aprirà le mani

ché l‘universo è pregno di mille altri universi

che tu ancora non sai

*

Tra radici e rami

Era unico e solo – completamente solo –

seppure così piantato nella sua terra

non lo era mai, tanto che se il vento

faceva volare le sue foglie sentiva

volare anche i fili più sottili delle

radici che tremavano succhiando

incerte tra le infime crepe

della più scura e cara terra

*

Come giocare

Come giocare il nostro destino sulla faccia

sorridente rubiconda di maiali che grufolando

ci succhiano la pelle e l’anima mentre spacciano

tonnellate d’armi e milioni di giochi, pastiglie, fumi

tra fiumi di parole puttane che trionfe danno

del cretino a chi azzarda ancora un’obiezione

un’ipotesi di pensiero folle di un mondo umano

irridendo dal loro mondo-lardo: ma dove vivi?

22 settembre 2014

*

Carovana

Carovana giungeva da chissà dove andando verso

chissà dove – attento non avvicinarti troppo che

ti portano via, dicevano trepide le madri – in quel

accampamento accanto alla fontana dal nome che

sonava onomatopeico – oh scintillante Ciciliano! –

in concerto con pentole e voci di bambini e urla di

volti scuri, baffi e occhi neri, cercine e zinali chini

intorno a fuochi pentole fumanti e assi traballanti

di farina impastata dalle mani volteggianti di una

maga che – con occhi spiritati s’un dente unico re

duce rimasto al centro della bocca come punzone –

fissandomi mi disse, tu hai nel nome il destino di

– di cosa? dissi spiritando gl’occhi a specchio – di

andare fuori e essere contro – e contro cosa?, ilare

e curioso chiesi – occhi fissi negli occhi di carbone

della bambina attaccata al magico manto del suo zinale –

mentre lei rideva ridiventata con noi bambina tra asini

cavalli e tende delle allegrie accampate, ma mi forava

per sempre anima e memoria un sibilo dal suo punzone:

oh piccolino mio, ma contro tutto il bel mondo che c’è!

Pelo, un povero privo di ogni possibile risorsa

propria incontrò finalmente un vento così forte

che lo inebriò al punto di fargli perdere misura

e senso delle cose e di sé. Si abbandonò a quel

delirio di onnipotenza che lo condusse alle rive

del nulla, dove Pelo scorse il piede di tutto

*

Il tempo stringe

il tempo oggi stringe ma non tocca il limite che ci soffoca ridendo

e saremo ancora qua ad aspettare per vedere cosa abbiamo trasmesso se altre ilari supine idiozie

nel tumulto che continua o gioia che cambia e cosa

Ho scelto di far dialogare i miei versi con quelli che seguono di Walt Whitman, uno dei poeti per me più adiacenti (alla propria totalità soggettiva e, per questo, all’Altro e alla totalità intersoggettiva). Versi al tempo stesso pacati, con un incrocio originale tra realtà occidentale e echi di visione orientale. Ne scaturisce una sorta di levità ideologica che sa incidere con un forte pensiero critico sugli individualismi, l’hybris e i deliri di onnipotenza del pensiero dominante nella cultura occidentale – non solo dei suoi monoteismi ma anche di gran parte del pensiero laico.

Percezioni minime e riflessioni elevate o profonde si intrecciano di continuo in Whitman, per produrre una forma libera e corrispondente a un tessuto testuale che non può avere un termine, come il suo unico libro continuamente arricchito, Foglie d’erba. Una concezione poetica modernissima cui è stato dato corpo ben prima delle teorizzazioni sulla interminabilità del testo quali quelle, ad esempio, di Giuliano Gramigna. O riscontrabile in versi memorabili di Roberto Sanesi. Un esempio di cambiamento, incorporato in testi che dicono le metamorfosi senza fine della vita, rimanendo dentro questa vita, senza volare in cieli eterei di giochi sonori e fascinosi percepiti dai non addetti come fuori dal mondo. Un esempio dunque che sa dire e trasmettere parole e un atteggiamento che risponde a chi oltraggia la vita e la crede di sua proprietà.

È questo che gli consente di dire che la poesia è “voce di un numero immenso”.

Versi tratti da Foglie d’erba, VII edizione 1891, e tradotti da me.

*

Mi stai facendo domande e ti ascolto ma

Io rispondo che non posso rispondere

A cose che devi cercare da solo

*

Ferma con me questo giorno e questa notte e

L’origine della poesia avrai. Godrai

Della terra e del sole (ci sono

Ancora milioni di soli)

Non prenderai più le cose

Di seconda o terza mano

Attraverso gli occhi dei morti o

I fantasmi dei libri, non vedrai

Le cose attraverso i miei occhi né

Prenderai le cose da me

Ascolterai così ogni cosa

Filtrata solo da te

*

Nulla è mai perso o può essere perduto

Per sempre: nascita, forma, identità, cose

Del mondo. Né vita, né forza o cose

Visibili. L’apparenza e i mutamenti non

ingannino o confondano la mente.

Ampi sono lo spazio e il tempo e

Della natura i campi. Il corpo

Rattrappisce annoso e freddo

negli ultimi suoi fuochi e la luce

Degli occhi affievolisce prima

Di ritornare, chissà, fiamma viva.

Il sole ora bacia a ovest l’orizzonte

Prima di rinnovare all’infinito

Nuovi mattini e pomeriggi. E

Ai poveri al gelo resta l’invisibile

Legge di erbe fiori e nuove primavere

Con frutti dell’estate e grano

Walt Whitman

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