Il buio oltre le code: Expo tra debiti e banche alle costole
di Gianni Barbacetto e Marco Maroni
sul Fatto quotidiano di sabato 31 ottobre 2015
e su Pagine Online
Milano – Alla fin della fiera l’obiettivo è stato raggiunto, alla faccia di gufi e disfattisti: Expo chiude i battenti con oltre 20 milioni di ingressi. Un trionfo, almeno per il commissario Sala, che ha la strada spianata per Palazzo Marino, per il governo Renzi e la sua retorica dell’Italia che funziona, e per il gigantesco apparato mediatico mobilitato fin dall’inizio, a suon di milioni, in una delle più straordinarie operazioni di propaganda e manipolazione dell’opinione pubblica che si ricordino. Restano però in sospeso due domande: i numeri testimoniano un successo? E, soprattutto, alla fine chi paga?
Il successo di un grande “camouflage”
Se al di là della fanfara celebrativa si guardano i fatti, l’Expo universale di Milano ha registrato ingressi contenuti, chiude con un disastroso buco di bilancio, non ha rilanciato l’economia e lascia dietro di sé uno strascico di problemi irrisolti.
Quello milanese è stato il peggior Expo degli ultimi 50 anni. Tolti i quasi 14 mila addetti che ogni giorno si sono avvicendati nel sito, su cui i comunicati di Expo sorvolano, e la ridicola mistificazione per cui si considerano le code da sfinimento un indice di successo e non di disorganizzazione, l’esposizione milanese chiude con 18 milioni di visitatori. È la stessa cifra registrata dall’Expo di Hannover 2000, ricordato come “il flop del millennio”. Per fare peggio di così bisogna andare all’Expo di Seattle del 1962, con 9 milioni di visite. Ma il problema non è quello del flusso di visitatori. È che per evitare un flop col o s s a l e , i l m a n a g e m e n t dell’Expo ha spinto sui numeri dei tornelli a scapito del conto economico, che già partiva appesantito da malaffare, clientelismi, inefficienze.
La festa coi soldi degli altri
Il risultato è che la manifestazione peserà sui contribuenti per più di un miliardo di euro. Expo è costata, finora, 2,4 miliardi di euro: 1,3 miliardi per la costruzione del sito; 960 milioni per la gestione dell’evento (840 milioni secondo Expo, ma è un conteggio basato su magheggi contabili già censurati dalla Corte dei conti) e 160 per l’acquisto dei terreni, pagati – giusto per ricordare come è partita l’operazione – dieci volte il prezzo di mercato. I dati sulla spesa sono provvisori, visto che sono in corso i contenziosi per gli extracosti chiesti da tutte le principali imprese che hanno lavorato sul sito: solo per il Padiglione Italia, prima trattativa conclusa, ammontano a 29 milioni. Ed è di questi giorni la notizia che per la bonifica dell’area, rivelatasi gravemente inquinata solo dopo che era stata comprata a peso d’oro, c’è un conto da 72 milioni. La faccenda ha dato l’avvio a un tragicomico balletto in cui Expo spa, Arexpo (proprietaria dei terreni) e gli ex proprietari (tra cui la Fondazione Fiera Milano, che però è anche socia di Arexpo) si rimpallano le responsabilità, in uno scaricabarile in cui non è difficile immaginare su chi ricadranno, ancora una volta, i costi. Storia di una voragine finanziaria. I costi di gestione dell’Expo si sarebbero dovuti pareggiare, secondo le dichiarazioni di Sala, con i ricavi da biglietti più quelli da sponsorizzazioni, royalties e via dicendo. Il pareggio si sarebbe raggiunto vendendo 24 milioni di biglietti a un prezzo medio di 22 euro e ricavando circa 300 milioni dalle altre voci. Visti gli scarsi afflussi iniziali, tali che la società si è rifiutata per i primi tre mesi di fornire dati, in estate è stato offerto al volo un nuovo conteggio: sarebbero bastati 20 milioni di biglietti a 19 euro di costo medio; il resto lo avrebbero fatto i ricavi diversi, aumentati chissà come. Già così, si sarebbe chiuso con un deficit di gestione da 200 milioni di euro. Il problema è che per arrivare ai 20 milioni di ingressi promessi, con annessi titoloni di giornali, si è messa in campo una politica di omaggi a prezzi stracciati. Sconti da saldo alle scolaresche, praticamente precettate dal ministero, ai dipendenti delle aziende sponsor, alle parrocchie, alle coop, agli ordini professionali e a qualsiasi organizzazione che potesse portare a Rho flussi consistenti. Biglietti a 5 euro dopo le 18, ingressi regalati ai pensionati, ai titolari di bassi redditi, a chi parcheggiava per la visita serale nelle aree di sosta del sito. Il rivenditore ufficiale della manifestazione nelle ultime settimane faceva il 70 per cento di sconto. Expo, pur sollecitata da questo giornale, non fornisce alcun dato sul prezzo medio di vendita: ma non ci vuol molto a capire che sarà molto inferiore alla soglia di 19 euro. Vale a dire che il deficit di gestione sarà ben maggiore dei 200 milioni previsti.
Volano e fantasia
La retorica con cui si cerca di mascherare la p e r d i t a economica è soprattutto q u e l l a sull’“indotto” e sull’e r e d i t à dell’Expo; ritorni economici che giustificherebbero gli 1,3 miliardi d’investimento a fondo perduto nel sito. Qui si entra direttamente nel campo della fantasia. Gli studi con cui si cerca di far passare Expo per un volano economico sono quelli preparati da un gruppo di accademici della Bocconi finanziato da Expo. Si parla di 3,5 miliardi di spesa complessiva dei visitatori, tali da generare, per l’effetto moltiplicatore (per cui ogni euro speso genera ulteriori spese a cascata), una produzione aggiuntiva per il Paese da 10 a 30 miliardi e 191 mila nuovi occupati l’anno dal 2012 al 2020, con un picco tra il 2013 e il 2015. È l’apoteosi del moltiplicatore economico, un campo dei miracoli dove per ogni euro sotterrato se ne ritrovano 3, o anche 10. Solo che la stima ignora il costo delle risorse usate, in termini di tasse o tagli ad altre voci del bilancio pubblico. Qualsiasi investimento valutato in quel modo darebbe un risultato positivo. Per Carlo Scarpa, ordinario di Economia all’Università di Brescia, esperto di infrastrutture, “qualche effetto moltiplicatore la spesa generata da Expo ce l’avrà, ma stimarlo è pura fantasia. Inoltre, un conto è costruire infrastrutture che restano, un altro è un investimento di pura edilizia, come l’Expo, che dopo sei mesi chiude”. Sui mirabolanti effetti occupazionali, basti dire che nel 2013, nel 2014 e fino al primo semestre 2015 (ultimi dati Istat disponibili) gli occupati in Lombardia sono stati in calo.
Alla ricerca dei cinesi perduti
L’arrivo di turisti stranieri è stato al di sotto delle previsioni. Secondo uno studio dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, coordinato da Jérôme Massiani, i risultati preliminari indicano una quota del 16 per cento di stranieri (soprattutto francesi e svizzeri) contro il 25 per cento previsto. All’Expo sono andati soprattutto i lombardi (quasi il 40 per cento dei visitatori), mentre i non europei, compreso l’atteso milione di cinesi, hanno raggiunto quote irrisorie. Peccato, perché la spesa degli stranieri è quella che determina il saldo positivo per il Paese creato da Expo. A patto che, fa notare Massiani, “nei benefici per l’economia sia contabilizzata solo la componente addizionale della spesa dei turisti”. Vale a dire quella di coloro che non sarebbero venuti in Italia se non ci fosse stata l’esposizione. Per gli esercenti milanesi e lombardi non sembra proprio che Expo sia stata una manna. Qualcuno certo ci ha guadagnato, ma per molti, come i locali del centro di Milano che hanno visto la movida serale trasferita a Rho, l’effetto è stato quello di un boomerang. Gli ultimi a manifestare la propria delusione, questa settimana, sono stati i commercianti bresciani: “Qui si perdono quattro imprese al giorno”, ha scritto un report di Confesercenti, “Expo a Brescia non si è proprio fatto sentire”.
Carta di Milano, fiera di buoni propositi
Dovrebbe essere il grande lascito morale di Expo. Sembra invece più che altro un esercizio d’ipocrisia. La Carta di Milano raccoglie indicazioni per risolvere i problemi mondiali dell’alimentazione, della produzione di cibo, della fame del mondo. Firmata da tutti i capi di Stato, ministri, politici, funzionari, delegati passati da Expo e da milioni di cittadini, è stata consegnata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella al segretario dell’Onu Ban Ki-moon. Peccato che non sia altro che un elenco di buone intenzioni, senza vincoli né verifiche, destinata a restare lettera morta una volta spenti i riflettori sull’Expo. Nata negli uffici della multinazionale alimentare Barilla, è stata bocciata dalle più importanti organizzazioni non governative. “Abbiamo partecipato ai lavori preparatori, ma abbiamo deciso di non firmarla perché non tocca alcuni nodi: la proprietà dei semi, l’acqua come bene comune, i cambiamenti climatici”, ha dichiarato Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia, l’organizzazione fondata da Carlin Petrini, che aggiunge: “Non prevede impegni concreti per governi e multinazionali, è generica, tra i firmatari ci sono anche alcune multinazionali e capisco che il governo italiano non abbia potuto osare di più”. Oxfam, network internazionale di organizzazioni non governative attive in 17 Paesi, l’ha definita “lacunosa” su temi fondamentali come le politiche per l’agricoltura contadina, la speculazione finanziaria sulle materie prime alimentari, l’espropriazione delle terre e il consumo di suolo agricolo”. Il giudizio più duro arriva però da Caritas Internationalis: “È una carta scritta dai ricchi per i ricchi”, dichiara il segretario generale Michel Roy, “un testo parziale, per i destinatari e i contenuti. Non si sente la voce dei poveri del mondo, né di quelli del Nord, né di quelli del Sud”. Perché “indica un problema – la fame nel mondo – tutto sommato noto, ma non mette a fuoco le cause e quindi le soluzioni”, ha continuato Roy. “Contiene una nobile e giusta esortazione a evitare gli sprechi, ma non parla di speculazione finanziaria, accaparramento delle terre, diffusione degli ogm, perdita della biodiversità, clima, speculazioni finanziarie sul cibo, acqua, desertificazione e biocombustibili”. Aggiunge Luciano Gualzetti, vicedirettore di Caritas Ambrosiana e vicecommissario del padiglione della Santa Sede: “Siamo stati chiamati a partecipare alla sua stesura, ma dobbiamo constatare che il risultato non ha tenuto conto dei nostri suggerimenti, probabilmente per salvaguardare certi equilibri”.
L’area,i debiti e il rebus del dopo expo
La vera sfida, comunque, inizia ora. Che cosa fare dell’area su cui sono stati investiti 2,4 miliardi di danaro pubblico? Il sito Expo, per ora, è solo una zavorra sui conti di Comune di Milano e Regione Lombardia, che devono restituire alle banche 200 milioni spesi per acquistarla. L’asta del novembre scorso per rivenderli, infrastrutturati, a 340 milioni, è andata deserta; ora si cerca la quadra per uscire dall’imbarazzo. In questo contesto, il rischio di lasciare una cattedrale nel deserto, destino comune a tante aree degli expo del passato, è alto. Le idee, che sono gratis, non mancano. Così come si sprecano i nomi trendy: hub tecnologico, Knowledge valley, start up incubator. Più difficile trasformare le idee in realtà. Tra i progetti annunciati, la realizzazione del nuovo polo delle facoltà scientifiche dell’Università statale di Milano, un buona idea del rettore Gianluca Vago. Ma sono necessari 540 milioni e una complessa operazione di dismissione e qualificazione della vecchia area di Città Studì. Il presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca ha ipotizzato di aggiungere un polo della tecnologia e dell’innovazione, Nexpo, in cui attirare aziende dell’hi tech. Ma come pianificare una tale trasmigrazione? Con quale regia e quali soldi? Tutto ancora da decidere. Come pure l’ipotizzata realizzazione sul sito di una città dell’Amministrazione pubblica. E prima di tutto, qualcuno dovrà restituire alle banche i 200 milioni prestati. Di solito, la città che progetta un expo pensa prima, cosa fare dopo dell’area su cui fa investimenti pubblici colossali. A Rho, invece, i cancelli si chiudono senza che nessuno sappia cosa ne sarà. “Non fate i ganassa”, dice Piero Bassetti, “la vera sfida inizia ora”
Un solo appunto da comune visitatrice solo su ciò che ho visto di persona. Ma Barbacetto & Co.saranno entrati almeno una volta a Expo, mi chiedo. I visitatori erano infiniti, più di così sarebbe stato davvero impossibile girare. Noi non abbiamo visto i padiglioni che ci interessavano a causa delle code chilometriche, tuttavia lo spazio era bellissimo e confortevole anche come passeggiata. Era una fiera campionaria moltiplicata per mille ( e che cosa potevamo aspettarci? ).Non vorrei che la critica sacrosanta delle piaghe che ne hanno segnato il percorso e l’ansia generata dagli interrogativi che ci poniamo sul futuro dell’area giustificasse una solenne balla sul numero di visitatori. Avrei preferito che Expo non si facesse, tuttavia dall’esterno posso dire che forse ci si straccia le vesti, come spesso avviene nel costume nazionale, per partito preso. Il paragone con Shangai non regge, essendo l’area molto più vasta e la popolazione cinese, come si sa, innumerevole.
EXPOLIAZIONE…
di Angelo Gaccione
Andando a visitare l’Esposizione Universale in quel di Rho, non è che mi aspettassi granché. Le fiere si assomigliano tutte, e mal sopporto anche quelle dedicate al libro e alle opere d’arte. Trovo che manifestazioni come queste potevano avere una giustificazione tra l’Ottocento e i primi del Novecento, non oggi, nell’era delle comunicazioni telematiche. A ciascuno di noi basta entrare in Rete, digitare il nome di una città, di un museo o di quant’altro ci interessa, per vedere in tempo reale luoghi, monumenti, opere, e così via, senza muoverci da casa. Le nazioni partecipanti a questa esposizione completamente inutile, se volevano far vedere i loro prodotti o le loro eccellenze, bastava organizzassero una loro agorà (o padiglione) attrezzata di tutto punto e metterla in Rete. Quanto agli incontri fra delegazioni commerciali, esponenti governativi e capi di Stato, se ne fanno a iosa -e in ogni periodo dell’anno- sugli argomenti più diversi, nei rispettivi paesi e dentro gli sfarzosi palazzi istituzionali. Ovviamente non se ne fa alcuno sotto il sole agostano dentro un campo di pomodori, dove i pascià dell’industria agroalimentare, multinazionali della terra saccheggiata, agricoltori senza scrupoli e caporali delinquenti, sfruttano dannati e miserabili per pochi euro costringendoli a sgobbare fino a 16 ore al giorno, e tenendoli segregati dentro luoghi indegni, spesso privi di luce, di latrine, di acqua da bere. Non se ne fa alcuno lì, sui luoghi dove il cibo si produce, quel cibo che dovrebbe nutrire il pianeta, secondo la retorica truffaldina degli organizzatori, e dei pubblicitari (la peggiore genìa che la modernità abbia prodotto). Perché nei luoghi dove il cibo si produce, quel cibo è fatto di fatica, sudore e sangue, e dunque lor signori se ne tengono alla larga. Non vogliono vederli quei luoghi, e tanto meno gli uomini e le donne che concretamente su quei luoghi faticano perché il frutto di quelle fatiche possa arrivare sulle loro mense.
Avevo in mente le terre sottratte ai contadini da parte delle società straniere, le monoculture imposte con la forza e che costringono alla fuga dai loro paesi milioni di uomini rimasti senza la base primaria della loro sopravvivenza, gli ulivi secolari falcidiati, il monopolio delle sementi, l’immorale distribuzione del cibo, l’uso dei cereali per ricavarne energia, tutto questo e altro ancora avevo in mente, prima di immettermi su quello che stucchevolmente e senza una punta di ridicolo, è stato battezzato Decumano.
Avevo in mente la rapina di Cina e India, di Europa ed America, divenute proprietarie di buona parte delle terre del continente africano. Avevo in mente la cifra astronomica che ogni anno gli stati spendono per le spese militari, e come il denaro speso per questa fiera avrebbe potuto creare pozzi d’acqua, sementi, bonifiche, mezzi agricoli da consegnare a chi non li possiede, a chi il cibo è negato.
Non mi aspettavo granché neppure dal punto di vista delle strutture architettoniche. Ero rimasto profondamente deluso dal modo come Milano aveva trattato i padiglioni dell’Esposizione Universale del 1906, abbattendo stupidamente le magnifiche realizzazioni liberty, che ne avrebbero fatto la capitale mondiale di quello stile così brioso. Avevo avuto modo di vedere quelle realizzazioni, nelle foto e in un video installati per il pubblico nella sede dell’Urban Center in Galleria, in occasione della presentazione di una nuova edizione del mio libro: “Milano città narrata”, e ne ero rimasto affascinato come il resto dei presenti. E sapevo che a Rho si trattava di realizzazioni effimere, provvisorie, destinate al loro smantellamento appena la kermesse si sarebbe conclusa.
Perché ci sono andato, dunque? Perché volevo verificare con i miei occhi come era stata trasformata l’area profumatamente pagata (ottimo suolo agricolo) su cui sono sorti i padiglioni. Per inciso, noi guastafeste di “Odissea” ci eravamo permessi di segnalare una marea di strutture pubbliche già esistenti che riadattate avrebbero consentito di decentrare l’esposizione e occupare a macchia di leopardo aree diverse della città e dintorni. Quelle strutture avrebbero, dopo l’esposizione, potuto servire per le funzioni più diverse e conservare la loro utilità. Valga per tutte la vasta area dell’ex mercato dei fiori, del mercato del pesce e del macello pubblico, da anni abbandonata; magnifica dal punto di vista architettonico, centrale e servita persino dal passante ferroviario, sarebbe stata anche un’ottima occasione per bonificarla dall’amianto e mettere così al sicuro una parte affollata di città e che ha attorno a sé ortomercato, deposito Atm, scuole, asili e persino sedi dell’Usl e dei vigili del fuoco. Ma torniamo a Rho. Alcune cascine recuperate al meglio e senza stravolgimenti di sorta; una piccola collina piantumata (gli alberi sono di per sé la forma più gentile e armoniosa di arredo urbano); la fontana dove si erge “L’albero della vita” che però è una natura morta meccanica; non le tanto contestate vie d’acqua poi travolte dagli scandali, ma qualche piccola oasi acquatica che compare qua e là, tuttavia per me la cosa migliore. Dove scorre dell’acqua si crea immediatamente un angolo magico. E padiglioni di ogni tipo e foggia in cui si è sbizzarrita la fantasia dei loro realizzatori. Dal punto di vista della coerenza due mi sono sembrati i padiglioni degni di nota, quello del Vaticano incentrato sul pane e tutte le simbologie e sacralità che vi sono connesse, compreso il significato della fatica, dello spreco, dello scarto e della penuria (tutta roba che ci riguarda da vicino), e quello dell’Austria che ha concentrato l’attenzione sul bene primario per eccellenza: l’aria. A questo riguardo, è stato realizzato un vero e proprio bosco con 60 alberi e più di 12 mila fra piante ed arbusti, in grado di produrre più di 60 kg di ossigeno ogni ora, e di assimilare 92 kg di anidride carbonica al giorno. Saggiamente su un pannello esplicativo è stato riprodotto questo efficacissimo ammonimento: “Puoi sopravvivere 5 settimane senza cibo, 5 giorni senza acqua, ma non 5 minuti senza aria”. Ne prendano nota i farabutti che ogni anno, in questa stagione, bruciano e devastano ettari ed ettari di boschi, assassinando il più prezioso ed umano degli esseri: l’albero, e mandando in cenere la materia prima più importante della terra: l’aria. Quanto al padiglione più apertamente critico, uno c’è: è quello della Caritas.
È un padiglione piccolo e spartano composto dalla carcassa di una Cadillac oramai priva splendori, circondata da una miriade di autentici filoni di pane. L’idea di questa installazione-performance si deve all’artista tedesco Wolf Vostell, che l’ha realizzata nel lontano 1973 e che si trova in permanenza al museo Malpartida in Spagna. Inequivocabile nei suoi significati, questa installazione non ha bisogno di ulteriori commenti. Mancano solo coloro che il cibo lo producono, in questa Esposizione, i contadini: ma questo è solo un dettaglio.
[Pubblicato sulla prima pagina di “Odissea” in Rete il 13 agosto 2015]
http://www.libertariam.blogspot.it
Superfluo esplicitare che concordo con quanto elencano ed enucleano, sia il testo pubblicato che quello a commento di Gaccione.
Anch’io quando sono andato ho ricevuto un’onda di atmosfera da Luna Park, tesa a meravigliare e a sollecitare emozioni superficiali e acritiche, rispetto agli orrori e alle speculazioni finanziarie intorno al cibo. Di tutto questo ben pochi labili accenni, per non disturbare i “manovratori”, economici e politici, insaziabili e intenti a nutrirsi più che nutrire il pianeta, riversando generosi sugli altri la consueta crema di propaganda e mistificazione, che disegna i trionfi incessanti delle magnifiche sorti e progressive.