Il Quid di Seeds
Adam Vaccaro, Seeds, Selected, Edited, Translated and Introduced by Sean Mark, Chelsea Ed., New York 2014
Laura Cantelmo
L’antologia di un poeta non è semplicemente una selezionata raccolta di testi, ma è essa stessa una composizione nuova, che volendo far conoscere le opere più significative di un autore raggiunge una organicità tale da ottenere una coerenza poematica.
Seeds di Adam Vaccaro ha un titolo evocativo: nella versione italiana, (Semi) contiene un richiamo esplicito al termine sema: i semi in linguistica definiscono l’unità minima di significato da cui viene formata la parola. Contemporaneamente esso suggerisce l’idea di work in progress, insieme a quella di una possibile rigenerazione, di una ”vendetta contro la morte” cui l’Autore medesimo fa cenno nel primo testo dell’antologia, dove al “piccolo graal” , il sacro contenitore dei semi, egli affida l’auspicata liberazione dal “male stupido” che invade la società attuale.
La traduzione e la cura di Sean Mark, oltre a onorare giustamente la ricerca poetica di Vaccaro, dona a un’altra lingua, a un’altra cultura, a un pubblico nuovo una poesia intensa e corposa, non facilmente fruibile in un contesto come quello anglo-americano, poco avvezzo all’uso di stratagemmi retorici strettamente legati alla specificità della lingua di partenza, la cui difficoltà di trasposizione è apertamente dichiarata dal curatore. Particolarmente felice la scelta dei testi nell’indicare le tappe di un iter poetico che non può essere disgiunto dal percorso biografico dell’Autore. Iter che è comunque ben lontano da una forma diaristica, autoreferenziale, in quanto fondato sull’Adiacenza, categoria con cui Vaccaro definisce il contributo dell’Autore all’atto della creazione artistica come totale adesione di tutti i livelli della coscienza e della sensibilità.
L’antologia rispecchia la vicenda di una generazione costretta a fuggire dalla miseria in cui versava e ancora versa l’Italia del Sud verso il Nord abbiente e industrializzato, inseguendo sogni e speranze di una vita migliore. Storia di un’Italia rurale di innegabile bellezza e fascino, teatro di una cultura primordiale, candidamente dedita a crudeli rituali ancestrali :”Guardavamo scannare i maiali/ con allegra tranquilla innocenza/ lanciavamo stecche appuntite di ombrelli/ contro civette crocifisse alle porte” (“(Feroci innocenze e oltre”). Di fatto l’avvicendarsi di paesaggi e ritratti di persone del passato, tratteggiati con rispetto e schiva tenerezza nella sezione Antefatti, non rappresenta altro se non icastiche raffigurazioni della storia di un paese nel quale innocenza e ferocia coesistono in modo costante.
Interessante notare come una poesia che va affermando con forza sempre crescente il valore dell’ispirazione civile unitamente alla presa di coscienza dei meccanismi che hanno reso l’Italia divisa in due realtà antitetiche e che esprime l’aspirazione a un cambiamento sociale e culturale, voglia cimentarsi con procedimenti retorici principalmente basati sulle diverse figure della ripetizione (procedimento antichissimo con cui i cantori davano vigore ai passaggi più significativi della narrazione. Quella disposizione ritmica che Jakobson chiamò equivalenza). Strategia capace di ampliare e intensificare il discorso poetico, imprimendo una elevata musicalità, un tono di originalità e di novità al linguaggio, che si basa sul verso libero, non vincolato alla rima, ma alle corrispondenze dei suoni all’interno dei versi.
L’aspetto più peculiare e sorprendente dei testi di Vaccaro, infatti, sta proprio nell’uso della lingua, nelle torsioni, nelle allitterazioni, nelle assonanze, nelle onomatopee, nelle tmesi (parole spezzate dal verso e riprese nel verso successivo), negli enjambements e così via, che riescono a infondere un ritmo sempre più intenso, a volte martellante. Procedimento non sempre determinato da una scelta precisa, razionalmente ricercata, ma spesso originato dalle esigenze stesse del verso che nascono spontaneamente, dettate dall’inconscio, in perfetta sintonia con la teoria dell’Adiacenza.
Cosicché quello che si dipana nell’antologia che potremmo tranquillamente definire “poema di formazione” vede affinarsi in modo talvolta ardito gli strumenti retorici predisposti dal Poeta, proponendo una sempre maggiore consapevolezza della trasformazione della realtà socio culturale e politica in una entità globalizzata, non più solo locale, sulla quale l’Autore esprime un giudizio severo, a volte disperato, quasi urlato, senza però mai ripiegarsi su se stesso.
Nessuna indulgenza nostalgica nel ritrarre luoghi e personaggi di Bonefro, il villaggio molisano da cui Vaccaro proviene, bensì la cruda, quasi rabbiosa rappresentazione di un mondo immobile, vittima della propria fissità nel tempo tra quelle pietre scabre ,“morte”, che emblematicamente ne segnano il territorio. E al contempo ecco l’incanto dei paesaggi, di una piana, verso Ururi, nome di un paese magicamente esotico, quasi a segnarne la lontananza, di botteghe paterne che sono scuole di vita, di “ortigiardini” come quello del nonno che apre a fantasie e a sogni di infinito in una forma lirica che emerge con ritrosia, arrivando dolorosamente a smascherare la violenza e l’inganno che la bellezza dei luoghi sa abilmente celare (“Le bugie del mago”).
Ed è la presenza del sogno a riproporre la vena lirica: “questa casa che al buio diventa/ le pareti dei miei sogni” ( “(La casa)”), anche nella ripetizione (paronomasia) dei versi seguenti : “Questa casa che esplode di voglie/ ricoperta di fango e di foglie” attraverso cui l’Autore parla di un sogno ora divenuto insopprimibile (voglie rientra nello stesso campo semantico del sogno) sottolineandone l’intensità crescente e la fatica nel realizzarlo partendo da una condizione di difficoltà (foglie). Troviamo qui anche l’affermazione di un topos, quello della casa, come ricerca di un’ancora necessaria nel caos imperante, insieme al richiamo non casuale a “quel piede fondato nella terra e/ nel letame” che avevamo visto in “feroci innocenze e oltre” da cui si delineavano ”sogni di assalto al cielo “ e “primilampi di parole” – le parole poetiche che avrebbero dato avvio alla ricerca espressiva dell’Autore.
Nella sezione Canti degli impossibili ritorni irrompe apertamente l’elemento epico. Seguendo il richiamo del sogno, Adam/Ulisse vive un’epopea migratoria nella quale il nostos verso la nativa Nefros “di sassi chiusi” si rivela impossibile: “necros di sole assoluto” . Si noti la paronomasia che in modo fulmineo evoca la ferale immobilità del villaggio natio, metafora di un Meridione paralizzato, dimenticato dalla storia, ridotto a terra di conquista di voti da parte del grande partito conservatore. I perversi meccanismi politici e sociali sono ormai del tutto chiari e Adam/Ulisse grida la delusione di un impossibile cambiamento, di un impossibile assalto al cielo nella terra di “bonzi gonzi” divenuta “berlusconistan”.
Nefros è ora metafora di un’intera nazione, mentre la lingua, priva di punteggiatura, sempre più icastica e sincopata nel processo ripetitivo, approda alla rappresentazione dell’orrore. Torna alla mente il disperato grido di Kurz morente in Cuore di tenebra di Conrad :”The horror, the horror!”: nell’attimo supremo Kurz si trova di fronte all’orrore di un sistema mostruoso nel quale è stato spettatore e insieme attore. A questo punto per Vaccaro persino l’amore diviene “coltello necessario” addolcito solamente da una punta di miele.
Nella seconda parte dell’antologia, Nell’aperto, aperto inferno, Ulisse compie la sua discesa agli inferi: domina qui il senso di fallimento, che coinvolge il poeta stesso e l’intero paese pur nello stupore di qualche nascosta oasi: “Milano infila eppure ancora cortili uno dentro l’altro/ che ritrovano in fondo – ancora visibile – il tempo” (“Quintocortile”). Il richiamo a una di-sperata fede nel valore della cultura testimonia la perseverante azione che il Poeta esercita in campo artistico presiedendo con passione e competenza le attività dell’Associazione Milanocosa.
La ricchezza semantica di un discorso che procede con toni di sarcasmo, ricorrendo un’altra volta alla paronomasia moltiplica la propria efficacia nel riprodurre lo stato di caos e la tragedia in cui tutti siamo coinvolti: il “co(s)mico disastro” (“Siamo qui”). Lo sguardo che si alza sul mondo, su terre lontane (vedi la sezione Nilo Maggiore e Minore), benché storicamente e artisticamente affini alla nostra, individua persino nella suprema bellezza artistica le pesanti tracce della miseria e della corruzione, della perdita di dignità di uomini e luoghi apportata dal pensiero unico dominante. In un mondo di orrore si pone quindi come ineludibile per il Poeta la questione della bellezza (“Quale bellezza”).
Nella banalità e nella volgarità generalizzate, dovendo scegliere “tra potere e bellezza”, il Poeta scopre una forma di resistenza “tra la morte e la vita che continua” in una parola continuamente piegata al volere e all’inconscio dell’Autore, una poesia che arriva a creare se stessa. Il seme che nel componimento iniziale avrebbe dovuto “aprirsi e vendicarsi della morte” ora sembra pronto a germogliare. Ribadendo la fede nella parola, “Quale bellezza” assume il ruolo di Manifesto artistico dell’Autore: l’imperativo è sottrarsi a qualsiasi forma di acquiescenza a un potere politico e culturale che in un tempo lontano aveva consentito la libertà del sogno e che ora ha tradito ogni promessa precipitando la società nella volgarità e nella barbarie.
I testi finali affrontano problematiche di difficile risposta. Anzi, sono domande che il Poeta pone a se stesso e sembrerebbero lasciare aperto il cerchio del discorso. Al contrario, quell’introvabile Quid che in termini di progettazione politica rende difficile affacciarsi al futuro, è invece qualcosa che sfugge sia al potere e alla scienza, sia alla ricerca trascendentale dei mistici. Il punto di forza del Poeta sta proprio in quel “polo/ che insiste non si arrende e resiste/ tra la morte e la vita che continua” (“Quale bellezza”). Quel Quid è qualcosa di profondamente umano da cui ha origine una resistenza possibile, che apre alla speranza: “consolazione dell’infimo e dell’immenso” (“Il Quid e le vendette di Venere”), quasi in attesa che i semi germoglino.
La grottesca rappresentazione del reale nella poesia di Adam Vaccaro raggiunge un livello di denuncia tale da avvicinarlo alla violenza iconica dell’Espressionismo. L’effetto straniante dei procedimenti retorici fondati principalmente sulla ripetizione, sul ritmo incalzante, sugli aspetti visivi (l’uso di parentesi) che acquisiscono valore semantico e potenziano l’impatto comunicativo, costituiscono la cifra di questo “poema di formazione” che così efficacemente rispecchia la storia dell’Autore e del nostro tempo, oltre che la sua alta idea della poesia.
Dicembre 2014 Laura Cantelmo