IL “LUOGOMONDO” DI GIUSEPPINA AMODEI
Giuseppina Amodei LuogoMondo dentro il Mito – EdiLet, Roma, 2013 p. 158 € 18.00
Giorgio Linguaglossa
La lettura di LuogoMondo mi ha suggerito alcuni interrogativi generali e preliminari. Considerazioni utili anche a parametrare il mio orizzonte di pensiero critico rispetto all’opera di Giuseppina Amodei. Prolegomeni alla critica più che critica vera e propria? Anticamera della critica?
Il primo interrogativo riguarda il rapporto tra le poetiche e le opere d’arte. Perché LuogoMondo è un libro, ad un tempo, di poesia e di poetica. La poetica della Amodei è il «viaggio» «dentro il mito», cioè il viaggio come occasione: creare il mito di una esperienza significativa che si svolge nel presente, nell’attimo dell’«incontro». La Amodei in proposito è chiara, infatti scrive: «Non voglio incontrare me stessa»; e ancora: «Non amo le metropoli // I loro labirinti ingannano i miei passi / e mi smarrisco come un vagabondo» Il proliferare delle poetiche nel Novecento, si è detto, è il segno del dibattito, del dialogo che sorge intorno all’opera, proprio in quanto essa è istitutiva di un «nuovo mondo» (o di un «luogomondo» come lo chiama l’autrice); ma è anche vero, è stato detto, che il fenomeno delle poetiche ha la sua spiegazione nell’orizzonte del «vecchio mondo» al fine di creare il «nuovo mondo» che l’opera inaugurerà: il fenomeno delle poetiche non sarebbe tanto un modo dell’abitare e del dialogo con l’opera, ma ciò che rende possibile, oltre il mondo dell’opera, la fondazione del suo «luogo» nel mondo. Per la Amodei il «mondo» va esplorato nei «luoghi», intensamente vissuto nei «luoghi», anche se distanti secoli o millenni nel tempo e nello spazio. Innumerevoli sono i «luoghi» visitati dalla Amodei, ma sono «luoghi» anche le persone dei poeti e degli scrittori rivisitati dall’autrice (Borges, Saramago, Kafka, Pessoa, Alighieri, Luzi, Szymborska, Alvaro); così i «luoghi» diventano «luogotempo» e «luogospazio», luoghi immaginali e reali, città sepolte e dimenticate e umili compagni di viaggio come i domestici della sua casa fuori Firenze. C’è questo panismo, questa apertura al «mondo» degli uomini e delle «cose» in questo libro che stupisce: se così è, il linguaggio-parola assume un carattere super-eventuale, sottratto alla relatività dell’ambito del «mondo» e diventa ciò che domina la pluralità dei «mondi» e li mette in comunicazione: una conclusione simile che assegna al linguaggio un valore trascendentale e meta-mondano, che, peraltro, forse non dispiacerebbe alla poetessa calabrese; si tratta di capire in che termini, però, giacché se l’essere-linguaggio è una dimensione trascendentale, l’opera poetica sarà semantizzata in termini di «struttura permanente», immutabile, il che è ben lontano dagli intenti della Amodei la quale invece credo voglia semantizzare l’esperienza mutevole del mondo; questa è la giusta metodologia di intervento nell’apertura del mondo; in esso non è data alcuna posizione dominante al carattere veritativo dell’essenza come di un rivelarsi e di un darsi, ma è il viaggio che l’autrice compie attraverso «volti e luoghi mitici della Calabria», «le caseRadici», «viaggio tra le Ande», «Babilonia perduta», «Tarquinia», l’«India», la «Sfinge». Ecco la città di Jaipur:
La città ha il colore della cipria
le finestre sembrano merli di marzapane
il bazar profuma di spezie
– pungono le narici – i drappi di seta
appesi come fossero tendoni
splendono di fili d’oro e di cobalto
Ma c’è sempre una zona di esperienza significativa che ci sfugge: «Qualcosa ci sfugge / il segreto / sta in un grano di sabbia / oppure in quella duna / che cambia di continuo / o negli occhi bruciati dalla tempesta»; inutile rovistare tra i «sarcofagi», tra «Marylin e le altre» o «i nuovi gladiatori»: è destino che il senso di una esperienza significativa sia quello di sfuggire alla cattura, di eludere gli sforzi dei filosofi e dei poeti. Come non c’è una essenza autentica se non nell’inautenticità generale del mondo semantizzato («non si dà vera vita nella falsa» ha scritto Adorno), così la poesia della Amodei accetta il «viaggio» nel «luogomondo» entro i canoni della marcatura, della struttura, della metratura stilistica (del verso libero militarmente liberato?) in strofe, e fin qui nulla di male; accetta di stare dentro la marcatura di un concetto di «poetica aperta» (al viaggio e alle esperienze significative); accetta le contraddizioni e le antinomie della prassi poetica che il Novecento ci ha lasciato in eredità, secondo cui la forma-poesia sarebbe non solo un prodotto di semantizzazione, di modellizzazione secondaria di un altro «testo» ma il prodotto di una riflessione sul «mondo» visto e conosciuto attraverso i suoi «luoghi; è comunque con questa verità che la Amodei accetta di fare i conti: Di qui la sussunzione del viaggio nel villaggio globale, esperienza primaria che anima la poesia della Amodei: viaggio-dialogo, dialogo interlocutorio, dialogo enfatico con i personaggi e i luoghi che interagiscono con l’«io» dell’autrice.
La seconda interrogazione riguarda la nota tesi della mitologizzazione dell’opera d’arte. Gianni Vattimo, per rispondere a questa domanda, sostiene che poche opere d’arte possono essere considerate come «fondatrici di mondo», e tra queste ritroviamo, ad esempio, la Bibbia o la Commedia di Dante. Possiamo considerare queste opere fondatrici di mondo?; se proviamo ad abitare il mondo della Commedia ci accorgiamo di essere circondati da un tessitura simbolica in forma di viaggio che non possiamo capire, vivere, utilizzare, se non in riferimento a qualcosa di esterno al mondo dell’opera, cioè il contesto storico. Vattimo ci taccerebbe di sociologismo spicciolo, ma si tratta allora di capire in che termini un’opera è abitabile e se essa possa costituirsi anche come territorio ostile, inabitabile, radicalmente refrattario a qualsiasi ermeneutica: non è un fatto secondario che un’opera sia più abitabile in un periodo storico e meno in un altro; questo fa pensare che il «mondo» di ogni opera è inscritto sempre in un «mondo» più ampio secondo una geometria concentrica di «mondi» possibili. Credo che la definizione di un’opera come «fondazione di mondo» non dovrebbe dispiacere alla Amodei, non «enciclopedie tribali», come i poemi omerici o la Bibbia, come genesi culturale di una civiltà e di un popolo, struttura del suo ethos ma come dispiegamento psicologico di una totalità di esperienze possibili. Se proviamo ad «abitare» le migliori opere del tardo Moderno, a partire da Satura di Montale (1971), ci rendiamo conto che non c’è più bisogno di stare al di fuori di quel mondo che l’opera poetica ci indica. L’opera poetica tende a diventare autoreferenziale: riflette il viaggio all’interno dell’«io». Lo scetticismo di Montale, così come anche la disperazione di Helle Busacca nella sua trilogia (I quanti del suicidio del 1972), non richiedono che un intervento privatistico del lettore, oppure un intervento «politico-privato» come nel caso della Busacca. Il lettore non può abitare quel «luogomondo» che gli resta estraneo e che vive con estraneazione. È l’estraniazione la categoria dominante della grande arte del Novecento (Beckett, Kafka, fino agli attuali Tomas Tranströmer, Wallace Stevens, Zagajevskij), che la poesia della Amodei importa nella propria forma in grande quantità.
Altri poeti, come Zanzotto (La Beltà è del 1968) e Maria Rosaria Madonna (Stige è del 1992), si rifugiano in una neolingua illogistica mediante la de-semantizzazione e la ri-semantizzazione del significante. Che cosa resta del mondo semantizzato e desertificato se non la necessità di una nuova riconfigurazione del linguaggio?. Dal punto di vista dell’ermeneutica del testo, il lettore, dopo ogni lettura, è costretto a ricominciare daccapo, a riformulare la precedente lettura dell’opera poetica che richiede il suo ingresso interattivo nell’opera. Certo, la poesia di «LuogoMondo» della Amodei riflette questa problematica epocale: è una «esperienza privatistica», il suo «luogomondo» è l’esplorazione di un significato, di un senso privato. Per la Amodei l’essere è l’incontro con l’altro, il suo eventualizzarsi per l’altro; così nasce il senso mediante una «esperienza significativa». Un altro interrogativo è la scomparsa della metafisica: o meglio, la rarefazione delle questioni metafisiche che si eventualizza anche nella poesia della Amodei (ma in Helle Busacca come in Maria Rosaria Madonna e Maria Marchesi è la cronaca «privata» ad essere trasformata in metafisica!); così, per dirla con Adorno, la «metafisica trapassa in micrologia». La Amodei vive il viaggio attraverso il tempo e lo spazio con la curiosità dell’esperienza significativa: la posizione stabile dell’io nel «viaggio» nel «mondo» e nel «mito». La Amodei spolvera il «viaggio» da tutta la polvere dell’io e della quotidianità più corriva; il «viaggio» è qui ricerca di una identità e di una autenticità. C’è come una pagliuzza nei nostri occhi, quella «pagliuzza» che, come scrive Adorno, «è la nostra migliore lente di ingrandimento». Se manca, oggi, un fondamento su cui poggiare la composizione poetica, quello che un mio amico con cui collaboravo nella redazione di «Poiesis», in un saggio uscito postumo, Giuseppe Pedota, Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia italiana contemporanea, chiama il «principiale», per la Amodei il principio è il «viaggio», la ricerca dell’identità. Questione non da poco.
(da) LUOGOMONDO – Dentro il Mito
(I miti altri)
Dheli
È forte il sospetto
che dio non esista
non quello della giustizia
Incolmabile differenza
tra i corpi avvolti nei sari
che sembrano fiori tra i fiori
e le vesti gialle di merda
Tra le dita cariche di anelli
e le mani a tenere un piatto di legno e scarafaggi
E non ho visto Calcutta
né il Gange
discarica di teste ed ossa spezzate
(ne ha parlato un ragazzo incontrato per caso
all’aeroporto di Kuwait City
gli occhi ancora carichi di rosso
e la bocca pronta a vomitare)
E non ho visto i lebbrosi
(credevo che le isole
dei corpi bendati
fossero leggende di metropoli
ma poi
me ne ha parlato l’amica Leda
definendo l’incontro
un’esperienza divina
mentre io insultavo ogni divino
sputando sulla novella del libero arbitrio)
E noi
e loro
ad invocare il carma
per non costringere la sporca coscienza
a interrogarsi
su quel bambino dalle mani di elefante
che si arrampica sul muro come un geco
(e loro e noi
ad invocare il dono di Ganesh
per non interrogarci sul perché
delle storture orribili del corpo)
Dovremo pur decidere
– prima o poi –
se siamo somiglianti
a Chi ci guida verso la salvezza
oppure solamente
giocattoli tristi
nelle mani di un gruppo annoiato
che inventa ogni momento
un nuovo scacco matto
(da) Epilogo
Ebbene sì
adesso
il gioco del veleno non funziona
L’ultima goccialacrima
ha fatto vomitare
ogni mare ogni oceano ogni vulcano
Sono colmi i bicchieri
le anfore le botti le bottiglie
piene di sangue e merda
di ogni RetoricaPotere
Ebbene sì
Adesso è giunto
il tempo di sfondare le poltrone
sfrattare il culo grasso
– impotenti potenti senza orecchie
senza naso e cervello per capire
che non si può ingannare
chi guarda con lo sguardo panorama –
*
Ci avete fatto credere
che il mondo fosse una sorta di Giardino
dove l’erba è di tutti
Senza frutti
questa nostra attesa
MA
Il Poeta ha l’occhio del Gigante
avvolge la sfera della terra
globo imperfetto da millenni
che cerca di scuotere la crosta
e le scorie del male
È uno sguardo terribile
e benedetto insieme
capace di scrutare in ogni spicchio
senza schermi ed inganni…
MentePoeta
umile guardiano
spezza l’arma del sé
volge la TestaPanorama
verso l’altro da sé
Non abbiamo bisogno di ReMida
né del brillare dei diamanti
ma il raccolto dei corpi
e dei pensieri
dei vecchi dei bambini delle madri
E
se si spacca il vetro delle unghie
e lascia cadere solo sale
qualcuno sa
come cogliere in tempo
il frumento del Bene
Non abbiamo bisogno di Narciso
anneghi pure
nel suo stesso specchio
Oggi i volti saranno senza rughe
liberi di riflettersi
dentro i volti di ognuno
La nostra LinguaPoeta
diventa una terribile tenaglia
che tenta di recidere a ogni passo
l’intera staccionata di confine
perche ora
– che è stato oltrepassato
ogni confine
della decenza –
possa purificarsi ogni liquame…
Le nostre mani
non hanno cinque dita
sono coppe dell’olio della mente
(anche se sanno diventare
vasi scrostati di Pandora
quando il vento
si fa violenza)
Nessuno osi battere martelli
e legni e cinghie sulle nostre mani
perché il dito opponibile
non è dono precario
ma sistema
per recidere il MitoFalsoMito
quel cordone
che da sempre ci lega
all’infame placenta del dolore
Il cuore del poeta
da troppo tempo
si è spezzato invano
Adesso è tempo di chiudere ferite
sbrani brandelli cicatrici oscene
prima che i vermi
mangino ogni tèndine
del muscolo che pulsa…
Cosa cerchi
respiro del Poeta?
Ti illudi forse di essere divino?
Accontèntati
Il soffio tuo raggiunga
ogni vetta ogni abisso
ogni misura
Senza paura
è giusto navigare
nell’AgoràGlobaleImmaginaria
dove eravamo in cento
e dopo in mille
a migliaia e migliaia e poi miliardi
uniti dal linguaggio universale
creato dai cervelli del binario
Non abbiamo paura del progresso
Ora è tempo di nuovi intendimenti
del testimone
che passa col suo fuoco
da Poeta a Poeta
Artista e Artista
nell’incontro presente col passato
Ora che la distanza
prossemica natura geografia
ha portato la Terra
sotto lo sguardo di ogni creatura
con putridume e con indifferenza
ma anche con Giustizia
e con Ragione
Saremo
in ogni parte
Nei vicoli nei porti negli anfratti
dentro case comuni nelle piazze
dentro le viscere degli oleodotti
nei buchi dei MuriReligione
nelle capanne dalle pance gonfie
dentro ferraglie dei carri-carrarmati
Dentro la via silicio di internet
Ovunque il luogo
delle nostre nocche
che non temono graffio né ferita
del filo spinato e delle gabbie
– mani che stritolano il guscio
per far nascere gioia ed armonia
denti che azzannano la carne
di chi resta nel nudo
dell’ignoranza e dell’ipocrisia –
Ovunque il luogo della nostra voce
che più non grida ma canta-corifea
Ovunque
il nostro piede sa danzare
nel Giardino del Mondo
Non nell’Eden di miti ormai vissuti
Ma dentro la realtà della Ragione
MadrePoeta
il tuo cordone lega
infiniti bambini
feti senza fetore
corpi e pensieri nati
dal sentimento estremo dell’amore
Cara Pina,
l’analisi minuziosa e attenta fatta da Linguaglossa nella sua critica al tuo poema, coglie tutta l’essenza del tuo essere poeta “oggi”. I tuoi versi toccano l’animo, lo scuotono e lo portano a riflettere su questo nostro vivere sempre più superficiale ed egoistico. Grazie di regalarci, attraverso le tue parole, momenti di vera poesia. LuogoMondo è sinceramente il massimo, fattelo dire, anche se lo detesti, SEI BRAVISSIMA!! Sono molto orgogliosa di avere una cognata come te. Ti voglio bene.
LuComplimenti giuseppina!!!!!!!Luogomondo è via, catarsi e salvezza a portata di coscienza
Cara Pina, sei GRANDE!Il tuo stile e la tua profondità di pensiero sono inimitabili. Grazie per essere tra i miei affetti
Molto bello il linguaggio al pari delle tematiche trattate. Tutto estremamente attuale: anche la musicalità dura e forte scandita dalle molteplici allitterazioni.
Vorrei essere uno di quei Poeti che prende il testimone da Giuseppina e lo passa…
Un caro saluto,
Rosaria Di Donato
Un’opera superba per il tempo in cui viviamo, ma lo sarà per sempre. Grazie Pinuccia. Mi manchi e mi mancherai sempre di più.