Il decreto del non fare
Il “decreto del Fare” ha l’ambizione di dare un spinta all’economia attraverso una ottantina di misure: alcune di puro buon senso, altre discutibili, altre che sostanzialmente ripropongono provvedimenti già adottati dal governo Monti. Il bilancio complessivo è deludente, perché l’impatto del decreto sarà molto modesto e non contribuirà a rilanciare lo sviluppo.
di Civil Servant su Micromega del 18 giugno 2013
A scuola copiare è vietato, mentre al governo sembra sia concesso “reiterare” gli stessi provvedimenti leggermente modificati, ma senza finanziamenti aggiuntivi, e confusi tra petizioni di principio e norme di scarso impatto. Il decreto “Fare” non sfugge a questa tradizione. Si tratta del primo atto sostanzioso di questo governo, che in due mesi si è riunito nove volte per rilasciare solo provvedimenti essenzialmente formali (come quelli per la nomina di ministri e viceministri), di ordinaria amministrazione (come il riconoscimento dello stato di emergenza in varie aree) o semplicemente interlocutori (come la sospensione dell’IMU). Non è un caso se il Wall Street Journal, non senza una sottile ironia, ha tradotto “Fare” con “To do”, che è l’espressione che solitamente si riserva alle liste delle incombenze quotidiane.
Il decreto ha l’ambizione di rilanciare l’economia attraverso una ottantina di misure, alcune di puro buon senso, altre che sostanzialmente ripropongono provvedimenti già adottati dal governo Monti rispettivamente per “salvare” l’Italia, per “farla crescere” o per “semplificarla”. Stupisce che in tutto il decreto siano stati sostanzialmente ignorati quasi tutti i preziosi suggerimenti dei “Saggi” (alcuni dei quali divenuti nel frattempo anche ministri) che, secondo le intenzioni, dovevano guidare l’azione del governo nei prossimi decenni.
Il provvedimento comprende, in primo luogo, alcune norme “sblocca cantieri”, che in sostanza autorizzano il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (appena scorporato da quello dello Sviluppo), a sborsare circa due miliardi per il completamento di varie opere infrastrutturali. Qui i casi sono due: o quelle opere erano già state finanziate, ma poi non erano stati erogati i fondi necessari; oppure i costi sono lievitati a tal punto da richiedere una integrazione. Nel primo caso, lo “sblocca cantieri” è poco più di un atto di diligenza contabile, nel secondo è il condono tombale per errori di programmazione, inadempienze, ritardi e furbizie varie. Non a caso, scorrendo la lista degli interventi, troviamo i soliti noti: miglioramenti della rete ferroviaria; Pedemontana Veneta e Tangenziale Esterna Est di Milano; le strade siciliane; la Rho-Monza; la A24 e A25, che aspettano la costruzione della terza corsia a carico dei concessionari da almeno una ventina di anni; un po’ di metropolitane a Milano, Roma e Napoli, che finora hanno prodotto solo strade bloccate da cantieri infiniti. Manca solo la Salerno-Reggio Calabria, che ormai era stata oggetto di troppi decreti precedenti per essere presentabile.
Come da un po’ di tempo a questa parte, anche nel decreto Fare, il rilancio dell’economia passerebbe attraverso la panacea della semplificazione. Si parte dalla semplificazione delle norme portuali, che evidentemente erano talmente rigide da non aver impedito che una portacontainer in manovra salisse su una banchina e distruggesse una torre di controllo. Si procede attraverso la semplificazione delle norme edilizie, forse prendendo atto che ormai nessuno vigila più sulla loro applicazione. Si continua con l’abolizione dei certificati medici “inutili”, che tanto erano già prodotti a stampone da agenzie compiacenti. Resteranno invece in vigore gli altrettanto inutili certificati richiesti ai lavoratori in malattia, rilasciati generalmente “sulla parola” da annoiati medici di famiglia e che comunque non hanno alcuna utilità concreta in mancanza di controlli da parte dell’Inps. Si abolisce invece il modello 770 telematico mensile, che serviva a certificare il versamento delle ritenute fiscali e previdenziali dei dipendenti. Così sarà più difficile scoprire i casi di inadempienza da parte del “sostituto di imposta”. Finalmente si abolisce anche l’obbligo di identificare i fruitori delle reti Wi-fi pubbliche, che per fortuna era già largamente ignorato da chiunque mettesse a disposizione una connessione internet per i propri clienti o vicini di casa. Si “semplifica” anche la gestione di cave, pozzi e rifiuti, notoriamente gestiti da club di gentiluomini che mai si sognerebbero di approfittare di regole meno stringenti. Con l’occasione, si chiude la partita della gestione dei rifiuti in Campania e Lazio. Ma l’apoteosi della semplificazione è la predisposizione di un piano nazionale per le zone a ‘burocrazia zero’, che dovrebbero essere qualcosa a metà tra una riserva naturale (ma senza rangers!) e un paradiso fiscale.
A nessuno viene in mente di “semplificare” anche la disciplina sui lavori fuori-orario dei dipendenti pubblici, che finora ha creato soltanto un groviglio di dichiarazioni e autorizzazioni telematiche che non frena la corruzione e il lavoro nero, ma solo le prestazioni alla luce del sole, e che non stimola in alcun modo la produttività dei travet durante l’orario di lavoro, anzi assorbe risorse non trascurabili per la gestione di pratiche e database. Come pure resta immutata la disciplina che costringe a passare per il medico di famiglia o per la ASL per convalidare parecchie prescrizioni di uno specialista e, viceversa, da uno specialista per ottenere la prescrizione di esami e farmaci appena appena più sofisticati del solito. Per non parlare della validità delle prescrizioni farmaceutiche esclusivamente all’interno della regione di residenza, alla faccia del carattere nazionale del servizio sanitario. Ma forse i vagabondaggi dei malati e dei loro parenti tra studi medici e uffici delle ASL creano occasioni di sviluppo per taxi e benzinai.
La parola “semplificazione” è talmente taumaturgica da essere stata usata come grimaldello anche per azioni doverose, come il riconoscimento della nazionalità a chi è nato da genitori stranieri ma vive da sempre in questo paese e spesso non ha neanche la minima idea della lingua e delle tradizioni dei paesi di origine dei genitori.
Il ritardo dell’economia italiana viene ormai unanimemente addossato essenzialmente ai ritardi della Pubblica Amministrazione, rea di centellinare senza motivo autorizzazioni e certificati bloccando gli animal spirits (altrimenti esuberanti) degli imprenditori. Sembra invece che la mancata capacità di controllo che quasi sempre provoca questi ritardi sia irrilevante. Nel decreto Fare, infatti, si tralascia quest’ultimo trascurabile problema e si promette senz’altro un indennizzo per i cittadini e le imprese danneggiate dai ritardi. Naturalmente l’indennizzo è dovuto solo dopo una procedura interminabile: il ritardo deve essere tale da far intervenire qualcuno che subentri al funzionario ‘ritardatario’; da quel momento scatta un principesco risarcimento di ben 50 euro al giorno fino a un massimo di 2.000 euro; ma se l’amministrazione non provvede alla liquidazione dell’indennizzo il cittadino si deve rivolgere al giudice amministrativo “con una procedura semplificata”. Se, come è probabile, anche il giudice ritarda, allora si entra in un loop infernale di ritardi e richieste di indennizzi senza fine.
La cosa curiosa è che tutti questi lacci e lacciuoli burocratici che frenerebbero il dinamismo degli imprenditori italiani non sono stati sufficienti a scoraggiare il proliferare delle microimprese, tanto è vero che da noi la dimensione media di un’impresa è di appena 3,9 addetti, mentre nella “semplice” Germania è di 12 occupati. Evidentemente i nostri imprenditori preferiscono combattere contro i terribili uffici pubblici italiani, più oppressivi di quelli sovietici, pur di perseguire i propri progetti individuali, e generalmente questa lotta impari viene condotta con il solo aiuto dei propri familiari, visto che oltre il 70% delle imprese italiane è a conduzione familiare. Ma il decreto Fare, come i suoi predecessori, non sembra (pre)occuparsi troppo di quest’altro trascurabile aspetto dell’anomalia italiana.
L’altra parola magica del decreto è “digitale”. Si parte con un’ottima idea: quella di assegnare una casella di posta elettronica certificata (PEC) a chiunque la richieda. Peccato che la richiesta sia legata a quella di una carta d’identità elettronica, ovvero un pezzetto di plastica, non troppo dissimile da qualsiasi card dei supermercati, che incomprensibilmente è rilasciata (col contagocce e a costi proibitivi) solo da pochi comuni. Inoltre il rilascio della PEC è solo una facoltà e non un obbligo, quindi è presumibile che non la richiederà chi prevede di dover ricevere multe, provvedimenti giudiziari o altra corrispondenza sgradita. L’altra ottima idea è che l’informatica sia usata anche per certificare il consenso preventivo alla donazione degli organi e per costruire un fascicolo sanitario personale, che eviti errori e perdite di tempo in caso di emergenza. Resta da vedere se le ambulanze e gli ospedali saranno dotati di strumenti e collegamenti per connettersi tempestivamente agli archivi centralizzati. Ma anche di questi trascurabili particolari il decreto Fare non si occupa.
Per essere sicuri che la “digitalizzazione” del paese proceda speditamente, il decreto affida il coordinamento di tutta l’operazione a un certo Caio, nominato sul campo “Mister agenda digitale” esponendo il pover’uomo a facili e pesanti ironie. Speriamo almeno che non finisca come con “Mister prezzi”, di cui si son perse le tracce.
Il fiore all’occhiello del decreto è la riforma della giustizia civile. Dopo la bocciatura della “mediazione” da parte degli utenti, prima che della Corte Costituzionale, il governo ci riprova. Sarà nuovamente obbligatorio per i litiganti comparire davanti ad un mediatore che non ha alcun potere di dirimere le controversie, ma solo il compito di esortare le parti ad un compromesso. Naturalmente sono esentate le assicurazioni, che potranno così continuare a tirare per le lunghe per gli indennizzi su incidenti, i rimborsi sanitari e le prestazioni dei fondi pensione. Il bello è che, anche dopo la mediazione, le parti sono libere di rivolgersi alla giustizia ordinaria con una minima penalizzazione. E’ comprensibile che un meccanismo del genere sia stato largamente snobbato dai cittadini e dalle imprese.
Oltre alla mediazione, il decreto prevede una task force composta da ben 30 magistrati ordinari assegnati alle sezioni civili della Corte di Cassazione; 400 giudici non togati (diciamo pure “volontari” che però non hanno superato alcun concorso in magistratura) mandati in soccorso delle Corti di Appello; un numero imprecisato di giovani laureati in Giurisprudenza “meritevoli” che affiancheranno i giudici civili nell’ambito di stage (non retribuiti). Possiamo solo immaginare quanto possano essere imparziali dei giovani e dei giudici “non togati” che, in massima parte, aspirano a lavorare presso gli studi legali delle parti convenute. Ma il dubbio principale è un altro: cosa fanno in questo momento i 30 magistrati che verranno mandati a fare gli straordinari in Cassazione: si occupano di quisquilie con risultati discutibili oppure lasceranno, a loro volta, dei posti vacanti? E se bastavano solo 30 supermagistrati a risolvere i problemi della giustizia, perché il CSM non aveva già provveduto? De minimis non curat lex, decretum neque. In ogni caso il governo prevede che questo insieme di provvedimenti ridurrà magicamente il contenzioso arretrato di oltre un quarto in cinque anni. I dettagli tecnici della stima sono ignoti.
In compenso, il decreto si premura di concentrare esclusivamente presso i tribunali e le corti di appello di Milano, Roma e Napoli le cause che coinvolgono gli investitori esteri, in barba al principio del giudice naturale. Così le multinazionali non dovranno pagare trasferte ai loro avvocati, ma molti cittadini italiani che si ritengono danneggiati dovranno prevedere delle spese aggiuntive.
Viste le premesse, speriamo il decreto Fare non sia seguito anche da altri che si intitolino rispettivamente Dire, Baciare, Lettera e Testamento, come in un noto gioco per bambini. Sul divieto di dire e baciare si è espresso recentemente il governo turco, delle lettere (elettroniche) si è occupato quello americano, ma non osiamo immaginare il contenuto di un eventuale decreto Testamento.
MA UN VERO MANICOMIO QUESTO GOVERNO! I GOVERNI ITALIANI NON CAMBIANO AFFATTO, CONTINUANDO LA TRADIZIONE SECOLARE NATA COI GOVERNI ROMANI.
QUESTI ERANO I CAMPIONI, FABBRICANTI DI LEGGI SOFISTICATE, METICOLOSE, MA CHE POI VENIVANO CLASSATE ”TABLETTÉES” COME DICONO OGGI I FRANCESI … IL RISULTATO ERA CHE NESSUNO LE APPLICAVA, MENTRE SENE PREPARAVANO ALTRE, CONVINTI CHE SAREBBERO STATE MIGLIORI DELLE PRECEDENTI.
È ORMAI CONOSCIUTO DA TUTTI IN EUROPA E NELLE AMERICHE CHE L’ITALIA È ”UNE REPUBLIQUE DE BANANE”.