Presentazione Atti Convegno A. Porta
26 novembre 2012 – Sala del Grechetto, Biblioteca Comunale Sormani di Milano
Notazioni e interventi di:
A. Vaccaro, N. Lorenzini, G. Turchetta, J. Picchione, F. Catalano, G. Zosi, G. Ferri
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Adam Vaccaro
Vorrei dare a questo incontro forma di lettera aperta (radice, tensione e nome di letteratura), tra le forme scelte da Antonio Porta, che (lo ricorda Niva Lorenzini nella sua nota inviata per questo incontro), come suoi destinatari ci chiamò “carissimi”.
E allora, carissimo Antonio/Leo, siamo qui a tentare di risponderti, immaginando che tu sia lì, assenza presente in fondo alla sala ad ascoltarci. Siamo qui, destinatari uguali e diversi, distanti e adiacenti, rispetto alla tua persona prima di tutto, che è altro e insieme materia viva della tua scrittura. Siamo qui a cercare di dire cosa sei per noi in un auspicabile incrocio di levità e densità.
Sono passati tre anni da quel convegno del 2009 e con volontà, impegno e i pochi mezzi di Milanocosa abbiamo pubblicato questi Atti, che ti offriamo e offriamo al pubblico, sperando vengano accolti e raccolti con amore e sostegno concreti, in modo da aiutarci a ricostituire mezzi necessari per proseguire.
Carissimi è un approccio consono a quella che Antonio chiamò “sfida della comunicazione”, sfida volta a coniugare complessità e transitività. A tale proposito, diceva che “la comunicazione non è un piroscafo di linea”, ma una azione tesa a mettere in comune, nella storia, non in un alveo astratto o libresco.
Ma qual è il nucleo fondante di questa e altre ossessioni di una poesia che si caratterizza per densità, visionarietà e presenza carnale del suo Soggetto Scrivente? Carnalità, beninteso, come materia della nostra totalità, senza la quale gioia e dolore, e ogni altra cosa della vita, rimangono aloni spirituali distanti e non forze adiacenti, presenze innervate nella nostra precarietà vissuta.
Credo che il centro generatore della poesia di Porta sia – come ricordo anche nella mia nota di curatela – la ricerca incessante di una poesia antropologicamente utile, che non confligge col rifiuto di una utilità mercantile e strumentale: una poesia che non vuole porsi né sopra né ante le cose del mondo, ma segno e forma che cerca di dare corpo a una presenza in re, cosa tra le cose, nella storia personale e collettiva, senza la quale diventa evanescente la tensione alla totalità della vita, altro punto fondante una poesia degna di questo nome e che Porta persegue, con umiltà ma anche con il rifiuto di qualunque declinazione parnassiana da chierici auto appagati: “i versi ci servono, noi non vogliamo servire i versi”, diceva, sintetizzando. E aggiungendo: “noi non vogliamo servire l’estetica”.
Cosa, dunque, come complessità di visibile e invisibile, conscio e inconscio, domanda inesauribile posta al mondo e alla vita, quale quella intesa (posso dirlo?) con Milanocosa.
Estrapolando, direi, poesia in azione, come sentire, capire e vedere criticamente il mondo. Una critica che tende a farsi, come dice Umberto Eco, “ghiotta ma irritata”, che rifiuta illusioni e toni piangenti, ma riafferma la necessità di continuare a dare corpo all’utopia: “Non smettete di delirare, è il momento dell’utopia”. Citazioni che riprendo dall’intervento di Gianni Turchetta.
Per tutto questo, il linguaggio della poesia tende a farsi linguaggio totale e a inglobarne ogni altro, speculativo e dei sensi.
Questo implica incessanti innesti e sperimentazioni tra forme diverse, segni e arti visive, musica ecc., di cui Porta e questo convegno hanno offerto esempi. Una cosa molteplice capace di riflettere la nostra molteplicità, come ha cercato di fare negli ultimi 12-13 anni – consentitemi di ricordarlo, visto che è stato lo strumento di realizzazione anche questi Atti – la serie di iniziative messe in atto da Milanocosa.
Niva Lorenzini
Se devo condensare in estrema sintesi l’elemento che più mi ha fatto accostare alla poesia di Antonio Porta fin dall’inizio degli anni settanta, e che ha continuato a farmela amare sino a oggi, è il grado di “accrescimento di vitalità” che essa contiene.
Un “accrescimento” da intendere proprio in senso leopardiano, come indicava Alfredo Giuliani introducendo l’antologia dei Novissimi, che obbliga chi si impegna a praticarlo ad affrontare la realtà restituendone la violenza, la crudeltà, così come il dinamico processo di metamorfosi che la attraversa, mediante choc linguistici.
Mi pare di avere detto tutto: qualunque testo si scorra di Antonio Porta esso produce, ora come allora, l’effetto immutato di immettere nel testo la fisicità dell’atto, la sonorità della voce, la sorpresa del gesto verbale in grado di disgregare ogni automatismo, mettere in crisi ogni remissiva ripetizione del già dato.
Resta viva, questa poesia, resta giovane, come è e resta giovane, nel nostro tempo così deprivato di progettualità, il progetto infinito che Antonio Porta ha affidato a noi, che ha chiamato, un giorno, “carissimi”.
Gianni Turchetta
Il poemetto Europa cavalca un toro nero (1958) mette in scena un universo urbano carico di violenza e di morte, nel quale però balenano tuttavia, problematicamente, segnali di un futuro possibile, e di una positività forse non meno irriducibile del conclamato negativo. Rileggiamone il finale:
Urla una donna, partorisce,
con un bambino percosso dalle cose.
Con un colpo di uncino mette a nudo
l’escavatrice venose tubature,
e radici cariche di schiuma
nel vento dell’albero antico,
spasimano, gigante abbattuto.
Quattromila metri di terriccio
Premono le schiene, e un minatore
In salvo ha mormorato:
«Là è tutto pieno di gas».
Un attimo prima di scivolare
Nella fogna gridò: Sì.[1]
Davanti a una scavatrice, il lettore di poesia novecentesca non può fare a meno di ricordare la memorabile chiusa di Il pianto della scavatrice di Pasolini, dove lo sterro dei lavori in corso si fa allegoria del moderno e della vita tutta, condensando fino allo strazio una contraddizione senza scampo: la scavatrice infatti fatalmente distrugge proprio perché costruisce o ripara;
………………..
Nel passo citato Porta accomuna e sovrappone, significativamente, il naturale e l’artificiale, connotando le tubature scoperte dalla violenza della scavatrice come “venose”, e al tempo stesso sostituendo la linfa delle radici con più perturbanti e poco attraenti “schiume”, che già preparano la “fogna” dell’ultimo verso. Tuttavia, comunque li si voglia leggere, è impossibile non notare che in questi versi la donna urla, ma partorisce, anche se il bambino è “percosso dalle cose” (viene da dire: come tutti); e, ancora, “«Là è tutto pieno di gas»”, ma nonostante la tragedia incombente il minatore è salvo. Soprattutto, e nonostante tutto, il poemetto si chiude con un inequivocabile “Sì”, che è con ogni evidenza una proposta attiva, una resistenza all’orrore del mondo, ma comunque anche una spinta verso la vita e il futuro: è un’affermazione, appunto, la più semplice, e perciò anche la più chiara.
Sono molti i passi di Porta che potrebbero portarci ad analoghe considerazioni. Mi limiterò a citarne un altro, da Passeggero, un poemetto dedicato al fratello Mario, scomparso precocemente nel 1975:
disteso in una piccola barca
un metro al limite da una meta
allunga un braccio la mano non trova
l’immagine distesa sul muro è corpo
non ci sono odori e un suono stridente
un albero immerso nell’acqua si fa vicino
ali minuscole sbattono all’intorno
ombrelle estive attraversano la luce
bocca che inghiotte le sue labbra
appoggia una mano all’ombra si mette
seduto e dice: ancora[2]
Si intravedono peraltro dietro il “Sì” e l’“ancora” altri possibili intertesti, a cominciare dal “dire di sì alla vita” di Zarathustra, e proseguendo naturalmente col monologo di Molly Bloom, a proposito del quale Porta, introducendo Europa cavalca un toro nero, è di nuovo del tutto esplicito, anche e proprio in relazione ai significati di positività finale:
il «Sì» finale è la citazione dell’ultima parola dell’Ulysses: «and I said yes I will Yes». Questo «Sì», nonostante tutto, non mi ha più abbandonato.[3]
[1] Antonio Porta, Europa cavalca un toro nero, in I rapporti. Poesie 1958-1964, Milano, Feltrinelli, 1966; ora in Antonio Porta, Tutte le poesie (1956-1989), a cura di N. Lorenzini, Milano, Garzanti, 2009, p. 81.
[2] Antonio Porta, Passeggero, X, in Quanto ho da dirvi, Milano, Feltrinelli, 1977; ora in Tutte le poesie (1956-1989), cit., p. 583.
[3] Ivi, p. 10.
John Picchione
La distanza e gli impegni di lavoro non mi permettono di partecipare alla presentazione degli Atti del convegno milanese sull’opera di Antonio Porta. Invio queste mie brevi riflessioni e ringrazio calorosamente Adam Vaccaro dell’invito e tutti i partecipanti per l’attenzione.
Dalle sue prime prove Antonio Porta abita uno spazio culturale e intellettuale che mette in crisi modelli tradizionali di scrittura e genera nuovi progetti letterari. Le tensioni espresse dalla Neoavanguardia gli forniscono, agli inizi, preziose opportunità di riflessione e di creazione. La sua scrittura si fa portatrice della consapevolezza dei grandi temi che investono la cultura di quegli anni: lingua, linguaggi e alienazione; letteratura e ideologia; letteratura al confronto con le altre arti; letteratura e mercificazione; messa in crisi del concetto di mimesi e delle forme naturalistiche di rappresentazione. Fenomenologia, espressionismo, musica e cinema sperimentali forniscono stimoli notevoli di rinnovamento. Ma bisogna subito evidenziare che profonde esigenze esistenziali sono sempre alla base delle motivazioni di tutta l’opera di Porta.
Quella di Porta è una scrittura nomade, ansiosa di attraversare territori inesplorati. Infatti, tutta la sua produzione, dalla poesia alla narrativa al teatro, è segnata dal rifiuto di soste univoche e definitive. La letteratura, la poesia in modo particolare, è per Porta un interminabile viaggio linguistico ed esistenziale teso verso la ricerca di altri possibili inizi. Al pericolo di cristallizzazione di forme e di modelli letterari, Porta contrappone la necessità del mutamento e della sperimentazione. È per questo che la sua scrittura si carica di tensioni e irrequietezze che da un lato rivelano lo sforzo costante di esplorare le inesauribili potenzialità del linguaggio e, dall’altro, si presentano come ostinati tentativi di avvicinamento al reale. La vitalità impressionante della scrittura di Porta nasce, dunque, da una indissolubile dialettica tra desiderio di rinnovamento espressivo ed urgenza di misurarsi con le mutevoli manifestazioni dell’esistere.
Le ambiguità e le lacerazioni semantiche, il disordine e la frammentazione sintattica, le dissonanze e le discontinuità ritmiche, il montaggio di eventi traumatici, la contrazione dell’ “io”, gli orrori e i disfacimenti fisici e psichici fanno parte di uno sconvolgimento che nasce dalla necessità di liberare il proprio mondo e quello del lettore dagli accecamenti che minacciano il vissuto. Alla poesia è affidato il tentativo di costruire versioni alternative di vita. La visione del tragico è motivata da una tensione conoscitiva che esprime lo sforzo di rendere trasparenti le condizioni dell’esistere individuale e collettivo. In Porta, comunque, non trovano luogo verità trans-storiche e trascendenti; le sue non sono mai conquiste assolute: “Affondo in fitte vegetazioni, ricoperto/ di formiche e di foglie. Mastico piume,/ è quasi la conoscenza”, dicono i versi di Dialogo con Hertz.
Una costante osmosi tra direzione centripeta e tensione centrifuga, tra esplorazione del linguaggio e sete di realtà accompagna tutta la sua opera, da La palpebra rovesciata a Metropolis, da Week-end a Melusina, a Il giardiniere contro il becchino. La poesia demolisce le ossificazioni delle forme e le banalizzazioni culturali che paralizzano i nostri incontri col mondo, ma costruisce allo stesso tempo. Essa esibisce la violenza, le atrocità sociali, la logica mortificante dell’organizzazione capitalistica, ma esprime al contempo la coscienza utopica di altri mondi possibili, lo slancio liberatorio del nomade, del viandante che accompagnato dalla forza della poesia si apre passaggi per mettere in atto conversazioni salutari. Si pensi, ad esempio, ai bellissimi testi che compongono “Rimario” (Week-end) in cui si assiste a una grande energia polisemica del linguaggio, intesa come possibilità di recuperare forme comunicative fresche e non contaminate.
Corporalità e messaggi pre-verbali, vitalità dell’ eros e scrittura, voce e silenzio, assenza e desiderio, poesia e esteriorizzazione del rimosso, apparizioni dell’io e incontri con l’altro, rovine sociali e speranze rigenerative, orrori della storia e pulsioni di vita: questi sono i grandi temi che attraversano tutta l’opera di Porta. Lo scavalcamento e la dilatazione dei generi (poesia in forma di diario, di lettera, o di fiaba) danno voce a un registro stilistico mobile, polifonico, che corrisponde alla predisposizione del soggetto a dilatarsi e a vivere la propria alterità. In testi come quelli di Invasioni, il linguaggio di Porta può diventare luminoso, fulmineo, surreale: “rinchiuso nell’armadio/ l’aquilone/ vola nella mia mente”; “farfalle di luce volano giù dalla montagna/ gli scorpioni si acquattano”. Le figure del passeggero, del nomade, racchiudono un’irrequietudine che spinge verso nuovi accampamenti (“quanto lo desidero/ soffiarmi in un soffio/ lama orizzontale della chiarità,/ quando tutto dimostra un fine preciso/ allora scartare, non dire più nulla/ ascoltare la ferita che si riapre/ muove un gorgoglio prima della sordità/ a sguardo aperto scoprire/ altre ferite gorgoglianti”). Alla voce poetica basta sapere di aver tentato una vita (“vivere un intero mattino,/ questo è un risultato, la mia lingua batte su questo mattino,/ voi stelle estranee siete dove siete / io rimango al di qua/ in preda al vento”). Al nomadismo della scrittura corrisponde l’interminabile avventura del dialogo col mondo: “Abbiamo da tirar fuori la vita/ da troppi cumuli/ di morti/ ma ci affondiamo le mani/ e tiriamo fuori”.
Quest’orientamento è rilevante anche in Yellow, la raccolta pubblicata postuma che contiene testi per lo più inediti cui Porta stava lavorando negli ultimi anni di vita. Anche qui l’interrogazione non approda a certezze rassicuranti o a risposte assolute. La poesia di Porta continua a nutrirsi di tensioni, scontri, e conflitti. La struttura portante di tutti i componimenti qui raccolti è infatti costruita dalla figura dell’antitesi, dell’antinomia: buio e luminosità, morte e rinascita, eros e angoscia, calore e gelo, verità e menzogna, desiderio e assenza. Le fratture e le dicotomie dell’esistere si abbattono sulla parola, sulla scrittura stessa che rincorrendo il vero non riesce a districarsi dalla dinamica dello svelamento e dell’occultazione, della trasparenza e del vuoto. Le ambivalenze e le lacerazioni del vissuto non si cancellano, ma la poesia agisce come strumento terapeutico di contatto col mondo (“per penetrarti come meriti,/ puttanapoesia,/ per farti inginocchiare/ e dire la verità”; “do per scontato/ il male e cerco il bene, disperata-mente”). Tramite la forza del linguaggio (“Prego che la poesia…/ voglia sgorgare adesso liquida/ musica su un pozzo inesauribile”) si riesce a sondare i fondali più profondi della psiche, le rimozioni e le energie vitali. La scrittura si muove tra la memoria dei dolori della psiche (in particolare la serie finale “Poemetto con la madre”) e desideri di riparazione e di spinte rigenerative, come in “La posizione fetale” (“sogna/ un’altra madre, un altro utero trasparente”). Tuttavia, anche in questa raccolta l’acuto sforzo autoriflessivo della poesia svela la presenza di una parola che conosce anche l’agonia, l’aridità della voce, l’assenza del “canto”, la castrazione dei segni verbali (“e la febbre che non mi abbandona/ e la fame e la sete/ e la mia bocca arida da sempre”; “il suo canto è bloccato”; “io agnello/ rimango qui a belare/ come si fa a cantare”; “il canto è questo sibilo di castrato”).
Per questa ragione la poesia di Porta non può mai ostentare un “io” lirico tradizionale in possesso di un “canto” poetico acquietante. La narcosi del narcisismo poetico non rientra negli orizzonti di un poeta nomade. Un soggetto in progress è alla base dell’identità del viandante senza dimora, accompagnato nei suoi viaggi solo dal “progetto infinito” della poesia. È questa ricerca irrequieta a rendere l’opera di Porta una delle espressioni più intense e incisive del secondo Novecento.
John Picchione (York University)
Francis Catalano
Signore e signori buonasera. È per me un privilegio tornare a Milano, anche se solo con il pensiero, tre anni dopo la tenuta del convegno Il giardiniere contro il becchino Memoria e (ri)scoperta di Antonio Porta. Con rinnovato piacere rivivere come se fosse ieri quella serata magnifica in compagnia di coloro per i quali, come per me, la poesia di Antonio Porta resta un catalizzatore per la scrittura e una fonte d’ispirazione, mentre per altri è materia di studi appassionante, e per altri ancora semplicemente una lettura coinvolgente. La presentazione degli Atti del convegno è quindi un’occasione per me di salutare le persone straordinarie incontrate allora e quelle presenti in questa serata, e ringraziare di cuore Milanocosa e Adam Vaccaro per aver reso possibile questa pubblicazione.
Quando ho iniziato la traduzione di Yellow non avrei mai pensato di poter entrare cosí nel vivo delle preoccupazioni estetiche del poeta. Mai sono arrivato cosí vicino a quell’enunciato contenuto in Fare poesia in cui Porta confessa : «Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne molte». Traducendo i suoi appunti sparsi, i suoi stati d’animo, le prime stesure di romanzo, gli embrioni delle sue poesie adatti per un diario, compresi che Porta aveva fatto della ricerca poetica una necessità e che lo sperimentalismo a cui lo vogliamo associare mostra la profondità di un’esperienza di scrittura mai soddisfatta per intero, sempre proiettata verso nuove mete. Capii che Porta non è sempre l’autore di uno stesso libro ma che ha sperimentato diversi approcci estetici.
Pochi sono i poeti che come lui sono riusciti a mostrare i limiti imposti dalla forma. La sua scrittura, all’insegna della apertura, affamata di forme plurime, rappresenta di fatto un affronto rivolto ai modelli prestabiliti. Verso la fine del suo percorso poetico, come ho appreso da un testo di John Picchione, Porta si indirizza verso una sfida orizzontale della comunicazione, sfida che esprime la necessità di uscire da un linguaggio poetico ripiegato su sé stesso per affrontare più apertamente l’interlocutore. È anche la forma-diario, decisiva nelle pagine di Yellow, in cui il poeta rifiuta una verticalità lirica per dare libero sfogo alla materialità e alle angosce del quotidiano.
La poesia secondo Antonio Porta è un mutante, è instabilità, trasformazione, proiezione verso qualcosa che ancora non esiste ma la cui immagine già si riflette, comincia a prendere forma. Scrivere una poesia dopo averne sperimentato l’impossibiltà, ecco la sfida che il progetto portiano sembra sempre voler accettare. Il destino tragico della poesia è nel sapersi mai compiuta, impossibile da terminare e di conseguenza anche il compito che spetta alla traduzione è senza dubbio quello di cogliere questa imcompiutezza e questa impossibilità, di cercare di salvarle dal loro destino affinché, grazie al processo linguistico, venga salvaguardato l’impeto creativo più dell’opera stessa. Grazie e auguro a tutti una buona serata.
Montreal, 18 novembre 2012
Giuliano Zosi
Alcune note a proposito di musica-poesia nel mio rapporto di compositore con i testi di Antonio Porta
Le ragioni che mi hanno spinto a collaborare con numerosi poeti nella mia vita di musicista sono da ricercare nella mia fede, sia nell’incontro delle arti sia nell’incontro tra le arti e le scienze, ma soprattutto nella convinzione della necessità dell’epoca attuale di un reciproco stimolarsi tra artisti di discipline diverse sulle esperienze linguistiche e di pensiero. Tale intento mi è stato facilitato dalle esperienze base della mia vita di musicista in rapporto con i testi poetici di personaggi della cultura come Antonio Porta, Antonietta dell’Arte, Daniele Oppi, e ultimamente dal poeta Adam Vaccaro, Presidente dell’Associazione Milanocosa, personaggi appartenenti al campo della poesia e della pittura che hanno rappresentato il motore attivo di stimolazione all’operare nel campo interdisciplinare e all’apertura verso nuovi fronti del pensiero e dell’operare artistico .
Negli anni 80, Antonio Porta, Giovanni Raboni, Mario Spinella e Gianni Sassi perpetrarono, e nella loro produzione artistica e nell’indimenticabile iniziativa, il festival internazionale Milano-Poesia, attraverso una dichiarata sfida alle leggi dello spettacolo tradizionale, tentando vie nuove con interventi e forme diverse: punto focale della cultura milanese di quell’epoca con poeti, poeti sonori, compositori, e artisti visivi di qualsiasi tendenza.
l mio incontro, avvenuto qualche tempo dopo la morte prematura di Antonio Porta, con la sua poesia, fu favorito dal pittore Daniele Oppi, allora Presidente del gruppo ‘Il Raccolto’. Al mio arrivo in casa Porta, la moglie del poeta, Rosemary, fu estremamente gentile e disponibile a fornirmi tutti quei testi del poeta che fossero più che attuali e adatti ad essere musicati.
La mia scelta cadde immediatamente su dei brevi testi di intuizioni, lampanti di luce che venivano dalla pubblicazione ‘Invasioni’ (1984), che come ho già, in altro scritto, dichiarato rivelano una “visione, presente, attiva, minimale dell’attimo fuggente, (Il presente che si proietta senza indugio verso il futuro), e allo steso tempo, un vuoto temporale dove emerge il momento simbolico e interiore. Qualcosa, dunque, di molto vicino all’intuizione musicale, alla determinazione dell’attimo che fugge e si rinnova in attimi successivi, in puri suoni. Cosicché tale sintesi intellettuale, emotiva e comunicativa fu per me centro galvanizzante di una serie di meditazioni musicali scaturenti ciascuna da un momento poetico.
Non mi sembravano, i testi di Antonio Porta, ideali per essere musicati adoperando una vocalità di stampo liederistico, perché la sua poesia è troppo libera e moderna, fuori da ogni schema. Il Lied è un genere che i musicisti prediligono, cioè il testo musicato e reso melodia di un’organico strumentale, non facilmente leggibile da chi ascolta in quanto manipolato dalla traiettoria musicale; ma invece, a mio avviso, adatti a divenire centri propulsivi di una meditazione musicale che da quei testi emanava. La musica doveva quindi seguire la lettura della poesia: l’una un preludio all’altra, l’altra una coda alla prima. Nasce così la Suite ‘Attraverso(1993), che ispira ogni frammento musicale all’intuizione geniale di ogni testo scelto; ne derivano i tempi Galleria Monte Lungo, Poesia: vaso rotondo, Agonia di una lucertola, Lo specchio che hai fissato sul petto, Brivido, piacere danzabile, Furto di Primavera. Nella realizzazione scenica di questa partitura è necessario che un attore o attrice legga il breve testo, seguito immediatamente dall’esecuzione musicale al pianoforte.
La formula così come si presenta sembra qualcosa di troppo semplice per maturare un ché di nuovo. Ma è solo una prima impressione perché, nel caso specifico, la musica non cerca semplicemente di accostarsi al testo con l’idea di rappresentare ciò che nel testo è descritto. E se fosse solo questo saremmo andati assolutamente nell’erroneo, probabilmente nel faceto.
La musica si sviluppa, o per meglio dire, si inviluppa da quelle parole, per divenire un puro trasformarsi delle parole in suoni, dando voce e forma ad una successiva meditazione in termini prettamente musicali, come se poeta e musicista camminassero a una breve distanza l’uno dall’altro, ma con gli stessi ritmi e lo stesso sentire. In questo senso i suoni si sostituiscono alle parole per proiettare, nel tempo e nello spazio, una pura, distinta e geniale intuizione poetica e rendere pertanto vivibile, tale intuizione, in un’emozione senza limiti di tempo.
No so se la Suite ‘Attraverso’ si identifichi con la prima volta nella quale ho usato questa concettualità musicale, poiché i miei rapporti con testi poetici risalgono sin dagli inizi della mia produzione compositiva; ma quel che è certo è che in tale ‘Suite’ l’idea di sviluppare una forma meditativa su un testo poetico viene espressa, per la prima volta, con volontà e coerenza. Più tardi ho sperimentato ancora questa visione solamente con i testi di Donatella Bisutti, tratti dalla sua pubblicazione dal titolo ‘Violenza’.
Qualcosa che si avvicina a a tale genere di esperienza fu effettuato dal compositore francese Pierre Boulez nella sua Suite per soprano e orchestra legata a testi di Mallarmé dal titolo Improvvisations su Mallarmé, scritti tra il 1959 e il 1962 e revisionati dall’autore nel 1980, ma l’opera appare sorprendentemente ambigua e confusa, dovute soprattutto alla presenza della voce di soprano che si limita a cantare solo alcuni periodi delle liriche di Mallarmè, lasciando poi all’orchestra il compito di proseguire indisturbata, il testo risulta frastornato dall’eccessiva corporeità del tessuto sonoro e la voce sparisce senza portare a termine il testo. Il testo di Mallarmé viene cantato e non recitato, tagliato arbitrariamente, rendendosi in tal modo occulto nella sua essenza. Un errore di trattamento di un testo che andrebbe goduto nei minimi particolari che viene, se non mortificato, perlomeno minimizzato dal compositore.
Una tale operazione non poteva far parte del mio modo di lavorare che ha sempre considerato la musica, monteverdianamente, dico, monteverdianamente al servizio del testo poetico. E i testi desunti da ‘Invasioni’ di Antonio Porta, rientrati nella mia Suite per pianoforte “Attraverso”, suite di sei pezzi, due dei quali premiati al Concorso ‘Franz Liszt’, per pianisti compositori di Bellagio di quest’estate, furono considerati, da me, ideali, per essere invece vissuti come parte, non passiva, ma comunicativamente presente e importante all’affermazione di un’opera totale dove sia testo che musica vivono autonomamente, costituenti un’unità operativa. Il testo, sia come suono della recitazione, ritmo e testo poetico, sia come forma semantica, insomma, non deve sparire, passato sotto ombra, nascosto tra le righe di qualcos’altro, deve, invece, essere protagonista come la musica che lo incalza e lo segue, esistere come epifania di una nuova rivelazione di se stesso attraverso la musica, operazione legittima a svelare altri reconditi significati, e la musica, una volta iniziata, diviene portavoce di quell’agogica ritmica, di quell’altezza intuitiva esistenti nel testo poetico.
Un testo poetico, dunque, è, per un compositore, un mantra. Attraverso questo mantra la musica parte verso un viaggio alla ricerca di altri significati entro e oltre quel testo. I testi di Antonio Porta parlano fondamentalmente di quel ‘qualcos’altro’, di quell’intuizione che partendo dallo spazio e il tempo, si proiettano oltre questi parametri divenendo intuizione cosmica e, al tempo stesso, immagine reale e umana. Si veda Agonia di una lucertola, dove il suono diviene l’elemento agglomerante e unificante del dramma di un animale che si dibatte tra la vita e la morte e rivelazione del travaglio del poeta nella sua continua lotta con-con-tro e per la materia.
25 Novembre 2012
Gio Ferri
Tra coscienza e inconscio nella scrittura di Antonio Porta
L’esperienza di Antonio Porta quale coprotagonista della Neoavanguardia e in particolare del Gruppo ’63 ci ha offerto sempre, per teoria e prassi, una visione del discorso poetico legata alla convinzione di una parola che fosse non una metafora, ma un universo in sé, originario eppure insieme non estraneo alla cosa contingente e storica. Così, insieme agli ‘sperimentatori’ coevi, compagni di strada, ha essenzialmente sottolineato la negazione di un decadente soggettivismo, esaltando il valore della forma quale momento di verità oltre ogni metafisica metafora, oltre la stessa pagina considerata non tanto un ordinato e tradizionale precostituito contenitore, quanto un supporto assorbente e assorbito dalla parola. Ecco che la parola-pagina si è fatta subito oggetto, e il poeta, come un artigiano, ha lavorato essenzialmente alla materia del poiéin: fare e manipolare in metamorfosi il segno poetico. Si potrebbe suggerire in proposito, a puro titolo di esempio, qualche verso da “Cara”:
azzannano le mani/ si chinano sulle bocche/ iniettano cemento/ battono sull’accento/ vuotano gli intestini/ accumulano lenzuola/ aprono la posta/ seguono i richiami/ stringono le buste/ premono sulle palpebre/ strappano la camicia/ soffiano sopra il vento/ chiedono la grazia…
e così via per una cinquantina di versi, meglio di constatazioni oggettive, per accumulazioni cosali, blocchi semantici apparentemente conclusi, paratassi, consce o inconsce che siano.
Tuttavia, altrove, per gran parte della produzione pre – e post – ’63, Porta ci coinvolge ancora con un suo personalissimo ordine del discorso (sempre tuttavia oggettuale) che, a una lettura non approfondita, può – rispetto alle sperimentazioni delle neo-avanguardie alle quali partecipa – farci credere a un possibile discreto ‘ritorno all’ordine’, ovviamente personalissimo e non certo ubbidiente a certi ripensamenti collettivi. Ecco allora da “Week-End”:
i piedi affondano nella terra molle/ i piedi si dimenticano entro la terra molle/ smemorato si allontana con le stampelle di legno/ le gambe cedono a una svolta del sottobosco…
La sintassi potrebbe ritrovare una sua ragione narrativa, e le cose sembrano cedere ad analogie comprensibili. Persino, parrebbero superate le esperienze delle neoavanguardie, per ritornare a una poesia mimetica, seppure ‘ermetica’ (dio ci guardi da fraintendimenti storici!), e comunque criptica.
Eppure, a una più attenta e coinvolta lettura, possiamo constatare la sovrapposizione parallela, contemporanea, fra le due modalità che, solo per capirci, si potrebbero sintetizzare in semplici definizioni, fermo il valore materico-cosale della parola: un sovrapposto discorso, e una sottoposta, intima, inconscia primogenitura del poiéin. Coinvolta nel disordine del sogno, nella metafisica – persino favolistica – dell’inatteso: l’aprosdokéton (come recita un qualsiasi dizionario di stilistica “parola o espressione imprevista, usata in modo straniante”). Si sottolineino quei piedi nella terra molle, quei piedi dimenticati (per iterazione) nella terra molle…
Queste duplici circostanze tipiche della scrittura di Antonio Porta si ritrovano – pur sempre nel rispetto della considerazione di una parola poetica come cosa – in buona parte dei suoi testi:
l’autore del delitto rimase sconosciuto: e la sega/ partendo di fianco riesce a lacerare, il tutto/ abbandonando nell’ombra (“Merdidiani e paralleli”)… nel distendere dietro la nuca una parete di metallo/ nell’appoggiare le mani sopra una parete che non c’è (“Esortazione”)… so come entrare so che non si entra/ so come fuggire so che non fuggirò (“La rose”)…
E così ancora in molti testi, in cui il ‘racconto’ è disarticolato dall’invasione delle cose, e delle loro misteriche incomprensioni.
Quindi sotto la superficie talvolta lirica (mai esclusivamente soggettiva) serpeggia, venuto dall’inconscio, il démone della parola-cosa primigenia tormentata dai sogni e dalla realtà battente e aspra di segno inconscio, inarrestata, intuibile, ma sovente inspiegabile. La materia di questa sotterranea ispirazione – specialmente dal 1959 al 1964, quando ‘infuriava’ la dissacrazione: oltre a Porta, Balestrini, Miccini, Pignotti…- si esprimeva in quella che con approssimazione si diceva poesia visiva, poesia tecnologica, ready-made tipografico, collage, e simili, fino tout-court alla visual poetry (la sperimentazione veniva anche da diversi paesi d’oltr’alpe).
Che Porta proponesse fin da allora questa propensione verbo-grafico-visiva era risaputo, sebbene poco pubblicizzato. Molte opere erano conservate nei cassetti dal poeta e recentemente sono state riscoperte e raccolte da Rosemary Porta in un volume dal titolo significativo, “Poesie in forma di cosa”, con una acuta escursione critico-storica di Mario Bertoni. Dalle riproduzioni pubblicate nella plaquette emergono fascinose scritture manuali (graffiti), collages di testi da quotidiani o riviste, composti e trattati anche con – seppur analogiche, metamorfiche e solo intuibili – significazioni materiche e ‘materialistiche’ (ancora tra virgolette, ad evitare malintesi), politiche, protestatarie e cronachistiche.
Gli accumuli di segni e segnali grafici, tipografici, fotografici invadono la pagina, la scardinano, la superano, la manifestano nella loro concretezza propriamente di COSA. Veri e propri oggetti grafici. E gli accumuli medesimi, ambigui nella loro totalizzante e metamorfica espansione (o implosione) meritano la definizione di POESIA. Di grado zero della parola poetica (secondo l’espressione di Balestrini e di Porta medesimo).
Ma il démone sotterraneo esprime qui anche il suo maleficio, venendo dalle profondità misteriche, inspiegabili e inspiegate, della vita e dell’inconscio universale e personale.
Ancora da “Zelda” di “Week-End” si può riportare un tragico timore:
se tenteranno di salvarmi/ le inferriate infisse alle finestre/ quando l’incendio è già troppo avanti/ non si può uscire in nessun modo/ appoggiando le scale di legno prendono/ fuoco con pompieri a precipizio… […]/ …nessuno viene a salvarsi …solo da una pantofola sarò riconosciuta… E forse salvata?
Le poesie in forma di cosa in verità esplodono in schegge, detriti, scorie, relitti frammenti accavallantisi e con-fusi… In definitiva rimangono resti di cose spezzettate e bruciacchiate… Cumuli di immondizie, di ceneri… Disastri, per altro profetizzati…
Forse è proprio per questo che Antonio Porta trova solamente, nella confusione tragica, la sua pantofola, quella pantofola che è conservata in tutte le case…: vale a dire ritrova la linearità della sua poesia. Che tenti di nascondere (senza dimenticare), nella pacificazione della bellezza – infine anch’esse purtuttavia sono belle e fascinose – le infuocate contorsioni del démone.
(novembre 2012)
la nuova serata del 26 novembre dedicata ad Antonio nella Sala Grecchetto della Biblioteca Sormani conferma ancora una volta che la sua poesia continua a bucare la pagina, metafora che amava.
E continua a esserci in voi lettori attenti e insaziabili della sua poesia.
Carissimi, grazie.
Un forte sincero abbraccio
Rosemary
Che bella scoperta per me questo incontro con Antonio Porta! Certo, lo debbo con gratitudine ad ognuno degli esperti che lo hanno presentato, analizzato, ”saisi” e offerto in questo convegno. Grazie.