Le carte volano, Serena Maffia*
Per “salvare il basilico dalla frana”
Letizia Leone
La poesia, lo sappiamo, veicola istanze profonde ed anche quando è libera da scorie confessionali è sempre attraversata dal vento emozionale dell’io. Oggi, al di là dell’esperienza della poesia confessional, che ha visto poeti come Anne Sexton sulle barricate del femminismo, in alcuni poeti donna di nuova generazione, oltre l’ideologia, il femminile assurge a dinamica simbolica e universale. Questo libro di Serena Maffia parte da un dato acquisito, quel pensiero della differenza che è stato meditato a lungo da certe filosofe militanti come Luce Irigaray ad esempio, con le sue ricognizioni intorno al corpo della donna.
Un pensiero, anzi un sentire, che ha preso su di sé il carico della rimozione di corpo e sessualità femminili in quanto strumenti di conoscenza, cercando di superare questa grande mancanza della storia. Ma dati gli assunti, una dichiarata qualità di leggerezza sigla quest’ultima raccolta della Maffia, Le carte volano, imprimendo il suggello della grazia a questa densa poesia del femminino. Con una lingua figurativa e versi che a tratti lasciano tracce di pittura, l’autrice ci allaccia all’albero genealogico del femminile, all’albero del pane che germoglia di tutta la simbolica del nutrimento dando l’avvio alla prima sezione del libro.
Una lingua esperta della meccanica dei fluidi mi verrebbe da dire andando avanti nella lettura, di testo in testo, dove il registro anticlassico e quotidiano del parlato si coniuga ad un metaforismo cesellato sul significante, in versi musicali e disarmonici al tempo stesso. …La brocca che versa il vino in tavola/ colma di frizzantino dolce ,Serena definisce così la sua poesia, sottolineando la leggerezza del raccontarsi donna e madre in squarci esistenziali immersi nell’acqua memoriale della mitologia. Una lingua da cui preme una saggezza viscerale, quella di un codice innato, matriarcale, dove aleggia la leggenda di una civiltà delle donne dormiente nel loro patrimonio genetico.
Infatti questa poetessa-Penelope intreccia miti millenari di donne-archetipo (Elena, Saffo, Clio…), agli incommoda esistenziali e sentimentali di ragazza metropolitana che porta nel sangue i germi delle antiche massaie, sacerdotesse inconsapevoli dei ritmi lunari e terrestri. Un “io” psichico viene allora svuotato nella scrittura come un otre colmo di emozioni:
anfora calabrese a due bracci come si usava a Roseto
se appoggio le mani ai fianchi e alzo la testa fiera
niente da dire…
E ancora quella donna antica, terra di pane, come il paesaggio di terra spaccata e mare della nativa Calabria, robusta matrice e radice:
…salasso a gambe all’aria ed il sangue si perde…
una terra di luce lavata, distante, con la mano alla fronte
come la madre che attende il ritorno delle cicale
la calma d’una terra sfamata, Calabria terra di terre,
di frutti, di mani alla vanga
congiunte alla tavola santa, alla mensa prelibata
mani schiuse al focolare, oh terra di pane.
Quasi fosse un portato della poesia stessa l’intenzione di voler preservare il “felice passaggio matrilineare tra una donne e tutte le femmine della sua stirpe che l’hanno preceduta…quel lungo fiume di donne che è stato arginato”, volendo usare le parole della Pinkola Estès. Infittito di richiami simbolici, (acqua, vino, mare, terra…), coprotagonisti nel rapporto uomo/ donna, il racconto poetico si dispiega sempre in prima persona per destarci al coinvolgimento e all’empatia, anche quando si tratta di entrare nella violenza carnale del possesso maschile della “Ballata del viticultore”:
…vedo ancora grappolo per grappolo
quei tuoi seni pieni che leccavo, che miraggio
succhiavo toccavo odoravo stringevo pigiavo
la tua bocca grande, quando urlavi: non è mosto, mostro
lasciami stare!
È una scrittura che gioca sugli effetti della sdrammatizzazione, si abbandona alle Idiozie (prima e seconda) (forse) o alla Idiozia terza e tersa, e ci spia sorniona ed ironica con gli occhi ridenti di chi dichiara: non sono una poetessa, ma una che passa tante ore a masticare pane e vomitare il succo della / mia terra.
La porno poetessa vuole togliere solennità all’atto della scrittura del “mostropoeta” e mettersi “Al cospetto della penna” come ci mostra nella la terza e ultima sezione del libro. Questa scrittura-riflessione intrisa di nostalgia nascosta ci riporta alla mente le riflessioni di Foucault sul modo di scrivere: ” mi piacerebbe che la scrittura fosse un trucco che dilegua, che si getta, che si scrive sull’angolo di un tavolo, che si dona, che circola, che avrebbe potuto essere un volantino, un manifesto, un frammento…qualsiasi cosa…”. Dunque l’urgenza di tirasi fuori da tanta spocchia accademica dei poeti in carriera, dalla sacralità, dall’autoincensamento, dall’atteggiamento del “Per favore non mi tocchi” di chi si identifica anacronisticamente nel Vate investito di una missione inviolabile.
Il libro della Maffia, per vie traverse, alla fine ci richiama al sogno della scrittura che si vorrebbe fare, al ritrovare le parole, al riscrivere, all’inventare i modi che dispieghino la dicibilità di un’esperienza, l’esperienza del femminile, la genealogia, il legame con la madre, le “pigre ambizioni” e le “creazioni alternative”, il legame di sangue con la Poesia a “vagina piena” di tante formiche e lettere su pagine bianche. Su carte così leggere che volano alla prima corrente d’aria:
La casta sposa della Poesia riposa
si sveglia nuda, prosperosa, mi invita alla danza
spampanata, povera rosa bianca
la viola sinuosa arrangia, il cappero esplode
sulla via di polvere verso la casa antica.
*Passigli editori, Firenze 2010, pp. 87, euro 12,50
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